La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Anna Banti , Luciano Bianciardi e il Risorgimento, di Elvira Federici.

 

La prima bandiera italiana - Francesco Altamura (1822-1897)


       Il Risorgimento nello specchio narrativo di due autori “fuori squadro”: Luciano Bianciardi e Anna Banti, Grandi scrittori, diversi per ambiente e scelte di vita, di discontinua fortuna letteraria, scrivono entrambi, - con accenti che meritano di essere messi a confronto per temi, scrittura, punto di vista- le memorie “autobiografiche” di patrioti risorgimentali, dietro le quali si coglie una lettura del presente e del rapporto tra illusioni e realtà. Attraverso le riflessioni dei rispettivi protagonisti sul loro posto nella Storia, i due autori si interrogano sulla funzione della scrittura. Ma forse va spiegato l’accostamento, insolito e costruito, forse in modo eclettico sulla convergenza dei contenuti con il tema del Risorgimento: periodo ancora controverso, in cui le storiografie raggiungono interpretazioni opposte. Fu un bene per l’Italia? Si fece davvero l’Italia? E quale Italia sarebbe uscita da un processo unitario policentrico, federalista o, come qualcuno azzarda, promosso dai Borboni del regno di Napoli, quindi alimentato dal sud?

Se non possiamo soffermarci sulla storia controfattuale, possiamo però registrare una grande attenzione narrativa alla tema della nascita della nazione e al vaglio critico della sua stagione eroica.

Nel 2011è uscita una ricognizione sulla letteratura del XIX secolo che ha avuto per oggetto il

Risorgimento (non abbiamo bisogno di ricordare Abba, Nievo, D’Azeglio ecc.)[1] ma anche nella seconda metà del XX, intorno all’anno del primo centenario (1961) molti autori si sono misurati con questo tema (il più noto, Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo). Nel primo decennio di questo secolo, forse sempre in vista della data simbolica - i 150 anni dell’unità nazionale – i romanzi pubblicati sul tema del Risorgimento sono stati numerosi.[2]

 Una scrittrice, uno scrittore

 L’accostamento potrebbe essere svolto facilmente per contrapposizione. Anna Banti (Lucia Lopresti),1895/1985, critico d’arte, traduttrice, attiva protagonista del mondo culturale, tra i fondatori, poi Direttore della rivista Paragone alla morte del marito, il grande critico d’arte Roberto Longhi, è un regina degli ambienti culturali più qualificati, ma non è per questo meno defilata. A conti fatti, neppure un capolavoro come Artemisia, 1947 è stato ripubblicato di recente (Noi credevamo è stato ripubblicato solo grazie al clamore del film di Martone ad esso ispirato), mentre su di lei esiste una vasta letteratura, anche internazionale, essendo considerata nel novero di autori della statura di Marguerite Yourcenar.

Anna Banti nei suoi romanzi storici non cessa di scrivere sulla condizione di stare sul confine, al

margine o al lato: condizione che caratterizza le donne, anche quando sono forti, anche se sono importanti nella scala sociale o riconosciute politicamente. Le donne, proprio come per Virginia Woolf, sono il soggetto della sua scrittura. Non è così in Noi credevamo, in cui le figure femminile sono defilate e quasi mute. Con sottile autoironia Banti fa fare al protagonista Domenico Lopresti, all’inizio del romanzo, queste considerazione:

 

(…) non ho mai ammirato sinceramente gli uomini e ancora meno le donne di penna. (…) Per chi scrivono costoro? Come possono giocare la loro vita scrivendo storie inventate?Le donne le leggono avidamente: ma come possono gli autori, contentarsene? Va bene, anche le donne sono un pubblico. E tuttavia scrivere per un pubblico siffatto non mi piacerebbe.(…) Nelle donne apprezziamo la castità, la fedeltà, i sentimenti delicati, il buonsenso, come se in queste virtù non intervenisse il cervello: non c’è da stupirsi se piegandosi alla nostra legge esse ne fanno uno strumento di fuga dalla realtà che sono costrette a vivere. (p. 35)

 

Così Banti mette obliquamente a tema la sua duplice, sofferta estraneità: alla storia e alla condizione di scrittore.

