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Il digiuno del conte Ugolino in un volgarizzamento trecentesco del commento di Graziolo dei Bambaglioli, di Simone Barlettai
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Análise crítica
Dante Alihgieri
Simone Barlettai
em
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Giuseppe Diotti (1779-1846) - Il conte Ugolino (1836) - Accademia Carrara - Bergamo |
Il fatto che la Commedìa
di Dante abbia destato un interesse notevole negli studiosi, fin dai primi anni
della sua diffusione, è testimoniato dall’elevatissimo numero di commentatori
coevi del poeta fiorentino che si sono cimentati nell’interpretazione della sua
opera. Tra i più autorevoli troviamo senza alcun dubbio il commento latino di
Graziolo dei Bambaglioli alla prima delle tre cantiche, la cui edizione critica
è stata curata da Luca Rossi[1].
Di questo commento
esistono anche alcuni volgarizzamenti[2]
e proprio quello contenuto nel manoscritto della Biblioteca Mediceo Laurenziana
di Firenze, siglato Plut. 90 inf. 42, sarà l’oggetto di questo mio contributo.
Il codice in
questione è un manoscritto cartaceo, con guardie cartacee e fascicoli legati. La datazione
è stimata intorno alla metà del XIV secolo (Bertelli arretra alla metà del XIV
secolo la precedente datazione agli ultimi decenni del Trecento avanzata da
Roddewig e Boschi Rotiroti)[3]. È costituito dalle cc.
III + 160 + III, misura mm. 390 x 146; la numerazione originale era probabilmente
in numeri romani, di cui rimangono residui nel margine superiore esterno di
alcune carte dei primi fascicoli; a partire dalla c. 5r, troviamo cifre
arabiche al centro del margine superiore delle carte. Asportata la carta 1 del
fascicolo 1. Nel manoscritto possiamo rinvenire due mani diverse: la prima
dalla cc. 3r-159v è una mercantesca bastarda, di autore anonimo, ma di chiara
origine toscana (molto probabilmente fiorentina, come si può notare da alcuni
termini tipici di questo volgare); la seconda è una littera
textualis attribuita a Filippo di Matteo Villani. Il testo e il commento
sono alternati su una colonna, con iniziali di terzina sporgenti.
L’episodio su cui
vorrei soffermarmi in questo mio intervento è quello dell’incontro tra Dante e
Virgilio e il Conte Ugolino della Gherardesca, descritto nel canto XXXIII dell’Inferno,
in cui ho trovato un’annotazione originale del copista, che non è presente
nell’edizione latina del commento di Graziolo, vediamo il testo dell’anonimo
copista.
vv. 1-3: Con ciò sia cosa che nella fine del precedente capitolo l’autore
domandasse quella anima che così divorava la testa di quell’altro della cagione
del rodimento dice l’autore che lli sollevò sé dal divorare rispuoseli dicendo tu
vuo’ ch’io rinnovelli disperato dolor eccetera a ppiù aperto
manifestamento di queste cose si è da sapere che questi che mordeva e mangiava
un altro si era il conte Ugolino di Pisa il quale era quasi signore di quella
città. Fue incolpato e infamato malignamente di tradimento dai cittadini di
Pisa, per messer Ruggieri, arcivescovo di quella città di che ’l conte con IIII
suoi figliuoli, cioè Anselmuccio, Gaddo, Uguccione el Brigata, morì di fame in
carcere come di sotto si contiene; l’altro il cui capo era divorato fue
l’arcivescovo Ruggeri e questo è quello che dice il principio di questo
capitolo.
vv. 4-6: Veramente questo autore va ad appellare Virgilio maestro e
poeta però che Dante propriamente seguitò lo colui stile, però che questa
risponsione o vero parole che dicono poi cominciò: tu vuoli eccetera
sono propriamente le parole alla risponsione che ffece alla regina Dido Enea
quando elli fu giunto a Cartagine, però che domandando quella Enea allora
fuggito e cacciato di Troia elli rispuose a llittera come seguita nello
infrascritto verso lo quale scrive Virgilio ne Eneide in questo modo “infandum
regina iubet rinnovare dolorem”.
vv. 19-21: Dice il conte Ugolino poiché tu Dante vuoli ch’io dica di me e la
cagione per ch’io son qui io lo diroe a ttal patto che lle mie parole sieno
seme del quale nasca frutto d’infamia al traditor ch’io rodo.
vv. 22-24: Dice il conte Ugolino che essendo elli rinchiuso nella torre
che innanzi ch’elli vi fosse rinchiuso colli figliuoli era chiamata la muda, ma
poi che colli figliuoli vi morie di fame chiamata fu la torre della fame. In
quella torre c’era uno piccolo pertugio per lo quale aveva più die veduto lume
anzi ch’elli sognasse quelle cose che furono indizio e testimonio della sua
futura miseria
vv. 25-27: Cioè questo sogno mi scoperse e aprì quelle cose che poi mi doveano
divenire alle quali io non vedea anzi lo sogno.
