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Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Amina Di Muno
Lino Angiuli
Poesia
em
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Mare pugliese - Antonio Anelli |
ne sa
qualcosa / quest’ulivo / che dal medioevo / mi cresce
dentro
/ il luogo del cuore / e sa scrivere ics / sulla pagina del cielo
A febbraio del
2020 Lino Angiuli pubblica Addizioni, l’ultimo di una nutrita serie di
libri di poesia, per i tipi della Nino Aragno Editore. Angiuli, nato a
Valenzano nel 1946, vive a Monopoli, dove è stato dirigente
dell’Amministrazione Regionale dei Servizi Educativi e Culturali, nonché
collaboratore di quotidiani e dei servizi culturali della RAI. È tra i
fondatori della rivista letteraria semestrale “incroci”, arrivata con successo
al suo quarantesimo numero. Moltissime sono le sue opere. A partire dal 1967,
con la pubblicazione del libro di poesie Liriche, la sua attività di scrittore
(poesie, prosa, saggi, massime), non ha subito interruzioni.
Leggendo la produzione di questo poeta si ha la sensazione che la sua
poesia sia nata matura e a questo proposito la mente corre verso una celebre
frase di Fernando Pessoa, che di se stesso diceva: “não evoluo, VIAJO” [non
evolvo, VIAGGIO]. Frase che scrive in una lettera indirizzata all’amico Adolfo
Casais Monteiro il 20 gennaio 1935, lo stesso anno della sua morte, e specifica
che inavvertitamente la parola è stata digitata nella macchina da scrivere con
le maiuscole. Il viaggio per Pessoa, secondo quanto da lui affermato, si
realizza in pianura. Per Lino Angiuli il viaggio sembra svolgersi in un solo
luogo, in quel luogo che si identifica con la lingua della propria terra,
lingua intrisa di storia, di influenze, di modi di dire attinti dal dialetto,
(quando non espresse in dialetto puro), di espressioni arcaiche,
antropologicamente tramandate di generazione in generazione.
E il
tempo? Questo sì, è un tempo espanso, dilatato nel passato, nel presente e in
un’ipotesi di futuro. È il tempo basato sulla diacronia saussuriana. Il quadro che
ne viene fuori è il dipinto a colori di una Puglia verace fatta dell’azzurro
del mare e del verde di ogni pianta, di ogni albero che caratterizza il mondo della
macchia mediterranea immersa nelle varie stagioni: l’inverno, la primavera,
come nella poesia Maggio in rosso, per citarne una:
Potrà addolcire gli altri inverni che mi restano ancora
da vivere senza dover dire la vecchiaia è una carogna
finché il calendario annuncerà il benestare di maggio
finché il ciliegio terrà aperta l’industria del suo rosso
voglio restare a contare albe e frutti a più non posso.
Le albe e i frutti di questa terra pugliese sono millenari, come
antichissima è la sua storia, tanto antica da far risalire al paleolitico
importanti reperti databili tra i 500.000 e gli 11.000 anni da oggi. La sua
posizione strategica nel Mediterraneo la rende terra di passaggio e di incroci
fra popoli e culture diverse. Situazione che crea le basi per un arricchimento
se non altro di reciprocità. Anche in base alle esperienze e alle influenze
ricevute, il suo ruolo la spinge oggi, più che mai, al di là dei propri confini
e al di là del mare verso dinamiche di relazione culturali, commerciali, sociali
e politiche. Le sue tradizioni, di cui fanno parte la lingua, la gastronomia,
il folclore, l’architettura, sono il frutto della mescolanza di apporti
diversi.
La Puglia è, dunque, terra dalle mille culture. Culture di cui si
è nutrita l’anima, la mente, il cuore di Lino Angiuli.
Se analizziamo la vita e le opere di
questo scrittore-poeta scopriamo di volta in volta con quanta conoscenza e
consapevolezza egli penetri, sempre più a fondo, la natura e i suoi elementi.
Allo stesso modo si confronta con l’umanità, le consuetudini, i mestieri: il
libeccio, il peschereccio, l’equipaggio, per esempio, nella poesia “Sannicola”
della sezione Tre santini fattincasa.
In ogni raccolta di poesie, svariate sono
le scelte sia metriche che linguistiche. Alcune liriche sono scritte
integralmente nel dialetto di Valenzano, in altri casi, sia pure meno
frequenti, Angiuli ricorre alla composizione delle sue poesie nelle due
versioni, in italiano e anche nella versione dialettale, come nel caso di Non
voglio più morire-Nan vogghie merì chiù,
Non voglio morire più
Non voglio morire più che non voglio
morire
me lo dico a solo a solo quei giorni
che ti trovo e accolgo dentro l’occhio
mio….