Luciano Bianciardi, 1922/1971, è un intellettuale insofferente degli apparati di produzione culturale, intermittente e discontinuo nel suo lavoro: insegnante, giornalista, consulente editoriale per l’appena nata casa Feltrinelli – da cui venne licenziato per “scarso rendimento” o forse per incapacità compromissoria nei confronti della nascente industria culturale, del ceto intellettuale emergente - scomparso a soli 46 anni per alcoolismo. Nelle sue opere - pensiamo solo al suo titolo di maggior successo: La vita agra (1967) in non casuale opposizione a La dolce vita di Fellini - traspare lo stesso senso beffardo di ribellione che lo porterà all’isolamento, l’incapacità di adattamento ad un sistema di vita che il boom economico rivela in tutta la sua ridicola crudezza: Bianciardi è sempre sul filo di un’emarginazione volontaria, che discende dalla sua intolleranza verso qualsiasi inquadramento, dal fondo anarchico della sua collocazione rispetto alla storia e alla politica, da una inquieta preveggenza rispetto alle sorti di un’Italia che affacciandosi con baldanza allo sviluppo economico, già mostra al suo sguardo disincantato la sguaiata debolezza del consumismo, nel cui regime è’ possibile avere tutto purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera[3]

 Il tema Risorgimento

 Quasi nello stesso periodo – La battaglia soda esce nel 1964 e Noi credevamo nel 1967, i due scrittori volgono la loro scrittura, sempre in adesione rigorosa alle ricostruzione delle vicende storiche, al Risorgimento, adottando il genere memorialistico.

Bianciardi, in una sorta di mise en abyme di autobiografia e storia, scrive, in prima persona le memorie ispirate al conterraneo Giuseppe Bandi, garibaldino, già autore di una prezioso libretto: I Mille, da Genova a Capua[4] considerato anche da storici come MC Smith come documento impareggiabile dell’Impresa.

Bianciardi si cala nella vicenda del suo alter ego, cui tanti elementi lo riconducono: la conterraneità

– entrambi della provincia di Grosseto – l’entusiasmo dell’impresa libertaria – Bianciardi troverà nel libro di Bandi, donatogli dal padre quando era bambino, la storia delle storie, il racconto dei racconti e, in tutta la sua opera, il contenuto risorgimentale e l’identificazione garibaldina, con esiti prossimi al genere fumettistico, cammineranno ironicamente insieme. Il Risorgimento di Garibaldi e dei Mille, sono per Bianciardi l’epitome di ogni battaglia autenticamente rivoluzionaria, ancorché votata alla sconfitta, come dimostra l’incessante ritorno del tema del Risorgimento garibaldino ( Da Quarto a Torino. Breve storia dei Mille, 1960; Aprire il fuoco, 1969; Daghela avanti un passo, 1969; l’albo illustrato su Garibaldi, 1972) nella sua scrittura, conferendo straniamento letterario ad una profonda passione civile.

Banti, fiorentina di nascita ma calabrese di origine, nel suo testo rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno, fervente mazziniano per anni prigioniero nelle carceri borboniche dove avevano languito patrioti come Poerio e Pisacane, il quale si era illuso che l’unificazione avrebbe finalmente mutato anche le sorti della sua terra natale, la Calabria, nonché di tutto il Sud. Domenico, il protagonista di Noi credevamo, paga un prezzo altissimo - con la prigione, l’ impoverimento e la disgregazione della famiglia di origine - ad una intransigenza rivoluzionaria che non troverà nessun riscontro negli esiti della storia; della passione condivisa con tanti generosi patrioti, della devozione nei confronti di Mazzini, della fede in un futuro del tutto nuovo che gli fa scrivere Noi credevamo non resta più niente. A parte la scrittura cui si dedica di nascosto e con una sorta di sprezzatura.

 La scrittura

 In entrambi i romanzi ci troviamo in presenza di un narratore omodiegetico che, nel corso del racconto, fa esplicite dichiarazioni circa il motivo della propria scrittura. Entrambi, nel raccontare le circostanze per le quali si risolvono a scrivere le memorie delle loro avventure tendono a ridimensionarne il valore; entrambi considerano lo scrivere le memorie di un momento storico unico, irripetibile, una esigenza privata. Per Bianciardi/ Bandi la scrittura di un memoriale è però volta a serbare una traccia, magari per la sua discendenza e per gli italiani a venire, dell’esperienza straordianria di essere stato uno dei Mille al seguito di Garibaldi. Esperienza che non cessa di agire positivamente sull’idea di sé, anche quando il protagonista prende atto che quella stagione è definitivamente passata.