vv. 28-36: Questo è il sogno del quale dice però che ’l conte sognava ch’elli
vedea l’arcivescovo signore e maestro fuori della città di Pisa appo un monte
ch’è tra Pisa e Lucca e quello arcivescovo s’avea messo innanzi lo Gualandi,
Sismondi e lli Lanfranchi che ssono tre delle maggiori e delle più potenti case
della città di Pisa. Apparendo quello arcivescovo tra costoro signore e
maestro, cacciava inverso il detto monte un lupo con suoi figliuoli piccioli
lupicini li quali cacciava con cani magri e affamati. Cani e con ciò fosse che
questo lupo e lli lupicini fossono stanchi e indeboliti in piccolo corso li
cani pigliavano il lupo e lli filgliuoli e tutti li divoravano. Quello lupo e
quelli lupicini è significato il conte Ugolino e’ figli, per li cani magri la
fame ond’elli morirono. Per quello che l’arcivescovo si metteva innanzi li
detti pisani significa come li predetti Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, a
istanza del detto arcivescovo, infamarono lo detto conte Ugolino di che elli e
lli figli finalmente morirono nella torre.
vv. 57: Vuole dire l’autore chel conte Ugolino vide nei figliuoli
rapresentata la figura di lui padre.
vv.70-78: Dice il conte Ugolino che poiché i figliuoli furono morti, e cieco
per la fame in capo de 4 dì gl’andava brancolando, e più il vinse la gran fame
ch’avea che non facea l’amore che portava a figliuoli; e però li manciò per
fame.
vv. 82: Cavrara e Gorgona sono due grandissime montagne poste in mare di lunge
del porto di Pisa verso la Sardegna miglia […] Dante
priega che questi monti si muovano e vengano a fermarsi nel luogo ove Arno
entra in mare, finché ivi crescano in modo di siepe di quel fiume d’Arno non
possa arrivare in mare ma crescendo Arno e multiplicando ingrossando affoghi
tutti li cittadini e abitatori di Pisa che ccosì crudelmente peccarono
tormentando e uccidendo li figlioli perciò che ssì dicea che’l padre avea
peccato.
vv. 88-90: per ischerno e notabilmente appella e significa la città di Pisa
essere nuova città di Tebe, però che con ciò sia che la città di Tebe nel tempo
passato sostenne molte tribulazioni e pestilenzie così dicie elli la città di
Pisa ancora sarà stravolta per grandissime tribulazione.
L’episodio del
conte Ugolino che abbiamo appena visto, per la maggior parte, non è altro che
il volgarizzamento del commento di Graziolo realizzato dall’anonimo copista
toscano autore del manoscritto; ciò che è invece molto interessante notare è l’aggiunta
che il nostro copista fa al lavoro del Bambaglioli[4]
in merito alla conclusione della triste vicenda del conte riportata ai versi da
70 a 78, che non compaiono nella digitalizzazione del testo del commentatore.
L’anonimo copista
rientra dunque all’interno dello schieramento di coloro che hanno interpretato
il verso dantesco come la conferma dell’antropofagia del conte, dicendoci
infatti che Ugolino non riuscì a resistere alla fame e mangiò i propri figli e
nipoti, nonostante ci tenga a specificare anche quanto amore il conte provasse
per loro.
Personalmente non
mi trovo d’accordo con la teoria dell’antropofagia del conte – teoria che, per
altro, ad oggi gode di un seguito sempre minore tra gli studiosi –, poiché
ritengo che il verso Poscia, più che il dolor, poté il digiuno non vada
inteso come l’ammissione del cannibalismo del conte, quanto piuttosto come
indice del fatto che il digiuno ebbe la meglio anche sul dolore per la perdita
dei suoi figli, ponendo fine alla sua vita dopo aver trascorso comunque ancora
due giorni a chiamarli invano.
Non possiamo non
notare che queste saranno anche le ultime parole che Ugolino pronuncerà; una
volta terminato il racconto non potrà mai più parlare per l’eternità, in una
sorta, per così dire, di seconda morte, in quanto Ugolino riesce a recuperare
la sua natura umana per la durata del racconto soltanto grazie all’amore che
nutre ancora nei confronti dei suoi figli, un amore che si percepisce durante
tutto l’episodio e che è talmente forte da riuscire a sconfiggere anche la
profondità infernale, facendogli interrompere addirittura l’atto di rodere il
cranio del suo nemico, che va, secondo me, inteso come il tentativo di saziare
quella fame rimastagli dalla sua morte (non a caso nei primi versi del canto
Dante parla di fiero pasto), su colui che è stato materialmente
responsabile della sua fine e di quella dei suoi figli, tentativo che non
giungerà mai a compimento, ma che si protrarrà invece per tutta l’eternità.
________________
Como citar: BARLETTAI, Simone. “Il digiuno del conte Ugolino in un volgarizzamento trecentesco del commento di Graziolo dei Bambaglioli”. In "Literatura Italiana Traduzida", v.1., n.8, ago. 2020. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/ handle/123456789/210160
[1] BAMBAGLIOLI, Graziolo de’. Commento all'“Inferno” di Dante. Luca Carlo Rossi (org.).
Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998.
[2] A tal proposito si veda: SERIACOPI, Massimo. Graziolo dei
Bambaglioli sull’Inferno di Dante. Una redazione inedita del commento
volgarizzato. Firenze: Firenzelibri, 2005.
[3] CURSI, Marco; MIGLIO, Luisa.
“Carte che ridono poco. La Commedia in
mercantesca”.In Dante
visualizzato, Rosend Arqués Corominas e Marcello Cicuto (orgs.).
Firenze: Franco Cesati, 2017, p. 71.
[4] Il commento di Graziolo, oltre che nella versione cartacea che ho già
indicato alla nota 1, è fruibile gratuitamente online sul sito Dartmouth Dante
Project.
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