Nan vogghie merì chiù
Nan vogghie merì chiù ca nan vogghie merì
m’u ddigghe a ssule a ssule chidde di’
ca t’acchje e accogghhje jind’all’ùecchie
mi’
Nel verso: “Non voglio morire più che non
voglio morire”, la ripetizione “che non voglio morire” è tipica della parlata
popolare, il ribadire il concetto ha valore rafforzativo. In altri contesti troviamo
termini ripetuti, raddoppiati: buonobuono, dolcedolce, sanosano con valore
accrescitivo. E a questo riguardo è estremamente curioso e straordinario il
paragone che si può stabilire con la lontanissima lingua degli indigeni
Tupi-Guarani in cui la ripetizione dell’ultima sillaba ha valore, appunto,
accrescitivo. Troviamo un esempio nel termine ara (pappagallino), arara
(pappagallo di taglia maggiore), e così molte altre!
Nella sezione Amleto innamorato il
poeta-traduttore affronta una sfida particolarmente complessa e originale nella
trasposizione dei sonetti 22 e 55 di William Shakespeare nel suo dialetto
natio. Completano il quadro del dialogo fra le lingue, in questa raccolta, le
traduzioni di alcuni testi realizzate da traduttori madrelinguisti in inglese,
tedesco e in lingua serba.
Il gioco linguistico si tinge di colori, a
partire dai titoli: Poesia in verde, Mare in blu, Maggio in rosso, Sogno in
marrone, Neve in bianco, o di notazioni musicali. Nella sezione Due
Confonie, musicale è il lessico dei titoli: Adagio, Largo, Grave,
Andante, Allegro con brio, Vivo. Non solo, Angiuli ricorre
all’insolito espediente di evidenziare in corsivo le note musicali: “mi
lascio andare alla predica dell’ulivo che mi cambia i
connotati e si rifà vivo per mettermi addosso qualcosa di
verde senza un’essenza non c’è esse che tenga e tutte le semenze diventano
scemenze nell’eterno ping pong tra vivai e mortai è necessario fare tabula
rasa del soldo”.
C’è in altre poesie il riferimento
numerico, matematico, nonché, qua e là, il rimando alla religione,
principalmente nel parafrasare versi delle scritture.
Meno frequente nell’intera raccolta il
canto d’amore, ma non meno intenso nella sua delicata espressività. Colpiscono
gli ultimi versi della poesia Giaculatoria di Lancillotto:
da quando non mi riesce di dire amore
senza spogliarmi correndo ad affogare
nel mare d’ogni tua pupilla senza fondo
per trovarla tutta lì la radice del mondo.
Fra gli espedienti letterari spicca l’uso
di figure retoriche e stilistiche tipiche della poesia “alta”, espressioni,
tuttavia, inframmezzate da enunciati spiccatamente popolari. Come già
evidenziato nella puntuale e rigorosa postfazione di Daniele Maria Pegorari, è
abbastanza frequente nelle diverse sezioni di Addizioni, il ricorso di
Angiuli all’anadiplosi o raddoppiamento, ossia nella ripetizione dell'ultimo
elemento di una proposizione all'inizio di quella seguente, figura retorica molto usata
nel linguaggio orale.
Il testo di Angiuli si chiude con una
breve Nota dell’autore, che per espresso desiderio e omaggio del poeta
al lettore di lingua portoghese, qui si propone in traduzione.
Palavra de alcaparra
Nota do autor
E era uma vez o que todos os manuais
escolares chamam de Humanismo: um dos muitos esforços realizados pelo homo
occidentalis na sua tentativa, não totalmente conseguida, de carregar nas
costas o peso do próprio destino e de criar um mundo… à sua imagem e semelhança.
Entretanto: descobertas, invenções,
viagens de cada tipo, obras de todos os gêneros, filosofias, governance,
produzidas na ilusão de viajar rumo àquelas “magníficas sortes e progressivas”
estigmatizadas por uma solitária gesta mencionada por uma grande mente capaz de
se expor perante o infinito e seus “sobre-humanos” silêncios, registrar sua
pulsação secreta e traduzi-la em palavras mágicas.
Pois: isso tudo, esse caminho todo chamado
de “civilização” tem enchido e enche os muitos tomos da enciclopédia humana,
que, manifestamente, não pode de maneira alguma coincidir com o livro aberto do
cosmos. De fato, o descendente de Adão e Eva se surpreende ainda verificando
que não é ele a medida do universo e quase nunca adormece lembrando-se de viver
num minúsculo grão de areia do qual faz uso descomedido e crônico abuso.
Seja como for, queira ou não queira, ele
não se deslocou do centro do próprio mundo, tomando literalmente a fabula
bíblica que o coroou como espécie dominante.
E assim acontece que, quando se comunica
entre humanos, se fala sempre em eventos humanos; quando se escuta o rádio, se
ouve sempre a mesma humana história antiga: quando se age, se age como humanos
para com outros humanos (chamados não por acaso “símiles”); quando se escrevem
livros, se escreve principalmente sobre eventos e questões humanas em
conformidade com conceitos e parâmetros humanos: ufa!!!
