La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

La Notte di Campana: la scrittura come sinergia artistica e dinamica iconica, di Alfredo Luzi

Nell’affrontare il rapporto tra letteratura e cinema un primo condizionamento metodologico è determinato dal fatto che la dinamica relazionale tra le due arti presenta una distanza cronologica plurisecolare. Mentre l’età anagrafica della letteratura si perde nella notte dei tempi quella del cinema raggiunge oggi poco più di un secolo (Filoteo Alberini aveva inventato,nel 1894, il kinetografo, un anno prima che i fratelli Lumière proiettassero per la prima volta L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat il 28 dicembre 1895). Ma è con la scoperta del montaggio da parte di George Méliès che la nuova arte acquisisce una struttura narrativa delle immagini che la avvicina ai modelli codificati di generi letterari come il romanzo e il racconto.

L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat il 28 dicembre 1895


Di conseguenza gli studiosi, almeno per il periodo che va dalla prima metà degli anni Dieci fino alla stagione gloriosa del neorealismo, hanno sottolineato l’utilizzo del patrimonio letterario da parte del cinema come una sorta di miniera da cui estrarre temi, ipotesi di sceneggiatura, personaggi, tecniche comunicazionali. In un sistema sociale che accomuna Europa ed America sugli schemi della nascente società di massa i cineasti si rivolgono agli scrittori in quanto garanti di un riconoscimento collettivo. Ciò spiega ad esempio, per limitarci all’Italia, il coinvolgimento, agli inizi del nuovo secolo, di autori come Verga, Gozzano, Pirandello (e il riferimento è a quella sorta di trattato di socio-psicologia del cinema che sono I quaderni di Serafino Gubbio operatore) in quanto rappresentanti della letteratura d’élite, diremmo oggi ‘omologata’, ma anche di scrittori che avevano successo nella narrativa d’appendice come Lucio d’Ambra e Carolina Invernizio.
Emblematico è il caso di Gabriele d’Annunzio e della attribuzione alla sua penna delle didascalie del film Cabiria (1914). Irene Gambacorti, nel suo Storie di cinema e letteratura,[1] ha ricostruito la vicenda, dimostrando che le didascalie non sono di pugno del romanziere pescarese ma che il nome d’Annunzio era una sorta di brevetto di garanzia di popolarità, ottenuta all’incrocio tra scrittura letteraria e personaggio mondano.
Fatto sta che l’attenzione al cosiddetto ‘ritorno’, cioè alle influenze del cinema sulla letteratura, comincia a farsi strada solo dopo che il cinema, grazie ai padiglioni ambulanti installati nelle fiere o nelle Esposizioni Universali e successivamente alle prime sale di proiezione, trova posto tra le offerte di spettacolo più gradite al pubblico.
In questa prospettiva Antonio Costa[2] parla di effetto ‘rebound’ che avrebbe avvio col Primo manifesto per la cinematografia futurista firmato da Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna, Balla, Chiti, e pubblicato nel numero 9 de «L’Italia Futurista», in cui la spinta innovativa del cinema verso una sinergia delle arti e il poliespressivismo è condensata nella tavola sinottica: ‘pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in libertà + intonarumori + architettura +teatro sintetico = Cinema futurista’.
Ma l’influsso delle tecniche cinematografiche, soprattutto della organizzazione cronotopica delle immagini, è più agevolmente rintracciabile nei grandi romanzieri americani attivi tra il 1930 e il 1940, Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Melville, alcuni dei quali hanno collaborato direttamente alla produzione cinematografica.
E in Italia, per mediazione culturale, potremmo individuare la presenza di codici narrativi specifici del film proprio in quegli intellettuali come Pavese e Vittorini che hanno contribuito a far conoscere la letteratura americana contemporanea. Per non parlare, ma siamo già in anni di neorealismo imperante, di alcuni scrittori che si avvicinano alla macchina da presa come sceneggiatori, aiuto-registi o registi in proprio (e penso a Pratolini o a Pasolini) nelle cui opere letterarie agisce l’incrocio tra la sintassi narrativa del romanzo tradizionale e quella innovativa dell’immagine filmica. E potremmo arrivare al Calvino di Palomar (1983), il personaggio-telescopio che si sforza di mettere a fuoco l’apparente oggettività del reale rimanendo invischiato nel labirinto inestricabile della soggettività gnoseologica.
Eppure già nel 1913 Dino Campana, il poeta maudit per eccellenza della letteratura italiana del Novecento, attesta, in un suo manoscritto, di aver recepito la novità di linguaggio del cinema e di volerne adottare le tecniche discorsive nelle sue composizioni poetiche.
Infatti ne Il più lungo giorno, che costituisce la stesura prima originale dei Canti Orfici, consegnata nel 1913 a Soffici, andata poi perduta e ritrovata nel 1971, la sezione della  Notte presenta il titolo Cinematografia sentimentale, sostituito successivamente da una serie di sottotitoli tra i quali Scorci bizantini morti cinematografiche, in cui si insiste sia sulla tecnica della focalizzazione frammentata (Campana aveva pubblicato i primi otto paragrafi della sezione sul giornale universitario Il Goliardo nel febbraio 1913 col titolo Torre rossa-Scorcio) sia su una visionarietà di tipo surrealista e espressionista riscontrabile nel paragrafo 16:


Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte.[3]

         E en passant è da  sottolineare il fatto che la titolazione Cinematografia sentimentale torna, con l’aggiunta del termine Nostalgia, rivelatore dell’attenzione del poeta ai processi psicologici che attivano la pulsione alla scrittura, nel Taccuinetto Faentino.[4]
D’altronde almeno fino ai primi anni Dieci del Novecento il termine cinematografia rinviava semanticamente al concetto di ‘meraviglioso’, ‘stupefacente’, per assumere in tempi successivi un significato strettamente attinente alla narratività del film. Probabilmente Campana cassò quel titolo perché il lemma non corrispondeva più, a distanza di qualche anno, a quell’immagine caleidoscopica che aveva accompagnato la nascita del cinema.
In Italia tra 1905 e 1912 circolano nelle prime sale cinematografiche fisse film come I Promessi Sposi (1908), L’Odissea (1911), Inferno (1911), e il pubblico è sommerso da un’ondata dannunziana con La fiaccola sotto il moggio (1911), L’innocente (1912), La Gioconda (1912). Ma l’interesse di Campana verso la nuova forma d’arte non è tematico. Attiene piuttosto ai procedimenti stilistici, alla tecnica delle sequenze, alla dinamica delle immagini, al tempo narrativo, a tutte quelle novità strutturali e compositive che caratterizzano le esperienze artistiche di avanguardia come il dinamismo plastico dei futuristi, la simultaneità prospettica dei cubisti, il ritmo visivo dell’aeropittura, la visionarietà dei surrealisti.
E in ambito cinematografico possiamo far riferimento alla teoria della traiettoria del gesto elaborata in Fotodinamismo (1912) di Anton Giulio Bragaglia o agli studi di Sebastiano Arturo Luciani sfociati nel 1920 nel volume Verso una nuova arte, il cinematografo.
Tra 1910 e 1930 insomma c’è nella cultura europea una tensione, differenziata negli esiti, verso la sinergia delle arti (letteratura, pittura, scultura, teatro, cinema, musica) presente anche nella scrittura campaniana.
Se esaminiamo il primo paragrafo della Notte

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso .[5]

