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Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Elvira Federici
Resenha
Risorgimento italiano
em
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La prima bandiera italiana - Francesco Altamura (1822-1897) |
Il Risorgimento nello
specchio narrativo di due autori “fuori squadro”: Luciano Bianciardi e Anna Banti,
Grandi scrittori, diversi per ambiente e scelte di vita, di discontinua fortuna
letteraria, scrivono entrambi, - con accenti che meritano di essere messi a confronto
per temi, scrittura, punto di vista- le memorie “autobiografiche” di patrioti risorgimentali,
dietro le quali si coglie una lettura del presente e del rapporto tra illusioni
e realtà. Attraverso le riflessioni dei rispettivi protagonisti sul loro posto nella
Storia, i due autori si interrogano sulla funzione della scrittura. Ma forse va
spiegato l’accostamento, insolito e costruito, forse in modo eclettico sulla convergenza
dei contenuti con il tema del Risorgimento: periodo ancora controverso, in cui le
storiografie raggiungono interpretazioni opposte. Fu un bene per l’Italia? Si fece
davvero l’Italia? E quale Italia sarebbe uscita da un processo unitario policentrico,
federalista o, come qualcuno azzarda, promosso dai Borboni del regno di Napoli,
quindi alimentato dal sud?
Se non possiamo soffermarci
sulla storia controfattuale, possiamo però registrare una grande attenzione narrativa
alla tema della nascita della nazione e al vaglio critico della sua stagione eroica.
Nel 2011è uscita una ricognizione sulla letteratura del XIX secolo che ha avuto per oggetto il
Risorgimento (non abbiamo
bisogno di ricordare Abba, Nievo, D’Azeglio ecc.)[1] ma
anche nella seconda metà del XX, intorno all’anno del primo centenario (1961) molti
autori si sono misurati con questo tema (il più noto, Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo). Nel primo decennio di questo
secolo, forse sempre in vista della data simbolica - i 150 anni dell’unità nazionale
– i romanzi pubblicati sul tema del Risorgimento sono stati numerosi.[2]
Anna Banti nei suoi romanzi storici non cessa di scrivere sulla condizione di stare sul confine, al
margine o al lato: condizione che caratterizza le donne, anche quando sono forti,
anche se sono importanti nella scala sociale o riconosciute politicamente. Le donne,
proprio come per Virginia Woolf, sono il soggetto della sua scrittura. Non è così
in Noi credevamo, in cui le figure femminile
sono defilate e quasi mute. Con sottile autoironia Banti
fa fare al protagonista Domenico Lopresti, all’inizio del romanzo, queste considerazione:
(…) non ho mai ammirato sinceramente gli uomini
e ancora meno le donne di penna. (…) Per chi scrivono costoro? Come possono giocare
la loro vita scrivendo storie inventate?Le donne le leggono avidamente: ma come
possono gli autori, contentarsene? Va bene, anche le donne sono un pubblico. E tuttavia
scrivere per un pubblico siffatto non mi piacerebbe.(…) Nelle donne apprezziamo
la castità, la fedeltà, i sentimenti delicati, il buonsenso, come se in queste virtù
non intervenisse il cervello: non c’è da stupirsi se piegandosi alla nostra legge
esse ne fanno uno strumento di fuga dalla realtà che sono costrette a vivere. (p. 35)
Così Banti mette obliquamente
a tema la sua duplice, sofferta estraneità: alla storia e alla condizione di scrittore.
Luciano Bianciardi, 1922/1971, è un intellettuale insofferente
degli apparati di produzione culturale, intermittente e discontinuo nel suo lavoro:
insegnante, giornalista, consulente editoriale per l’appena nata casa Feltrinelli
– da cui venne licenziato per “scarso rendimento” o forse per incapacità compromissoria
nei confronti della nascente industria culturale,
del ceto intellettuale emergente - scomparso a soli 46 anni per alcoolismo. Nelle sue opere - pensiamo solo al suo titolo di maggior successo: La vita agra (1967) in non casuale opposizione
a La dolce vita di Fellini - traspare
lo stesso senso beffardo di ribellione che lo porterà all’isolamento, l’incapacità
di adattamento ad un sistema di vita che il boom
economico rivela in tutta la sua ridicola crudezza: Bianciardi
è sempre sul filo di un’emarginazione volontaria, che discende dalla sua intolleranza
verso qualsiasi inquadramento, dal fondo anarchico della sua collocazione rispetto
alla storia e alla politica, da una inquieta preveggenza rispetto alle sorti di
un’Italia che affacciandosi con baldanza allo sviluppo economico, già mostra al
suo sguardo disincantato la sguaiata debolezza del consumismo, nel cui regime è’ possibile avere tutto “purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi
i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera”[3]
Bianciardi, in una sorta di mise en abyme di autobiografia e storia,
scrive, in prima persona le memorie ispirate al conterraneo Giuseppe Bandi, garibaldino,
già autore di una prezioso libretto: I Mille,
da Genova a Capua[4] considerato
anche da storici come MC Smith come documento impareggiabile dell’Impresa.