Consequentemente, quando nos deparamos com
criaturas diferentes, logo as levamos à visão, à mentalidade e às necessidades
do homem. Vento mar céu oliveiras estrelas plantas formigas exercem a função de
contorno e de pano de fundo dos feitos do homo duas vezes sapiens,
hipnotizado ainda pela força da clava e sempre em busca de segurança e
religiões baratas capazes de curar seu ontológico e biológico medo da morte.
Desde este ponto de vista foram geradas,
entre outras coisas, a geografia antrópica, a antroposofia, a antropologia, o
antropomorfismo… e até a antropofagia, muito divulgada sob a forma de homo
homini lupus: manifestações todas de uma “civilização” antropocêntrica, que
cancelou violentamente culturas e pensamentos de outra forma e diferentemente
fundados na relação com a Mãe Terra e o Pai Mundo!
Não foi por acaso, quando uma outra grande
mente arriscou-se a observar com “suspeita” e distância a vida, que chamou suas
reflexões de Humano, Demasiado Humano. Seu nome era Friedrich e vivia na
Europa, a Europa em que nasceram também Cortés e Descartes.
Em conclusão, ao fim e ao cabo, o ser
denominado humano apresenta muitas dificuldades em se deslocar do próprio
umbigo, em se centrifugar ou descentralizar, em se colocar no lugar ou melhor
no olho de outra criatura, e tampouco pretende abandonar essa posição
protagonística, que custou-lhe enormes tragédias e trágicas destruições
produzidas pelas numerosas tribos de humanus ou melhor dizendo de
“hupedes”.
E então?
Então falemo-nos claro, frente a frente.
Quem sabe, talvez, provavelmente, se
tentasses largar esse aparente privilégio, quem sabe, talvez, provavelmente poderias
rever tua condição, tua história e poderias, de mais a mais, meditar sobre a
consistência da tua existência ‘terrena’, devolvendo a esse adjetivo o seu
significado literal.
Quem sabe, talvez, provavelmente, bem
próximo do milagre de uma alcachofra ou de uma rosa empenhadas em brotar,
pararias de falar “o homem e a natureza” como se se tratasse de dois âmbitos
diferentes em lugar do mesmo “reino” do qual, além do mais, com toda certeza
não és o monarca, como seguem te sussurrando o arco-íris, o pôr do sol, o
horizonte e como gritam no teu ouvido, periodicamente, o terremoto, o furacão,
o tsunâmi. E acrescentarias um acento àquele e conjunção.
Quem sabe, talvez, provavelmente, passando
do sonho do Humanismo (pois trata-se de um belo sonho) ao do Vegetalismo (pois
trata-se de um belo sonho), poderias aprender a fresca língua do manjericão,
saberias escutar seus prodigiosos feitos (feitos com os quatro elementos
principais: terra, água, ar, sol) e poderias praticar a arte do silêncio para
escutar sua voz e compreender seu sentido. E entenderias que meus cem botões de
flores são só as cem palavras, pronunciadas na língua materna alcaparresa, com
as quais eu também invento discursos visões contos poesias, enquanto trabalho
para administrar minha prolífica e premiada produção de alcaparras.
Peço-te, então, que não fales sobre /
acerca da alcaparra mas que me deixes dizer e me deixes ser o que eu sou até o
fim, até o fundo terra de que sou um vivaz cata-vento, não me tomes para teu
uso e consumo mas deixa-te tomar por mim até poderes vestir o meu próprio
olhar.
Convido-te também, para que imites minhas
fontes de cor verde que sussurram verdemente e esverdeiam no olho do transeunte
cego para devolver-lhe a visão, aprender de mim que se pode secar e se pode
renascer, porque todas a criaturas animadas têm no bolso um certo número de
vidas que podem semear e cultivar, que a morte não impressiona para nada o
amor, que somos iguais e diferentes ao mesmo tempo, que basta pouco para
alimentar com dignidade tantas folhas e tantos filhos… e outras verdezas,
verdagens, verderias, verdimentas, verdações ao alcance do coração, com cuja
chama poderiam tornar-se ver(de)dades.
Convido-te, por fim, a trocar a tua
posição com a minha, a ficares não acima mas em frente ou ao meu lado para
rezarmos juntos: cada ramo um salmo (o meu), cada botão de flor uma palavra (a
minha), cada folha um versículo (o meu). Agora pega na tua mão um silêncio sem
rompê-lo, entrega-o ao vento, enquanto te lanças com força no círculo mágico do
presente e deixas que eu te receba para te ensinar o que é a ecosofia, porque
eu sou a tua alcaparra e não terás outra alcaparra além de mim.
Então, adeus Humanismo, procura ir um
pouco mais longe e passar do ego para o eco graças a uma só consoante. Digo
isto para o teu bem: palavra minha!
Amina Di Munno
Monopoli, 31/07/2020
____________________________
Como citar: DI MUNNO, Amina "Gli ulivi, Lino Angiuli". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 1., n. 9, set. 2020.
Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/212621
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