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Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Alfredo Luzi
Dino Campana
poesia italiana
em
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Nell’affrontare
il rapporto tra letteratura e cinema un primo condizionamento metodologico è
determinato dal fatto che la dinamica relazionale tra le due arti presenta una
distanza cronologica plurisecolare. Mentre l’età anagrafica della letteratura
si perde nella notte dei tempi quella del cinema raggiunge oggi poco più di un
secolo (Filoteo Alberini aveva inventato,nel 1894, il kinetografo, un anno
prima che i fratelli Lumière proiettassero per la prima volta L'arrivo di un
treno alla stazione di La Ciotat il 28 dicembre 1895). Ma è con la scoperta
del montaggio da parte di George Méliès che la nuova arte acquisisce una
struttura narrativa delle immagini che la avvicina ai modelli codificati di
generi letterari come il romanzo e il racconto.
L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat il 28 dicembre 1895 |
Di
conseguenza gli studiosi, almeno per il periodo che va dalla prima metà degli
anni Dieci fino alla stagione gloriosa del neorealismo, hanno sottolineato
l’utilizzo del patrimonio letterario da parte del cinema come una sorta di
miniera da cui estrarre temi, ipotesi di sceneggiatura, personaggi, tecniche
comunicazionali. In un sistema sociale che accomuna Europa ed America sugli
schemi della nascente società di massa i cineasti si rivolgono agli scrittori
in quanto garanti di un riconoscimento collettivo. Ciò spiega ad esempio, per
limitarci all’Italia, il coinvolgimento, agli inizi del nuovo secolo, di autori
come Verga, Gozzano, Pirandello (e il riferimento è a quella sorta di trattato
di socio-psicologia del cinema che sono I
quaderni di Serafino Gubbio operatore) in quanto rappresentanti della
letteratura d’élite, diremmo oggi ‘omologata’,
ma anche di scrittori che avevano successo nella narrativa d’appendice come
Lucio d’Ambra e Carolina Invernizio.
Emblematico
è il caso di Gabriele d’Annunzio e della attribuzione alla sua penna delle
didascalie del film Cabiria (1914).
Irene Gambacorti, nel suo Storie di
cinema e letteratura,[1] ha
ricostruito la vicenda, dimostrando che le didascalie non sono di pugno del
romanziere pescarese ma che il nome d’Annunzio era una sorta di brevetto di
garanzia di popolarità, ottenuta all’incrocio tra scrittura letteraria e
personaggio mondano.
Fatto
sta che l’attenzione al cosiddetto ‘ritorno’, cioè alle influenze del cinema
sulla letteratura, comincia a farsi strada solo dopo che il cinema, grazie ai
padiglioni ambulanti installati nelle fiere o nelle Esposizioni Universali e
successivamente alle prime sale di proiezione, trova posto tra le offerte di
spettacolo più gradite al pubblico.
In
questa prospettiva Antonio Costa[2] parla di effetto ‘rebound’ che avrebbe avvio col Primo manifesto per la cinematografia
futurista firmato da Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna, Balla, Chiti, e
pubblicato nel numero 9 de «L’Italia Futurista», in cui la spinta innovativa
del cinema verso una sinergia delle arti e il poliespressivismo è condensata
nella tavola sinottica: ‘pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in
libertà + intonarumori + architettura +teatro sintetico = Cinema futurista’.
Ma
l’influsso delle tecniche cinematografiche, soprattutto della organizzazione
cronotopica delle immagini, è più agevolmente rintracciabile nei grandi
romanzieri americani attivi tra il 1930 e il 1940, Hemingway, Faulkner, Dos
Passos, Melville, alcuni dei quali hanno collaborato direttamente alla
produzione cinematografica.