Bianciardi si cala nella vicenda del suo alter ego, cui tanti elementi lo riconducono: la conterraneità
– entrambi della provincia di Grosseto – l’entusiasmo dell’impresa libertaria –
Bianciardi troverà nel libro di Bandi, donatogli dal padre quando era bambino, la
storia delle storie, il racconto dei racconti e, in tutta la sua opera, il contenuto
risorgimentale e l’identificazione garibaldina, con esiti prossimi al genere fumettistico,
cammineranno ironicamente insieme. Il Risorgimento di Garibaldi e dei Mille, sono
per Bianciardi l’epitome di ogni battaglia autenticamente rivoluzionaria, ancorché
votata alla sconfitta, come dimostra l’incessante ritorno del tema del Risorgimento
garibaldino ( Da Quarto a Torino. Breve storia
dei Mille, 1960; Aprire il fuoco,
1969; Daghela avanti un passo, 1969; l’albo
illustrato su Garibaldi, 1972) nella sua scrittura, conferendo straniamento letterario
ad una profonda passione civile.
Banti, fiorentina di nascita ma calabrese di origine,
nel suo testo rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno, fervente mazziniano
per anni prigioniero nelle carceri borboniche dove avevano languito patrioti come
Poerio e Pisacane, il quale si era illuso che l’unificazione avrebbe finalmente
mutato anche le sorti della sua terra natale, la Calabria, nonché di tutto il Sud.
Domenico, il protagonista di Noi credevamo,
paga un prezzo altissimo - con la prigione, l’ impoverimento e la disgregazione
della famiglia di origine - ad una intransigenza rivoluzionaria che non troverà
nessun riscontro negli esiti della storia; della passione condivisa con tanti generosi
patrioti, della devozione nei confronti di Mazzini, della fede in un futuro del
tutto nuovo che gli fa scrivere Noi credevamo
non resta più niente. A parte la scrittura cui si dedica di nascosto e con una
sorta di sprezzatura.
Nella “riscrittura”
de I Mille, a distanza di 100 anni, la
penna esatta e implacabile di Bianciardi registra come un sismografo, dalle parole
affabili, cordiali, cariche di ironia del suo protagonista, i sintomi di un terremoto
all’incontrario: la normalizzazione di cui si fanno emblematicamente carico i piemontesi,
che mal sopportano tutto quello che gira intorno alla figura di Garibaldi e dei
Mille. La scrittura come fuga e come unica scelta possibile, quando le porte della
partecipazione di popolo, della vitalità della rivoluzione sembrano chiudersi per
sempre:
Mi son dunque fatto uom di penna,
con ben poca bravura ma almeno con netta la coscienza che può anche quella servire
al bene della patria, quando sia adoprata ben aguzza e intinta nell’inchiostro della
verità, perché la storia non s’è arresa, e se gli anni e le forze non mi basterebbero
più oramai a scendere sul campo (…) poss’io ben infiammare con lo scritto
l’animo dei giovani alle battaglie future. (p.192)
La scrittura che non
salva l’ intellettuale anzi, lo espone intimamente all’ironica trasformazione da
rivoluzionario a “pompiere”.
Banti/Lopresti scrive
invece senza alcun intento pedagogico. Domenico vuole solo “scribacchiare furtivamente”.
Egli sente “l'obbligo di guardarsi da estraneo” e di dare un “meticoloso e spietato
ritratto” di sè, “per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso
come fu nascendo”. “Il cammino su cui mi son messo è sdrucciolevole, più mi ci inoltro
e più m’impantano: per fortuna affido i miei sfoghi a questi fogli destinati al
fuoco” (p. 25). Domenico Lopresti vuole scandagliare le proprie ragioni profonde,
scoprire dove ha sbagliato, capire dove è sbagliato; è un doloroso viaggio in cui
il fallimento della storia è vissuto come colpa personale.
In Noi credevamo, la narrazione comincia nel
1883, nella grigia quiete del capoluogo piemontese, dove il protagonista, già mazziniano
e patriota, ormai settantenne, si è stabilito da anni con la famiglia, secondo una
scelta obbligata che è insieme il male minore e il marchio di una sconfitta personale
e storica; Domenico scrive di nascosto della sua famiglia, affettuosa ma resa come
opaca dal senso di fallimento e dalla povertà in cui le sue scelte l’ hanno costretta.
