La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

 

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Che vigila sulla soglia di quest'ultima opera di Eugenio De Signoribus, Nel villaggio oscuro (Manni Editori, 2023) (esibente l'eloquente sottotitolo di Poetica e poesia): la riflessione sulla parola o la parola riflessa? Lo specchio della pantera - impressionante il prearboreo, le felci e gli arbusti spinosi delle macchie boschive (la dantesca selva) -, ci lascia il suo profumo, come stagliato in una cornice? o è il poeta a incorniciarlo in tutto - telaio e suo perimetro dorato - con la parola che riflette su sé stessa? e noi lettori che riflettiamo su di essa, seguendone la scia nelle magiche epifanie dei distici, delle terzine, delle quartine, quel profumo, scorniciato dal suo quadro, inaliamo scortati dalla nostra previdente guida?
Una paratia - composta da un unico, traslucido specchio dunque - divide la riflessione sulla poesia dalla "poesia che si fa", ma nel contempo costringe i trismi sotterranei della prosa teoretica nei ritmi della prosodia versale e la prosodia del "verbo di poesia" astringe nel flusso cogitabondo del "Dasein"...
Virtù di questo primario poeta che nutre ore rotundo i suoi versi, rintuzzandone vertigine di rétore e spogliandoli d'ogni precettismo di chierico, facendoci sentire forte la rima dove essa è uno scialbo fantasma e debole, a contrasto, la plenariamente concetta, è questo suo scendere di qualche gradino dalla sfera del celeste alla oblunga meteora del terrestre! Anche dalla prosa che agisce meditativa en poète si sprigiona e scaglia, per pura virtù di stile, la fusée aforistica che ci riconsegna alle radici sporgenti-sorgenti includenti (e inclusive) di pensiero e poesia strettamente avvinti, come in un'endiadi. Il fuoco eracliteo non fallisce il suo solare divampo.

Dunque, ricapitolando, il libro si compone di parti in prosa, di carattere per così dire auto-esegetico, in cui il poeta riflette sul suo rapporto con la parola poetica; e di parti in versi...

Subito in apertura di libro ci imbattiamo in un punto incandescente, che ruota intorno a una frase di Riccardo di San Vittore, sulla quale è bene sostare: "La parola di Dio è superiore alla sapienza del mondo perché non solo i suoni delle parole ma anche le cose indicate hanno un significato". E qui De Signoribus afferma: "Dovremmo scendere di un altro cielo e forse scrivere: La parola della poesia esprime la sapienza del mondo quando non solo i suoni delle parole ma anche le cose indicate hanno un significato..." Per concludere: "E forse dovremmo scendere ancora e scrivere: La poesia può esprimere tutto l'umano, nel suo limite e nel suo illimite, quando non solo i suoni delle parole ma anche le cose indicate hanno un significato...
Ora, forse, ci possiamo sedere su un gradino di pietra e osservare la vena trasparente e remota del travertino: e in essa vedere l'alba della materia e l'indicibile nostalgia d'ogni forma di vita, scarnita o levigata, resa vivente, opera-parola."
Davvero non si danno casi, nella nostra poesia e forse non solo, da decenni e decenni a questa parte, di libri che ci colpiscano con la loro elica o lama a questo modo, per offrirci testimonianza di questo mondo, a un cui gradino di pietra sostare e con l'ausilio del nostro bordone percuoterne la superficie, magari per scostare vilucchi di erbe e poter stabilire se esso è adatto alla sosta per un riposo o semplicemente per rifocillarci come a una mensa di pietra, la neo-eucaristica.
Per fare questo e a costo non si sa di quali sacrifici il poeta allestisce la sua opera-parola e "col dito in terra", per il cui tramite egli scrive, ci fa sentire lo zampillo prima e poi l'erompere fulgido della materia. È possibile al recensore dire qualcosa di appropriato dopo un simile avvio? Credo proprio di no! Giunge alla mente la battuta di Karl Kraus sulla Prima Guerra mondiale: "Chi ha qualcosa da dire si alzi in piedi e taccia"... E tuttavia testimoniamone, di un tale libro, come sotto l'imperativo di Tolle et lege.