 possiamo notare che esso presenta un carattere anfibologico. Il brano è costruito su una forte struttura chiusa costituita da un aggregato di linguaggio nominale, le cui componenti sono connesse su un piano orizzontale dall’uso dei due punti, che si apre con la funzione dinamica dell’attività mnesica in prospettiva gnoseologica (“Ricordo”) e si chiude con la uscita dalla dimensione cronologico-esistenziale (“e del tempo fu sospeso il corso”), in un cammino dalla superficie verso il profondo, verso l’immaginario onirico, confermato dall’avverbio di attacco del secondo paragrafo (“inconsciamente”). Questa struttura chiusa è sostenuta dalla modulazione anaforica (“lontano”, “lontano”, “lontane”; “arsa”, “torrido”; “impaludato”, “palude”). Ma nello stesso tempo questo testo presenta uno svolgimento processuale ad alta velocità, molto simile al movimento della macchina da presa che parta da un campo lungo (la città rossa e turrita sulla pianura sterminata con lo sfondo delle colline), si soffermi per un attimo su un campo americano in cui visivamente convivano, in una prospettiva appiattita, gli archi enormemente vuoti, le sagome nere di zingari e le forme ignude di adolescenti, per zoomare su una soggettiva che metta in primo piano il profilo e la barba giudaica di un vecchio.
Il paragrafo è dunque strutturato in una serie di scene in rapida successione connesse tra loro solo dalla interpunzione e dal movimento sequenziale dell’occhio del lettore-spettatore. Nella processualità iconica che attraversa la stratificazione dello spazio interiore si determina un passaggio a vari stati sensoriali che va dalla visività interna (“ricordo una città”) alla percezione tattile (“il lontano refrigerio”) a quella auditiva (i lemmi relativi al silenzio e infine “il canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante”), con l’ultimo aggettivo ad indicare la reattività psicologica dello scrittore-astante. Con questa tecnica espressiva Campana realizza la condensazione emotiva teorizzata dai futuristi e si avvicina ad una idea della scrittura come sinergia artistica. Ma non solo. In qualche modo, nel brano in esame, è attivo un progressivo spostamento dell’atto di focalizzazione. Ciò che la narratologia cinematografica ha evidenziato in questi ultimi decenni, soprattutto grazie agli studi di Genette, di Barthes e di Jost[6], ossia la sostituzione nel passaggio dalla letteratura al cinema della parola con la vista, e la compresenza nel film di processi di “ocularizzazione” e “auricularizzazione”, è già presente in un paragrafo di 13 righe in cui la parola sostiene una narrazione prevalentemente iconica che alla fine muta in percezione sonora, condizione indispensabile per attivare la disintegrazione delle categorie kantiane di tempo e spazio e procedere alla simbolizzazione della realtà attraverso l’incarnazione onirica.
Per ovvie ragioni cronologiche legate allo sviluppo tecnologico del cinema Campana non può essere stato influenzato dall'utilizzo del sonoro cinematografico, anche se è da sottolineare il fatto che i primi esperimenti di sincronizzazione di suoni e immagini risalgono, in Italia, al 1906, realizzati a Pisa da Pietro Pierini, l'inventore dell'isosincronizzatore, mentre l'utilizzo su ampia scala di film sonori avrebbe preso avvio alla fine degli anni Venti. E tuttavia Campana dimostra, in qualche modo, grazie ad una sua attenzione alla psicologia della scrittura che in quel periodo era posta alla attenzione del dibattito letterario delle avanguardie, di aver intuito l'efficacia della dinamica della focalizzazione per raggiungere una sintesi sensoriale.
 I paragrafi successivi, soprattutto fino all’ottavo, (a partire dal nono c’è come una cesura strutturale caratterizzata da un più accentuato andamento narrativo e tematico centralizzato sull’io narrante, pur nella costante frammentarietà delle sequenze), confermano la commistione tra isotopie visive e auditive.
Nel secondo paragrafo leggiamo (occhi - visioni - fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia; silenzio - un tocco di campana argentino); nel terzo (la torre barbara - una piazzetta deserta - casupole schiacciate; silenzio - non si udiva il rumore dei suoi passi - finestre mute - una fontana del cinquecento taceva); nel quinto (strisciavano le loro ombre - un vecchio si voltò a guardarlo - la donna sorrideva; una parola che cadde nel silenzio); nel settimo (antichi ritratti - agile forma - pelle ambrata - orti verdissimi - muri rosseggianti; sfilava monotona ai miei orecchi - ascoltava curiosamente - noi soli tre vivi nel silenzio meridiano).