La verità è che nulla amo di Torino: non il suo ordine, non la sua mediocre
civiltà piena di sussiego. Odio i suoi impiegatucci, i suoi militari, i suoi uomini
politici. Mi opprime il palazzone lussuoso dove abito e, chiuso in questa camera
di luce fredda, mi contristano le sue mura massicce, la facciata dove so che si
apre la mia finestra. E’questa la prigione, dove mi sono serrato volontariamente
con una sentenza che nessuna grazia potrà mai cancellare.(pp.14-15)
L’accoglienza riservata al calabrese Domenico è intrisa dell’inestirpabile
pregiudizio che la mancata reciproca conoscenza alimenta; essere meridionali pesa:
Io abito al terzo piano, ma nel concetto del guardiaportone in giamberga
non debbo ispirare maggior fiducia degli inquilini delle soffitte. Siamo’napoletani’,
noi, soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante
e l’imbroglione. I nostri mobili, piuttosto sconquassati dai troppi traslochi, oscillavano
sulle spalle dei facchini, su per le scale: zampe spezzate e ciondolanti, sportelli
malfermi sui gangheri. Il portiere li guardava ironico e costernato. (p.15)
In La battaglia soda, il racconto del protagonista,
che si stringe tutto intorno all’ epopea garibaldina, è continuamente sottoposto
al contrappunto tra i giovani e generosi seguaci di Garibaldi e gli inquadrati,
pedanti, ottusi militari piemontesi. La battaglia di Custoza, in cui misurerà l’insipienza
dei militari di carriera e le piccole trame, intrighi, partigianerie con cui si
trova a convivere dopo le battaglie per l’indipendenza, lo portano a cercare nei
rapporti umani, amici, vecchi compagni, la sua sposa, gli unici interlocutori importanti,
recando ironicamente il segno di una normalizzazione, politica e ideale, ancora
più marcata, se non resa nei toni dolorosi ed esacerbati presenti invece in La vita agra: La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo,
ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere.
I toni sono diversi: è
cupo e senza speranza quello del vecchio mazziniano che ha sofferto dolorose vicissitudini
per diventare solo un oscuro e misero travet, in Noi credevamo; è più accomodante cordiale, corroborato dalla felicità
aurorale di aver partecipato agli eventi di un’epopea generosa quello del garibaldino
in La battaglia soda. Quest’ultimo è più
giovane, è radicato nella sua Maremma accanto ai testimoni di un periodo eccitante;
diventa un militare nell’esercito della nuova nazione, quindi scrittore delle memorie
dei Mille. Ma la sorridente disillusione del protagonista di La battaglia soda è quasi parodistica, come
l’incredibile scrittura a calco di quella presuntamente coeva al racconto.
La lingua è un altro elemento interessante fra i due testi. In Banti c’è un sottile mimetismo con l’italiano fine Ottocento, che amplifica, nel senso di irreversibilità del tempo e della lingua perduti, la melanconia del protagonista: egli sente che il suo agire non ha portato bene a nessuno e che la storia che avrebbe voluto piegare ad un progetto condiviso - noi credevamo- è una catena di fallimenti.
In Bianciardi la scrittura
ispirata a quella della memorialistica risorgimentale perseguita con dichiarata
determinazione – “il libro sul Bandi…è
un grosso tentativo, anche linguistico…”[5] è, paradossalmente, una parentesi
i cui recupera la felicità dell’infanzia, in quella prima lettura de I Mille che lo farà garibaldino per sempre:
tutta l’opera di Bianciardi ruota a infinite riscritture dell’epopea del Risorgimento
(Da Quarto a Torino. Breve storia dei Mille,
1960; Aprire il fuoco,1969; Daghela avanti un passo,1969; Vita di Garibaldi 1972 ).
“Se ripenso ora con animo alle vicende che mi toccarono, e alle ben maggiori
sorti dell’Italia, concludo che non tutto fu perduto (…)” (p. 192). Di felicità infantile
si tratta infatti: un tempo e una disposizione perfetta di cui quella lingua è interprete,
sospendendo, inaspettatamente, il senso intollerabilmente doloroso di una rivoluzione
perennemente incompiuta.
Qui infatti finiscono
le differenze che hanno reso intrigante il confronto. Nei due romanzi i punti di
contatto sembrano il segnale di un’interrogazione mai conclusa nei confronti della
storia che ci appartiene in quanto italiani e della testimonianza di un modo differente
di patire la realtà, in quanto personaggi ma anche in quanto uomini e donne che
scrivono.
Luciano Bianciardi, La battaglia soda,
Milano, Bompiani, 2003
Anna
Banti, Noi credevamo, Milano, Mondadori, 2010
________________________________
Como citar: FEDERICI, Elvira. "Anna Banti , Luciano Bianciardi e il Risorgimento". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 1., n. 8, ago. 2020.
Disponível em https://repositorio.ufsc.br/andle/123456789/211803
[1] Vedere,
p. es., Il romanzo del Risorgimento. GIGANTE,
Claudio e VAN DEN BERGHE, Dirk (orgs.). Bruxelles: P.I.E. Peter Lang (Collana ‘Il secolo lungo. Letteratura Italiana 1796-1918’),
2011.
[2] Tra gli altri: MARI, Alessandro.
Troppo umana speranza. Milano:
Feltrinelli 2010; SCURATI Antonio. Una
storia romantica. Milano: Bompiani, 2007; EVANGELISTI, Valerio e MORESCO,
Antonio. Controinsurrezioni. Milano:
Mondadori, 2008; DE CATALDO, Giancarlo. I
traditori. Torino: Einaudi, 2011.
[3] BIANCIARDI,
Luciano. La vita agra. Milano:
Rizzoli, 1962
[4] BANDI,
Giuseppe. I Mille, da Genova a Capua. Firenze: Salani, 1902.
[5] TERROSI, Mario. Bianciardi com’era. Lettere di Luciano
Bianciardi ad un amico grossetano. Viterbo: Stampa Alternativa, 2006.
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