Nella “riscrittura” de I Mille, a distanza di 100 anni, la penna esatta e implacabile di Bianciardi registra come un sismografo, dalle parole affabili, cordiali, cariche di ironia del suo protagonista, i sintomi di un terremoto all’incontrario: la normalizzazione di cui si fanno emblematicamente carico i piemontesi, che mal sopportano tutto quello che gira intorno alla figura di Garibaldi e dei Mille. La scrittura come fuga e come unica scelta possibile, quando le porte della partecipazione di popolo, della vitalità della rivoluzione sembrano chiudersi per sempre:

 

Mi son dunque fatto uom di penna, con ben poca bravura ma almeno con netta la coscienza che può anche quella servire al bene della patria, quando sia adoprata ben aguzza e intinta nell’inchiostro della verità, perché la storia non s’è arresa, e se gli anni e le forze non mi basterebbero più oramai a scendere sul campo (…) poss’io ben infiammare con lo scritto l’animo dei giovani alle battaglie future. (p.192)

 

La scrittura che non salva l’ intellettuale anzi, lo espone intimamente all’ironica trasformazione da rivoluzionario a “pompiere”.

Banti/Lopresti scrive invece senza alcun intento pedagogico. Domenico vuole solo “scribacchiare furtivamente”. Egli sente “l'obbligo di guardarsi da estraneo” e di dare un “meticoloso e spietato ritratto” di sè, “per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo”. “Il cammino su cui mi son messo è sdrucciolevole, più mi ci inoltro e più m’impantano: per fortuna affido i miei sfoghi a questi fogli destinati al fuoco” (p. 25). Domenico Lopresti vuole scandagliare le proprie ragioni profonde, scoprire dove ha sbagliato, capire dove è sbagliato; è un doloroso viaggio in cui il fallimento della storia è vissuto come colpa personale.

In Noi credevamo, la narrazione comincia nel 1883, nella grigia quiete del capoluogo piemontese, dove il protagonista, già mazziniano e patriota, ormai settantenne, si è stabilito da anni con la famiglia, secondo una scelta obbligata che è insieme il male minore e il marchio di una sconfitta personale e storica; Domenico scrive di nascosto della sua famiglia, affettuosa ma resa come opaca dal senso di fallimento e dalla povertà in cui le sue scelte l’ hanno costretta.

 

La verità è che nulla amo di Torino: non il suo ordine, non la sua mediocre civiltà piena di sussiego. Odio i suoi impiegatucci, i suoi militari, i suoi uomini politici. Mi opprime il palazzone lussuoso dove abito e, chiuso in questa camera di luce fredda, mi contristano le sue mura massicce, la facciata dove so che si apre la mia finestra. E’questa la prigione, dove mi sono serrato volontariamente con una sentenza che nessuna grazia potrà mai cancellare.(pp.14-15)

 

L’accoglienza riservata al calabrese Domenico è intrisa dell’inestirpabile pregiudizio che la mancata reciproca conoscenza alimenta; essere meridionali pesa:

 

Io abito al terzo piano, ma nel concetto del guardiaportone in giamberga non debbo ispirare maggior fiducia degli inquilini delle soffitte. Siamo’napoletani’, noi, soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e l’imbroglione. I nostri mobili, piuttosto sconquassati dai troppi traslochi, oscillavano sulle spalle dei facchini, su per le scale: zampe spezzate e ciondolanti, sportelli malfermi sui gangheri. Il portiere li guardava ironico e costernato. (p.15)

 

In La battaglia soda, il racconto del protagonista, che si stringe tutto intorno all’ epopea garibaldina, è continuamente sottoposto al contrappunto tra i giovani e generosi seguaci di Garibaldi e gli inquadrati, pedanti, ottusi militari piemontesi. La battaglia di Custoza, in cui misurerà l’insipienza dei militari di carriera e le piccole trame, intrighi, partigianerie con cui si trova a convivere dopo le battaglie per l’indipendenza, lo portano a cercare nei rapporti umani, amici, vecchi compagni, la sua sposa, gli unici interlocutori importanti, recando ironicamente il segno di una normalizzazione, politica e ideale, ancora più marcata, se non resa nei toni dolorosi ed esacerbati presenti invece in La vita agra: La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere.