E
in Italia, per mediazione culturale, potremmo individuare la presenza di codici
narrativi specifici del film proprio in quegli intellettuali come Pavese e
Vittorini che hanno contribuito a far conoscere la letteratura americana
contemporanea. Per non parlare, ma siamo già in anni di neorealismo imperante,
di alcuni scrittori che si avvicinano alla macchina da presa come
sceneggiatori, aiuto-registi o registi in proprio (e penso a Pratolini o a
Pasolini) nelle cui opere letterarie agisce l’incrocio tra la sintassi
narrativa del romanzo tradizionale e quella innovativa dell’immagine filmica. E
potremmo arrivare al Calvino di Palomar
(1983), il personaggio-telescopio che si sforza di mettere a fuoco l’apparente
oggettività del reale rimanendo invischiato nel labirinto inestricabile della
soggettività gnoseologica.
Eppure
già nel 1913 Dino Campana, il poeta
maudit per eccellenza della letteratura italiana del Novecento, attesta, in
un suo manoscritto, di aver recepito la novità di linguaggio del cinema e di
volerne adottare le tecniche discorsive nelle sue composizioni poetiche.
Infatti
ne Il più lungo giorno, che costituisce la stesura prima originale dei Canti Orfici, consegnata nel 1913 a
Soffici, andata poi perduta e ritrovata nel 1971, la sezione della Notte
presenta il titolo Cinematografia
sentimentale, sostituito successivamente da una serie di sottotitoli tra i
quali Scorci bizantini morti cinematografiche,
in cui si insiste sia sulla tecnica della focalizzazione frammentata (Campana
aveva pubblicato i primi otto paragrafi della sezione sul giornale
universitario Il Goliardo nel febbraio 1913 col titolo Torre rossa-Scorcio) sia su una
visionarietà di tipo surrealista e espressionista riscontrabile nel paragrafo
16:
Rividi un’antica immagine, una forma
scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi
gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il
corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue
mammelle estinte.[3]
E en
passant è da sottolineare il fatto
che la titolazione Cinematografia sentimentale torna, con l’aggiunta del
termine Nostalgia, rivelatore dell’attenzione
del poeta ai processi psicologici che attivano la pulsione alla scrittura, nel Taccuinetto Faentino.[4]
D’altronde
almeno fino ai primi anni Dieci del Novecento il termine cinematografia rinviava semanticamente al concetto di ‘meraviglioso’,
‘stupefacente’, per assumere in tempi successivi un significato strettamente
attinente alla narratività del film. Probabilmente Campana cassò quel titolo
perché il lemma non corrispondeva più, a distanza di qualche anno, a
quell’immagine caleidoscopica che aveva accompagnato la nascita del cinema.
In
Italia tra 1905 e 1912 circolano nelle prime sale cinematografiche fisse film
come I Promessi Sposi (1908), L’Odissea (1911), Inferno (1911), e il pubblico è sommerso da un’ondata dannunziana
con La fiaccola sotto il moggio (1911), L’innocente (1912), La Gioconda (1912). Ma l’interesse di Campana verso la nuova forma d’arte
non è tematico. Attiene piuttosto ai procedimenti stilistici, alla tecnica
delle sequenze, alla dinamica delle immagini, al tempo narrativo, a tutte
quelle novità strutturali e compositive che caratterizzano le esperienze
artistiche di avanguardia come il dinamismo plastico dei futuristi, la
simultaneità prospettica dei cubisti, il ritmo visivo dell’aeropittura, la
visionarietà dei surrealisti.
E
in ambito cinematografico possiamo far riferimento alla teoria della
traiettoria del gesto elaborata in Fotodinamismo
(1912) di Anton Giulio Bragaglia o agli studi di Sebastiano Arturo Luciani
sfociati nel 1920 nel volume Verso una
nuova arte, il cinematografo.
Tra
1910 e 1930 insomma c’è nella cultura europea
una tensione, differenziata negli esiti, verso la sinergia delle arti
(letteratura, pittura, scultura, teatro, cinema, musica) presente anche nella
scrittura campaniana.