Comunque anche nei brani successivi la sinergia sensoriale, con l’aggiunta dell’odorato peraltro già presente nelle strade male odoranti del sesto paragrafo, (l’odore pirico di sera - undicesimo, l’odore acuto - dodicesimo, l’odor lussurioso dei vichi - diciassettesimo, il tuo profumo - diciannovesimo), persiste.
Come ha osservato Maura Del Serra,[7] la liberazione dal tempo storico unidirezionale è scandita in tutta La Notte dalla frequenza dei tempi verbali del passato e dell’imperfetto, ma il passaggio dal ricordo al sogno (che equivale ad uno slittamento dalla visività alla visionarietà) spinge le immagini verso una dimensione antinaturalistica, surrealistica, verso una formalizzazione astratta. Non a caso la parola-chiave che è elemento di connessione concettuale dei primi otto paragrafi si può individuare nell’inconscio, raggiunto attraverso l’accesso al mito, rinunciando cioè alla ratio intellettuale e andando alla ricerca di un viaggio in una dimensione altra. Opportunamente, in un ormai lontano saggio del 1976, Invito alla lettura di Dino Campana, Ruggero Jacobbi definì La Notte il “simbolo riassuntivo dell’inconscio”.[8] La collocazione dell’avverbio “inconsciamente” in posizione iniziale del secondo paragrafo e del terzo condiziona interamente la percezione patetica del lettore che si muove tra elementi iconici che hanno raggiunto un valore simbolico senza però aver perso completamente la loro marca di vissuto memoriale. E l’isotopia è confermata dal “riso incosciente” del quarto paragrafo, dai lemmi  automa” ed “ebete” del quinto, dalla dichiarazione di impossibilità gnoseologica con cui si apre il sesto: “Non seppi mai come……rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo” (sdoppiamento del soggetto e tematica del doppio) e dal ritorno nell’ottavo paragrafo dell’avverbio “inconsciamente” collocato questa volta quasi in funzione gnomica alla fine del brano: “anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita”.
La tessitura iconica del componimento in esame è costituita da un coacervo di immagini che crea un discretum visivo nel cui groviglio il lettore-spettatore, come avviene nel succedersi delle sequenze filmiche, porta la sua tensione al continuum, svolgendo una funzione unificante di connessione e di direzione delle scene contigue.
Che Campana proceda verso una iconografia d’impronta surrealista fino ai limiti dell’astrattismo si può dedurre dal fatto che la visività o è rarefatta a segno (il testo della prima parte della Notte è fitto di “sagome”, “forme”, “profilo”, “profili”, “forme oblique”, “le loro ombre”, “la mia ombra”, “l’agile forma”, “profilarsi a mezzo i ponti”, “volte di tre quarti”, “pose legnose”) o è smaterializzata da un processo di diffrazione ottica e di dubbio epistemologico, soprattutto nella seconda parte (9-20), dove la tramatura, costituita dalle “varie immagini”, “immagini avventurose”, “immagini candide”, “un’antica immagine”, si scompone nell’impatto con la frequenza lemmatica del sogno (e i due termini sono spesso sintatticamente contigui) e si scontra con la forza enigmatica della specularità (gli specchi rinviano un’immagine scomposta e rovesciata, mettendo in crisi la coscienza del sé). Gli specchi, nella Notte, come in altri componimenti poetici campaniani i vetri (e si pensi  in particolare al noto testo de L’invetriata) defocalizzano l’immagine, la trasformano da visività in visionarietà, favorendo la collocazione delle sequenze, legate iconicamente tra loro da semplici asterischi, segni diacritici di frammentarietà e nello stesso tempo di tensione unitaria, in una distanza cronotopica entro cui si inscrive il processo formalizzante della scrittura campaniana. D’altronde, proprio uno dei più illustri studiosi della tematica dello specchio, Jacques Lacan ha scritto che «quando ci si limita a un rapporto immaginario fra oggetti, per potergli dare un ordine non resta che la dimensione della distanza».[9] Così, nel turbinio cromatico, figurativo e tematico della Notte si insinua l’assenza, lo stato di perdita e in ultima analisi il senso della morte.
Sul testo della Notte ha scritto Teresa Ferri: 