I toni sono diversi: è cupo e senza speranza quello del vecchio mazziniano che ha sofferto dolorose vicissitudini per diventare solo un oscuro e misero travet, in Noi credevamo; è più accomodante cordiale, corroborato dalla felicità aurorale di aver partecipato agli eventi di un’epopea generosa quello del garibaldino in La battaglia soda. Quest’ultimo è più giovane, è radicato nella sua Maremma accanto ai testimoni di un periodo eccitante; diventa un militare nell’esercito della nuova nazione, quindi scrittore delle memorie dei Mille. Ma la sorridente disillusione del protagonista di La battaglia soda è quasi parodistica, come l’incredibile scrittura a calco di quella presuntamente coeva al racconto.

 La lingua

La lingua è un altro elemento interessante fra i due testi. In Banti c’è un sottile mimetismo con l’italiano fine Ottocento, che amplifica, nel senso di irreversibilità del tempo e della lingua perduti, la melanconia del protagonista: egli sente che il suo agire non ha portato bene a nessuno e che la storia che avrebbe voluto piegare ad un progetto condiviso - noi credevamo- è una catena di fallimenti.

In Bianciardi la scrittura ispirata a quella della memorialistica risorgimentale perseguita con dichiarata determinazione – il libro sul Bandi…è un grosso tentativo, anche linguistico…”[5] è, paradossalmente, una parentesi i cui recupera la felicità dell’infanzia, in quella prima lettura de I Mille che lo farà garibaldino per sempre: tutta l’opera di Bianciardi ruota a infinite riscritture dell’epopea del Risorgimento (Da Quarto a Torino. Breve storia dei Mille, 1960; Aprire il fuoco,1969; Daghela avanti un passo,1969; Vita di Garibaldi 1972 ).

“Se ripenso ora con animo alle vicende che mi toccarono, e alle ben maggiori sorti dell’Italia, concludo che non tutto fu perduto (…) (p. 192). Di felicità infantile si tratta infatti: un tempo e una disposizione perfetta di cui quella lingua è interprete, sospendendo, inaspettatamente, il senso intollerabilmente doloroso di una rivoluzione perennemente incompiuta.

 Conclusioni

 L’amarezza della rivoluzione incompiuta, di un Risorgimento che non ha mantenuto le sue promesse, malgrado il generoso sacrificio di molti, l’Unità che sembra semplicemente aver sostituito la monarchia piemontese ad altre, la normalizzazione politica che sospinge ai margini le istanze democratiche, la malattia del trasformismo, del conformismo, del malcostume politico fanno sì che per entrambi gli scrittori questa stagione sia una sorta di allegoria delle illusioni perdute.

Qui infatti finiscono le differenze che hanno reso intrigante il confronto. Nei due romanzi i punti di contatto sembrano il segnale di un’interrogazione mai conclusa nei confronti della storia che ci appartiene in quanto italiani e della testimonianza di un modo differente di patire la realtà, in quanto personaggi ma anche in quanto uomini e donne che scrivono.

 Riferimenti ai testi:

Luciano Bianciardi, La battaglia soda, Milano, Bompiani, 2003

Anna Banti, Noi credevamo, Milano, Mondadori, 2010

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Como citar: FEDERICI, Elvira. "Anna Banti , Luciano Bianciardi e il Risorgimento". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 1., n. 8, ago. 2020.

Disponível em  https://repositorio.ufsc.br/andle/123456789/211803 


[1] Vedere, p. es., Il romanzo del Risorgimento. GIGANTE, Claudio e VAN DEN BERGHE, Dirk (orgs.). Bruxelles: P.I.E. Peter Lang (Collana ‘Il secolo lungo. Letteratura Italiana 1796-1918’), 2011.

[2] Tra gli altri: MARI, Alessandro. Troppo umana speranza. Milano: Feltrinelli 2010; SCURATI Antonio. Una storia romantica. Milano: Bompiani, 2007; EVANGELISTI, Valerio e MORESCO, Antonio. Controinsurrezioni. Milano: Mondadori, 2008; DE CATALDO, Giancarlo. I traditori. Torino: Einaudi, 2011.

[3] BIANCIARDI, Luciano. La vita agra. Milano: Rizzoli, 1962

[4] BANDI, Giuseppe. I Mille, da Genova a Capua. Firenze: Salani, 1902.

[5] TERROSI, Mario. Bianciardi com’era. Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano. Viterbo: Stampa Alternativa, 2006.