Se
esaminiamo il primo paragrafo della Notte
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura
sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e
molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in
magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla
riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di
adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal
mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia
primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso .[5]
possiamo notare che esso presenta un carattere
anfibologico. Il brano è costruito su una forte struttura chiusa costituita da
un aggregato di linguaggio nominale, le cui componenti sono connesse su un
piano orizzontale dall’uso dei due punti, che si apre con la funzione dinamica
dell’attività mnesica in prospettiva gnoseologica (“Ricordo”) e si chiude con la uscita dalla dimensione
cronologico-esistenziale (“e del tempo
fu sospeso il corso”), in un cammino dalla superficie verso il profondo,
verso l’immaginario onirico, confermato dall’avverbio di attacco del secondo
paragrafo (“inconsciamente”).
Questa struttura chiusa è sostenuta dalla modulazione anaforica (“lontano”, “lontano”, “lontane”; “arsa”,
“torrido”; “impaludato”, “palude”). Ma nello stesso tempo questo testo
presenta uno svolgimento processuale ad alta velocità, molto simile al
movimento della macchina da presa che parta da un campo lungo (la città rossa e turrita sulla pianura sterminata con lo sfondo delle colline),
si soffermi per un attimo su un campo americano in cui visivamente convivano,
in una prospettiva appiattita, gli archi
enormemente vuoti, le sagome nere di
zingari e le forme ignude di adolescenti,
per zoomare su una soggettiva che metta in primo piano il profilo e
la barba giudaica di un vecchio.
Il
paragrafo è dunque strutturato in una serie di scene in rapida successione
connesse tra loro solo dalla interpunzione e dal movimento sequenziale
dell’occhio del lettore-spettatore. Nella processualità iconica che attraversa
la stratificazione dello spazio interiore si determina un passaggio a vari
stati sensoriali che va dalla visività interna (“ricordo una città”) alla percezione tattile (“il lontano refrigerio”) a quella
auditiva (i lemmi relativi al silenzio e infine “il canto, da la palude afona
una nenia primordiale monotona e irritante”), con l’ultimo
aggettivo ad indicare la reattività psicologica dello scrittore-astante. Con
questa tecnica espressiva Campana realizza la condensazione emotiva teorizzata
dai futuristi e si avvicina ad una idea della scrittura come sinergia
artistica. Ma non solo. In qualche modo, nel brano in esame, è attivo un
progressivo spostamento dell’atto di focalizzazione. Ciò che la narratologia
cinematografica ha evidenziato in questi ultimi decenni, soprattutto grazie
agli studi di Genette, di Barthes e di Jost[6],
ossia la sostituzione nel passaggio dalla letteratura al cinema della parola
con la vista, e la compresenza nel film di processi di “ocularizzazione” e
“auricularizzazione”, è già presente in un paragrafo di 13 righe in cui la
parola sostiene una narrazione prevalentemente iconica che alla fine muta in
percezione sonora, condizione indispensabile per attivare la disintegrazione
delle categorie kantiane di tempo e spazio e procedere alla simbolizzazione
della realtà attraverso l’incarnazione onirica.
Per
ovvie ragioni cronologiche legate allo sviluppo tecnologico del cinema Campana
non può essere stato influenzato dall'utilizzo del sonoro cinematografico, anche se è da sottolineare il fatto che i primi
esperimenti di sincronizzazione di suoni e immagini risalgono, in Italia, al
1906, realizzati a Pisa da Pietro Pierini, l'inventore dell'isosincronizzatore,
mentre l'utilizzo su ampia scala di film sonori avrebbe preso avvio alla fine
degli anni Venti. E tuttavia Campana dimostra, in qualche modo, grazie ad una
sua attenzione alla psicologia della scrittura che in quel periodo era posta
alla attenzione del dibattito letterario delle avanguardie, di aver intuito
l'efficacia della dinamica della focalizzazione per raggiungere una sintesi
sensoriale.
I paragrafi successivi, soprattutto fino
all’ottavo, (a partire dal nono c’è come una cesura strutturale caratterizzata
da un più accentuato andamento narrativo e tematico centralizzato sull’io
narrante, pur nella costante frammentarietà delle sequenze), confermano la
commistione tra isotopie visive e auditive.
Nel
secondo paragrafo leggiamo (occhi - visioni - fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia; silenzio - un tocco di
campana argentino); nel terzo (la torre barbara - una piazzetta
deserta - casupole schiacciate; silenzio - non si udiva il rumore dei
suoi passi - finestre mute - una fontana del cinquecento taceva);
nel quinto (strisciavano le loro ombre -
un vecchio si voltò a guardarlo - la
donna sorrideva; una parola che cadde
nel silenzio); nel settimo (antichi ritratti - agile forma - pelle ambrata - orti verdissimi - muri
rosseggianti; sfilava monotona ai
miei orecchi - ascoltava curiosamente - noi
soli tre vivi nel silenzio meridiano).
Comunque
anche nei brani successivi la sinergia sensoriale, con l’aggiunta dell’odorato
peraltro già presente nelle strade male
odoranti del sesto paragrafo, (l’odore
pirico di sera - undicesimo, l’odore
acuto - dodicesimo, l’odor lussurioso
dei vichi - diciassettesimo, il tuo profumo - diciannovesimo), persiste.
Come
ha osservato Maura Del Serra,[7] la
liberazione dal tempo storico unidirezionale è scandita in tutta La Notte dalla frequenza dei tempi
verbali del passato e dell’imperfetto, ma il passaggio dal ricordo al sogno
(che equivale ad uno slittamento dalla visività alla visionarietà) spinge le
immagini verso una dimensione antinaturalistica, surrealistica, verso una
formalizzazione astratta. Non a caso la parola-chiave che è elemento di
connessione concettuale dei primi otto paragrafi si può individuare nell’inconscio, raggiunto attraverso
l’accesso al mito, rinunciando cioè alla ratio
intellettuale e andando alla ricerca di un viaggio in una dimensione altra.
Opportunamente, in un ormai lontano saggio del 1976, Invito alla lettura di Dino Campana, Ruggero Jacobbi definì La Notte il “simbolo riassuntivo
dell’inconscio”.[8] La
collocazione dell’avverbio “inconsciamente” in posizione iniziale del secondo
paragrafo e del terzo condiziona interamente la percezione patetica del lettore
che si muove tra elementi iconici che hanno raggiunto un valore simbolico senza
però aver perso completamente la loro marca di vissuto memoriale. E l’isotopia
è confermata dal “riso incosciente” del quarto paragrafo, dai lemmi “automa” ed “ebete” del quinto,
dalla dichiarazione di impossibilità gnoseologica con cui si apre il sesto: “Non seppi mai come……rividi la mia ombra che
mi derideva nel fondo” (sdoppiamento del soggetto e tematica del doppio)
e dal ritorno nell’ottavo paragrafo dell’avverbio “inconsciamente” collocato
questa volta quasi in funzione gnomica alla fine del brano: “anime infeconde
inconsciamente cercanti il problema della loro vita”.
La
tessitura iconica del componimento in esame è costituita da un coacervo di
immagini che crea un discretum visivo
nel cui groviglio il lettore-spettatore, come avviene nel succedersi delle
sequenze filmiche, porta la sua tensione al continuum,
svolgendo una funzione unificante di connessione e di direzione delle scene
contigue.
Che Campana proceda verso una iconografia d’impronta
surrealista fino ai limiti dell’astrattismo si può dedurre dal fatto che la
visività o è rarefatta a segno (il testo della prima parte della Notte è fitto di “sagome”, “forme”, “profilo”,
“profili”, “forme oblique”, “le loro ombre”, “la mia ombra”, “l’agile forma”,
“profilarsi a mezzo i ponti”, “volte di tre quarti”, “pose legnose”) o è
smaterializzata da un processo di diffrazione ottica e di dubbio
epistemologico, soprattutto nella seconda parte (9-20), dove la tramatura,
costituita dalle “varie immagini”, “immagini avventurose”, “immagini candide”,
“un’antica immagine”, si scompone nell’impatto con la frequenza lemmatica del
sogno (e i due termini sono spesso sintatticamente contigui) e si scontra con
la forza enigmatica della specularità (gli specchi rinviano un’immagine
scomposta e rovesciata, mettendo in crisi la coscienza del sé). Gli specchi,
nella Notte, come in altri
componimenti poetici campaniani i vetri (e si pensi in particolare al noto testo de L’invetriata) defocalizzano l’immagine,
la trasformano da visività in visionarietà, favorendo la collocazione delle
sequenze, legate iconicamente tra loro da semplici asterischi, segni diacritici
di frammentarietà e nello stesso tempo di tensione unitaria, in una distanza
cronotopica entro cui si inscrive il processo formalizzante della scrittura
campaniana. D’altronde, proprio uno dei più illustri studiosi della tematica
dello specchio, Jacques Lacan ha scritto che «quando ci si limita a un rapporto
immaginario fra oggetti, per potergli dare un ordine non resta che la
dimensione della distanza».[9]
Così, nel turbinio cromatico, figurativo e tematico della Notte si insinua l’assenza, lo stato di perdita e in ultima analisi
il senso della morte.
Sul testo della Notte
ha scritto Teresa Ferri:
mentre ci lascia credere
di “vedere” ciò che va componendosi sulla scena della scrittura, ci fa
immediatamente constatare che non tutto è lì, ma che occorre invece focalizzare
l’attenzione […] su questo spazio che continua ad aprirsi vorticosamente
davanti a noi, rivelandosi solo nel buio del suo abisso avvincente ed
invitante.[10]
Questa tipologia di lettura offre una ragione ermeneutica
proprio a quel sottotitolo poi cancellato di “morti cinematografiche”. Senza
addentrarsi troppo in una analisi strutturale e sintattica, è sufficiente segnalare il fatto che i
paragrafi 10, 11, 12, 18, si chiudono con una anafora, rivelatrice della
funzione della iterazione e del parallelismo nello stile di Campana, che li
accomuna: “panorama scheletrico del mondo”, con in più una ripresa all’interno
del testo 12: “C’erano dei panorami
scheletrici di città”, e nel 16 il riferimento ad una “forma scheletrica
vivente”. In questa prospettiva di
‘straniamento’ che avvicina ancora di più Campana alle esperienze surrealiste
ed espressioniste nelle varie arti si
può leggere quella “spettralizzazione della luce” di cui parla Fiorenza
Ceragioli, documentata da una minuziosa analisi aggettivale in cui ricorrono
spesso lemmi come “catastrofica”, “spettrale”, “orrido”, “sanguigna”, etc.
I punti di contatto tra la testualità campaniana e le
tecniche cinematografiche sono molteplici e meriterebbero uno studio più ampio
(in particolare per quanto attiene l’utilizzo da parte del poeta dei
procedimenti di flashback e di flashforward, l’adozione della ellissi,
la resa del movimento delle immagini attraverso la modifica del punto di vista
- emblematico il brano di Pampa, in
cui Campana descrive il paesaggio argentino che gli corre incontro mentre l’io
narrante si trova su un vagone scoperto).
Ma almeno due altre considerazioni, per così dire, di
‘omologia strutturale’ tra la tecnica espressiva di Campana e alcune proposte
metodologiche di studio del linguaggio cinematografico si impongono.
La prima attiene al fatto che, da un quadro di insieme della Notte, si evince la presenza marcata
della poetica del divenire e del vortice che riesce a rompere la dualità geometria-asimmetria,
traccia sulla scrittura della dualità concettuale ordine-disordine. Le immagini
campaniane nascono dal caos (altro lemma frequente nei Canti Orfici) delle cose, della memoria non solo biografica ma
anche culturale ed artistica, della immaginazione. Il discorso procede quindi
per ondate, attraverso spostamenti improvvisi di soggetto, cambi di tempo
verbale, aggregazioni aggettivali ternarie, uso di discorso libero indiretto,
flussi di coscienza. E allora come non pensare al confronto con il saggio di
Pasolini, Cinema di poesia, in Empirismo eretico[11]
in cui il poeta-narratore-regista teorizza l’adozione della soggettiva libera
diretta come specificità del linguaggio cinematografico, privo di capacità
astraente e concettuale, ma denso anch’esso di icone tratte dal caos
dell’esistenza umana?
La seconda nasce ancora una volta dal tentativo di dare un
valore critico-estetico a certi sondaggi stilistici effettuati sul testo della Notte. A livello aggettivale, ma non
solo, i brani in esame presentano come costante un passaggio dalla dimensione
visiva a quella auditiva o olfattiva o tattile fino a giungere ad una
caratterizzazione patetica. Da un passaggio di immagini ad un passaggio di
emozioni. Campana utilizza in anticipo in letteratura una dinamica di movimenti
passionali, di scarti emotivi, di condensazioni psicologiche, adottando la
tecnica delle isotopie patetiche, teorizzata da un grande studioso della
ricezione letteraria e filmica come Greimas, nel volume intitolato non a caso Del senso2.[12]
Risonanza visuale e teatralizzazione del pensiero sono, in
ultima sintesi, i punti di contatto tra la scrittura orfica di Campana e la
scrittura filmica di cui Campana aveva intuito la carica di innovazione
comunicazionale e culturale.
[1] Irene
Gambacorti, Storie di cinema e di
letteratura, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003.
[2] Antonio Costa,
Immagine di un’immagine. Cinema e
letteratura, Torino, utet,
1993. Cfr. anche Antonio Costa, Nel corpo dell’immagine, la parola: la
citazione letteraria nel cinema, in Cinema
e letteratura: percorsi di confine, a cura di Ivelise Perniola, Venezia,
Marsilio, 2002.
[3] Dino Campana,
La Notte, in Canti Orfici, introduzione e commento di Fiorenza Ceragioli, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 96-97.
[4] Dino Campana,
Taccuinetto Faentino, a cura di
Domenico De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1960.
[5] Dino Camppana, Canti Orfici,
op.cit., p.83.
[6] Cfr. nell’ordine Gérard
Genette, Seuils, Paris, Seuil,
1987, trad.it. Soglie. I dintorni del
testo, Torino, Einaudi, 1989; Roland
Barthes, Sul cinema, Genova,
Il Melangolo, 1994; François Jost, L’oeil-caméra.
Entre film et roman, Lyon, Presses
Universitaires de Lyon, 1987.
[7] Cfr. Maura Del
Serra, L’immagine aperta. Poetica
e stilistica dei Canti Orfici,
Firenze, La Nuova Italia, 1973.
[8] Ruggero Jacobbi, Invito alla lettura di Dino Campana, Milano, Mursia, 1976, p. 33.
[9] Jaques Lacan, Écrits, Paris, Seuil, 1966, trad.it. Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. II, p. 604.
[10] Teresa Ferri,
La Notte degli “Orfici” o la scrittura
dell’Impossibile allo specchio, «Nuova Corrente», 82-83, 1980, p. 82.
[11] Cfr. Pier Paolo
Pasolini, Empirismo eretico,
Milano, Garzanti, 1972.
[12] Cfr. Algirdas Julien Greimas, Du sens II, Paris, Seuil, 1983, trad. it. Del senso 2.
Narratività, modalità, passioni,
Milano, Bompiani, 1985.
como citar: LUZI, Alfredo. “La Notte di Campana: la scrittura come sinergia artistica e dinamica iconica”. In Literatura Italian Traduzida, v.1., n.7, jul. 2020.Disponível em https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/209569
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