mentre ci lascia credere di “vedere” ciò che va componendosi sulla scena della scrittura, ci fa immediatamente constatare che non tutto è lì, ma che occorre invece focalizzare l’attenzione […] su questo spazio che continua ad aprirsi vorticosamente davanti a noi, rivelandosi solo nel buio del suo abisso avvincente ed invitante.[10]

Questa tipologia di lettura offre una ragione ermeneutica proprio a quel sottotitolo poi cancellato di “morti cinematografiche”. Senza addentrarsi troppo in una analisi strutturale e sintattica,  è sufficiente segnalare il fatto che i paragrafi 10, 11, 12, 18, si chiudono con una anafora, rivelatrice della funzione della iterazione e del parallelismo nello stile di Campana, che li accomuna: “panorama scheletrico del mondo”, con in più una ripresa all’interno del testo 12: “C’erano dei panorami scheletrici di città”, e nel 16 il riferimento ad una “forma scheletrica vivente”. In questa prospettiva di ‘straniamento’ che avvicina ancora di più Campana alle esperienze surrealiste ed espressioniste nelle varie arti  si può leggere quella “spettralizzazione della luce” di cui parla Fiorenza Ceragioli, documentata da una minuziosa analisi aggettivale in cui ricorrono spesso lemmi come “catastrofica”, “spettrale”, “orrido”, “sanguigna”, etc.
I punti di contatto tra la testualità campaniana e le tecniche cinematografiche sono molteplici e meriterebbero uno studio più ampio (in particolare per quanto attiene l’utilizzo da parte del poeta dei procedimenti di flashback e di flashforward, l’adozione della ellissi, la resa del movimento delle immagini attraverso la modifica del punto di vista - emblematico il brano di Pampa, in cui Campana descrive il paesaggio argentino che gli corre incontro mentre l’io narrante si trova su un vagone scoperto).
Ma almeno due altre considerazioni, per così dire, di ‘omologia strutturale’ tra la tecnica espressiva di Campana e alcune proposte metodologiche di studio del linguaggio cinematografico si impongono.
La prima attiene al fatto che, da un quadro di insieme della Notte, si evince la presenza marcata della poetica del divenire e del vortice che riesce a rompere la dualità geometria-asimmetria, traccia sulla scrittura della dualità concettuale ordine-disordine. Le immagini campaniane nascono dal caos (altro lemma frequente nei Canti Orfici) delle cose, della memoria non solo biografica ma anche culturale ed artistica, della immaginazione. Il discorso procede quindi per ondate, attraverso spostamenti improvvisi di soggetto, cambi di tempo verbale, aggregazioni aggettivali ternarie, uso di discorso libero indiretto, flussi di coscienza. E allora come non pensare al confronto con il saggio di Pasolini, Cinema di poesia, in Empirismo eretico[11] in cui il poeta-narratore-regista teorizza l’adozione della soggettiva libera diretta come specificità del linguaggio cinematografico, privo di capacità astraente e concettuale, ma denso anch’esso di icone tratte dal caos dell’esistenza umana?
La seconda nasce ancora una volta dal tentativo di dare un valore critico-estetico a certi sondaggi stilistici effettuati sul testo della Notte. A livello aggettivale, ma non solo, i brani in esame presentano come costante un passaggio dalla dimensione visiva a quella auditiva o olfattiva o tattile fino a giungere ad una caratterizzazione patetica. Da un passaggio di immagini ad un passaggio di emozioni. Campana utilizza in anticipo in letteratura una dinamica di movimenti passionali, di scarti emotivi, di condensazioni psicologiche, adottando la tecnica delle isotopie patetiche, teorizzata da un grande studioso della ricezione letteraria e filmica come Greimas, nel volume intitolato non a caso Del senso2.[12]
Risonanza visuale e teatralizzazione del pensiero sono, in ultima sintesi, i punti di contatto tra la scrittura orfica di Campana e la scrittura filmica di cui Campana aveva intuito la carica di innovazione comunicazionale e culturale.



[1] Irene Gambacorti, Storie di cinema e di letteratura, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003.
[2] Antonio Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Torino, utet, 1993. Cfr. anche Antonio Costa, Nel corpo dell’immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Cinema e letteratura: percorsi di confine, a cura di Ivelise Perniola, Venezia, Marsilio, 2002.
[3] Dino Campana, La Notte, in Canti Orfici, introduzione e commento di Fiorenza Ceragioli, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 96-97.
[4] Dino Campana, Taccuinetto Faentino, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1960.
[5] Dino Camppana, Canti Orfici, op.cit., p.83.
[6] Cfr. nell’ordine Gérard Genette, Seuils, Paris, Seuil, 1987, trad.it. Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989; Roland Barthes, Sul cinema, Genova, Il Melangolo, 1994; François Jost, L’oeil-caméra. Entre film et roman, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1987.
[7] Cfr. Maura Del Serra, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei Canti Orfici, Firenze, La Nuova Italia, 1973.
[8]  Ruggero Jacobbi, Invito alla lettura di Dino Campana, Milano, Mursia, 1976, p. 33.
[9] Jaques Lacan, Écrits, Paris, Seuil, 1966, trad.it. Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. II, p. 604.
[10] Teresa Ferri, La Notte degli “Orfici” o la scrittura dell’Impossibile allo specchio, «Nuova Corrente», 82-83, 1980, p. 82.
[11] Cfr. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972.
[12] Cfr. Algirdas Julien Greimas, Du sens II, Paris, Seuil, 1983, trad. it. Del senso 2. Narratività, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1985.


como citar: LUZI, Alfredo. “La Notte di Campana: la scrittura come sinergia artistica e dinamica iconica”. In Literatura Italian Traduzida, v.1., n.7, jul. 2020.Disponível em https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/209569