In primis il poeta scende dantescamente lungo le sue cornici ma il passo è piano e in apparenza non deve scostare "ramo con tosco" perché non gli flagelli il viso. L'allure, intendendo con essa il timbro e il tono, è purgatoriale; in essa si evince "Accoglienza della prosa" ma pur anche si eleva un peana "Alla rima". In questa figura, rintuzzata poiché noiosa come "una dama di san Vincenzo" (Montale), ma qui rivitalizzata con umile vigore come se fosse detta per la prima volta, la bellezza di natura che il poeta tange e attraversa con le sue sonde linguistiche, collidendo con essa (quasi offerte per limitare la mappa: sicché son voci di contado, che servono a ritirare il troppo vocativo entro le mura d'una sua tebaide o fortilizio; oppure sono avventurose e pur naturalissime onomaturgie ma di un pascolismo spellato vivo e fatto sedere sul "cugno" di pietra della Verità: cugno non è di chi scrive ma di chi è interrogato mediante la scrittura del critico, alle sollecitazioni del quale quest'è scrittura che risponde docilmente), in essa - spassìno veloce e agile di un carillon mozartiano e stazione devozionale e drammatica di manzoniana gravità - la natura è indagata con divino timore e tremore; essa allure intride però anche dei pungenti riboboli e dei foschi ribollii del male, nel geoide fermo del visibile, ciò che fluisce come sciame dell'invisibile sub specie aeternitatis.
Insomma questa poesia-prosa (o prosa-poesia), questa novella Vita Nova, sembra giungere sino a noi da molto lontano e il panta rei ne nutre il pungiglione. Sì il pungiglione, poiché essa non ci lascia indenni una volta attraversata!
Secondo punto, il nostro focus si attesta sulla rima, a cui abbiam già fatto cenno poco sopra. La rima in De Signoribus appare disarmata, è - se mi è consentita la bizzarria del neologismo - apungiglionica. Che accade a questa rima: che è così sabianamente vocata a un semper pauperes che quasi non appare! Così, quando c'è, è come se non ci fosse, e di contro quando non c'è la sentiamo come se fosse (questo basta a rendercela indispensabile): "Ci sei se necessaria / come la torcia al buio // non come luminaria/ sul volto confidente"... Solo il buio rende assolutamente necessaria la luce, ne rescinde l'istanza se vista "come luminaria / sul volto confidente" (cioè chiaro). Non conosco poesia più ascetica e intransigente, essa è svuotata dal suo interno proprio dalla selce-suppellettile della rima... E se, dalla pattuglia dei sei distici che la celebrano sommessamente, facciamo qualche passo indietro, leggiamo in una delle prose, precisamente la seconda del libro, che ammanta con la sua ombra philosophisch la esordiale: "L'opera profondamente pensata, scavata sulle proprie radici, sposta col proprio rinnovato e ricomposto linguaggio, la percezione del proprio tempo, è in quella faglia del tempo [...]
Mi sovviene il ricordo di Montale, ancora: "La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C'è chi sopravvive. [...], rispetto ai cui versi De Signoribus si pone antifrasticamente e sin quasi antiteticamente... Se è vero, come è pur vero, che "cripte, buche e nascondigli" sono sinonimi di faglia, entro la quale il poeta osserva, senza essere visto - nel visibilio corrusco di piani che sovrastano il silenzio del creato col rimbombo dell'increato - la ferita che l'uomo infligge al mondo. E siamo ai Tempi bellici, una delle sezioni in versi del libro più alte, e più alta è la voce di questo poeta che va in simbiosi dolorante stracciandosi vesti lungo le rotte della terra imbarbarita. Ma da queste "belliche" nessuno scampa, non ci sono superstiti (mentre l'ironia montaliana si colorava di un'indulgenza che i tempi si sono incaricati di dirci quanto fosse fallace, benché ancora amara!): "e guerra fu, ancora / e di nuovo la gola / fu avvolta di spine!" // chi volteggia e dimora / sotto il cielo-telaio / vede tutto arretrare // case scapicrollare/ e radici e arie umane / spazzate per vie [...] È furioso il balenio grigio-acciaio di questi versi (specie in quel verbo di neo-conio dove la consonante intrusa fa tutta la differenza del mondo, un mondo dissolto in cenere, facendoci sentire inane e volubile ciò che è solido e ogni ubi consistam cancellato dalle mappe degli umani insediamenti); i quali versi ci restituiscono il lezzo di gole smembrate e l'afrore di scantinati così simili a trincee, così simili alle due stesse che videro strisciare pancia a terra, "nel lezzo dell'aria sbranata", Ungaretti e Rèbora. È grande l'etica di questi versi! E l'aver voluto focalizzare su questi punti il discorso sull'intero libro non nasconde ai nostri occhi - e neanche agli occhi di chi ci ha voluto seguire sin qui, le quattro dita chiuse a pugno sul pomo e l'indice che accarezza il mento con aria pensosa, in posa pensierosa - il succedersi dei fili in trama... E questi altri fili, e quanti altri fili, egli si domanda? Poi sarà lui, il lettore stesso, a riannodarli in questa poesia didattico-allegorica! Il lettore è più sapiente dello scrivente, e tuttavia quest'ultimo vuole additargli un capolavoro della odierna poesia europea, ora presente alla nostra coscienza: Il venerdì santo all'epoca della peste, nel solco che dal Manzoni degli Inni sacri arriva sino a certo Testori! Ma tutto il libro va letto e riletto come un breviario. A ogni stazione di rilettura, se lo mancheremo, lui non ci mancherà, lui ci indicherà il manque, la ferita. E grande, davvero grande, è il merito di Antonio Prete, il quale ha voluto inaugurare questa nuova collana da lui diretta nel segno di Dante, proprio nel nome di Eugenio De Signoribus. La pantera è qui col suo profumo, dietro di noi, nel prima, e davanti a noi, nel dopo, cogliendone le profumate peste. Tutto il resto è silenzio!

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Como citar: CELANI, Marco. "La poesia e la spienza del mondo". In "Revista de Literatura Italiana", v. 4, n. 1, jan-abr, 2023.  Disponível em: