La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Sulla peste del XXI secolo, Sergio Givone in dialogo con Patricia Peterle

 

San Rocco risana gli appestati, Tintoretto (1549)





Il progetto "Krisis-Tempos de Covid-19" nel video numero 27, intitolato Il principio di responsabilità, ci pone di fronte ad un'acuta e perspicace riflessione sul momento della pandemia e della sua gestione. Sergio Givone parla della possibilità di una terza via, che può sembrare ingannevolmente ovvia o facile, che coinvolge direttamente il soggetto e le sue azioni. L’intervista che ora si pubblica sviluppa in particolare gli argomenti affrontati nel primo dialogo del video.

Ringrazio ancora una volta Sergio Givone per la sua disponibilità. L’intervista è stata realizzata il 19 giugno 2020.

Patricia Peterle

 

 

 

La Pandemia di Covid-19 potrebbe segnare una svolta, un cambiamento radicale nei confronti dell’altro, della natura, di un ritmo che è forse allucinante. A partire dall’isolamento e ora da questa fase di riapertura, come vede quest’orizzonte? Nulla sarà come prima, ma poco cambierà?


 "Nulla sarà come prima!" Quante volte, a seguito di eventi catastrofici abbiamo sentito ripetere quella frase? Voleva essere una certezza e un augurio, ma non era che un esorcismo. Sempre, superata la crisi più acuta, le cose hanno ripreso il loro cammino. Come prima, peggio di prima. E come se nulla fosse stato.

Eppure... Eppure l'attuale pandemia ha introdotto elementi di novità che sembrano giustificare qualche speranza, sia pure una speranza indotta dalla disperazione. Nel giro di pochi mesi abbiamo assistito a un vero e proprio cambiamento di paradigma. Prima della diffusione globale del virus era dominante una concezione dei rapporti con l'altro basata sul conflitto e sul respingimento. In Italia, per esempio, più di un partito politico aveva fatto la sua fortuna impugnando la bandiera dell'italianità e del "noi contro loro". Cosa che del resto aveva già trovato negli Stati Uniti i suoi sostenitori ai più alti livelli di governo. Poi il virus, e con il virus l'idea che ci si salva o si affonda tutti insieme. Insomma, come usa dire: siamo tutti sulla stessa barca. Così il paradigma solidaristico, irriso come forma di buonismo per anime belle, è subentrato al paradigma di segno contrario.

Ma c'è anche da considerare un fatto di cui solo ora si comincia a valutare la portata. Anche se non ne abbiamo ancora prove certe, da più parti è stato avanzato il sospetto che la diffusione del virus abbia a che fare non tanto con la globalizzazione quanto con l'antropizzazione, ossia con quei fenomeni di appropriazione violenta e disordinata del pianeta da parte dell'uomo che possono addirittura minacciare la vita sulla terra. Stando cosí le cose, come non prendere atto che siamo ormai a un punto di non ritorno? E come non pensare alla necessità di adottare misure estreme e non ancora tentate, pena la nostra fine?

 

Gli ultimi mesi hanno reso più che evidente un lato che è quello della precarietà e della fragilità umana, ma anche quello del cinismo, ciò vuol dire che l’uomo non impara con la storia? Siamo su quella soglia estrema dove tutto è possibile, per ricordare il suo volume Metafisica della Peste (Einaudi, 2012)? 


Fra il senso della nostra vulnerabilità e il cinismo che spesso lo accompagna e con cui si reagisce ad esso c'è una specie di oscillazione, un movimento pendolare che rimbalza dall'uno all'altro. Lo si vede non appena consideriamo i due modelli sociali di tutela dal virus che sono stati evocati non appena il virus si è manifestato, ma che appartengono alla storia millenaria dell'antico flagello comunemente chiamato peste. A dividersi il campo, ma speculari, dittatura e anarchia. Da una parte la dittatura dello stato di eccezione, con la soppressione della libertà di movimento, la reclusione in casa propria, l'obbligo tassativo del distanziamento sociale, e così via. Dall'altro l'anarchia dell'immunità di gregge, nella convinzione che lasciar sfogare il virus senza opporvi barriere induca reazioni immunitarie nella popolazione e porti alla estinzione del virus stesso. Quale preferire? In realtà entrambi questi modelli a loro modo funzionano, ma solo fino a un certo punto e a un prezzo molto alto.

Fino a un certo punto: infatti il contenimento della diffusione del virus attraverso l'imposizione di norme coercitive da parte del potere centrale ha successo solo se gli individui adottano consapevolmente i nuovi comportamenti dettati dalla situazione e rispettano quelle norme non per il timore di sanzioni ma per la fiducia nel patto sociale che fa ciascuno responsabile di tutti gli altri. Altrimenti il potere centrale, avocando a sé i diritti in nome della salute pubblica, svela il suo volto di Leviathano e suscita nei cittadini, privati di tutto salvo che della vita, una inevitabile reazione trasgressiva e dirompente. Donde il fallimento dello stato di eccezione.

A un prezzo molto alto: infatti l'abbandono alla furia del virus comporta un aumento del tasso di mortalità a carico specialmente delle fasce più deboli, fino a livelli insostenibili. Né vale obiettare che un conto è considerare questa insostenibibilità sul piano etico (dove gli scrupoli morali, come sempre accade in caso di disastri e sconvolgimenti inauditi, lasciano il tempo che trovano) e un conto è considerarla sul piano politico e sociale (dove trionfa quella che  Sloterdjik ha chiamato la ragion cinica). In realtà nessuno può dire quali sconquassi politici possa suscitare una sensibilità morale profondamente ferita, com'è quella di chi è costretto ad abbandonare al proprio destino le persone care). Mentre è certo che la sola immunità nella quale si possa sperare è quella indotta da un vaccino, e quindi a sua volta figlia del patto sciale, non certo del caso o della indifferenza.

Quale lezione trarne? Una sola, sempre la stessa: non ci si salva a scapito degli altri, perché al contrario ci si salva prendendosi cura degli altri. Magari sacrificando la propria vita, come c'è chi ha fatto. Non possiamo parlare della peste del XXI secolo senza ricordarlo.

 

Responsabilità e solidarietà sono due termini oggi necessari sui quali dobbiamo riflettere. Cosa cambia? Quali responsabilità d’ora in poi ha il singolo individuo? 


In un'epoca come la nostra, dove in primo piano sulla scena non ci sono certo gli individui bensí i sistemi complessi, i grandi apparati anonimi, le forze piú o meno oscure che incombono sul mondo come da una trascendenza senza Dio (il covid, la pandemia, insomma la peste, altro non sono che esempi di queste realtà inafferrabili e sfuggenti), parlare di responsabilità e di solidarietà può apparire fuori luogo o fuori tempo. Abbiamo appena visto però come proprio la pandemia ci costringa a ripensare concetti troppo affrettatamente messi da parte. Non è l'imposizione dello stato di eccezione o la ricerca dell'immunizzazione a mettere fuori gioco idee come responsabilità, solidarietà, bene comune, ecc., perché sono proprio queste idee a ridare significato e valore a pratiche altrimenti obsolete per non dire contropoducenti e fallimentari.

Ma bisogna anche fare chiarezza su che cosa intendiamo per responsabilità e solidarietà. Cominciamo allora col ricordare che responsabilità e solidarietà stanno necessariamente in rapporto con qualcosa che potrebbe apparire, non meno di responsabilità e solidarietà, fuori corso, come ad esempio "colpa". Come si può essere responsabili, se non di qualcosa che può essere addebitato come colpa, come delitto, come crimine? Però c'è colpa e colpa. C'è la colpa che altro non è se non un debito da espiare, cioè una obbligazione contratta con la società a seguito di un delitto o crimine commesso contro la società stessa e che solo la punizione prevista può estinguere. E c'è la colpa che invece è qualcosa come un orizzonte di colpevolezza, un orizzonte nel quale io mi riconosco e riconosco a tutti gli altri il diritto di chiedermi la ragione delle mie azioni.

Proprio la peste ci porta a ripensare il concetto di colpa in rapporto a responsabilità e solidarietà. A nessuno la peste può essere imputata come se fosse una colpa. Però a chiunque può essere chiesto che cosa abbia o non abbia fatto per impedire che sia la peste a fare di lui un colpevole e a dire l'ultima parola sul  mondo.

 

Che rapporti possiamo stabilire tra quest’esperienza estrema e planetaria e l’etica?


 L'epidemia, evolvendosi secondo quella che del resto è la sua natura, diventa pandemia, ed ecco, non c'è piú legge, perché la sola legge è la sopravvivenza. Come si dice: pietà è morta. Sola parola d'ordine: si salvi chi può. Sempre la peste è stata descritta così: da Tucidite a Camus, da Boccaccio a McCarthy. Proprio questi autori tuttavia, in contesti diversissimi e da punti di vista difficilmente confrontabili ma convergenti, osservano come questa specie di destino che è il ritorno allo stato di natura faccia risorgere quell'imperativo dell'umano che recita: ama il prossimo tuo come te stesso, e può tranquillamente essere tradotto nel detto: non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te.

Qui il principio-responsabilità e il principio-solidarietà si legano indissolubilmente al principio-reciprocità. Ce lo dice in tutti i modi quella che potremmo definire la logica della peste.

Parola-chiave di questa logica è: contagio. Sappiamo che la peste sí trasmette per contagio da individuo a individuo. Ma ciò su cui merita fare attenzione è che il contagiato è al tempo stesso il contagiante, e il contagiante lo è in quanto a sua volta contagiato. Paziente e agente coincidono nella stessa persona. Colui che è esposto al male e ne soffre, inerme, l'azione potenzialmente mortifera, è portatore del male, è parte attiva nella sua propagazione. Questo ci permette di scoprire nella peste una specie di codice, una cifra morale. In quanto fatto di natura, la peste nulla ha a che fare con l'etica. Ma in quanto violenza esercitata sull'uomo (e dall'uomo, anche se l'uomo non è consapevole di essere un "untore" e comunque non lo è intenzionalmente!), dalla peste, e cioè dalla natura, viene all'uomo un appello, il piú perentorio che si possa pensare, alla responsabilità. Dove per responsabiltá si deve intendere non già l'obbligo a pagare il fio di una colpa, bensì l'impegno a rispondere a tutti di tutto. Anche di ciò che non era nostra intenzione compiere o che abbiamo compiuto inconsapevolmente. Prendendo lo spunto dall'esperienza che la peste ci obbliga a fare, c'è stato chi, come Vattimo e Zizek, ha suggerito di tornare a riflettere sull'idea di comunismo come prospettiva tutt'altro che superata.

  

Due scene in particolare hanno colpito tutti. La prima è quella dei camion dell’esercito a Bergamo che portavano le salme. Un silenzio duro, o si potrebbe forse dire un urlo silenzioso. La seconda è quella di Piazza San Pietro vuota, che forse ci lascia una sensazione d’amore, di solidarietà. Sono due estremi complementari di questo periodo?


 Niente come la sepoltura dei morti, l'estremo saluto, il congedo, ci parlano di noi e ci dicono non già chi saremo, ma chi siamo: siamo coloro che seppelliscono i loro morti. Seppellendo il suo simile l'uomo gli riconosce la cosa essenziale: la dignità. Quella dignità che può restare nascosta tutta la vita, dato che la vita può essere vile, insignificante e servile, ma che immancabilmente si mostra sul volto del morente, chiunque egli sia.

Non aver potuto rendere ai propri cari questo atto dovuto a tutti, senza distinzione né sociale né morale, è la ferita più profonda inferta dalla pandemia al comune sentire. Nella solitudine gonfia di partecipazione a tanto strazio non pochi hanno visto una perfetta icona della condizione umana al tempo della peste. Giustamente.

 

La crisi del Covid-19 ha avuto anche e avrà ancora, secondo lei, delle conseguenze sul nostro modo di rapportarci con la morte, con questo momento della perdita dell’altro? Che tipo di responsabilità abbiamo verso quelli che non ci sono più? A questo proposito, il Presidente della repubblica brasiliana, Jair Messias Bolsonaro, quando cominciava a crescere il numero di morti, ha dichiarato: “E allora? Cosa volete che faccia? Sono Messias, ma non faccio miracoli!”.


L'impotenza nei confronti di un fenomeno devastante che al momento non può essere combattuto e vinto, e neppure tenuto sotto controllo, ma solo arginato, induce al fatalismo. E questo è comprensibile, però non giustificabile. Forme di contraccezione al morbo che siano davvero risolutive non si sono ancora trovate. Non disponiamo di medicinali in grado di guarire l'infezione, né di strumenti che ne possano disinnescare la carica nella sua fase virulenta, ma solo di supporti al malato che lotta per sopravvivere (e anche questi in misura ridotta rispetto alle necessità, soprattutto nei paesi più poveri o a maggior sperequazione di ricchezza). Che cosa obiettare a chi trova nel fatalismo la sua ultima spiaggia?

Intanto c'è modo e modo di intendere quello che viene comunemente detto il nostro destino. Che si tratti di un comune destino di morte, è un fatto. Tutti dobbiamo morire. Se c'è una cosa certa, una cosa vera, eccola: la sola cosa vera, è stato detto da un poeta. Ma anche la cosa più equivoca che ci sia. Quando prendo atto che tutti dobbiamo morire e ne traggo la conclusione che allora tanto vale disporsi a farlo e lasciare che accada quel che deve accadere e così sia, magari senza rendermene conto sto usando espressioni che dicono non già la mia passività e la mia abulia, ma proprio il contrario, perché dicono il mio tentativo di appropriami di ciò che incombe su di me e di protendermi verso qualcosa che non voglio subire ma sperimentare e fare mio. Come sempre il linguaggio è uno smascheratore formidabile dei significati più nascosti, una antenna sensibilissima nel captare le voci che vi risuonano. In questo caso ci fa capire che, se la peste è il nostro destino, un conto è lasciar cadere l'accento su "nostro", e trarne la conclusione che esso ci accomuna tutti, e ci fa tutti responsabili gli uni degli altri, e un conto è lasciar cadere l'accento su "destino", che per il suo esser tale ci autorizza a lavarcene le mani abbandonandoci, e soprattutto abbandonando gli altri, ad esso. Una mera questione d'accento, si dirà. Sì, una mera questione d'accento. Che però spesso è la questione più importante.

E del resto non avevano già gli antichi stoici fatto notare che il destino può bensì essere vissuto come un peso gravoso che ci viene imposto in modo imperscrutabile, mentre sarebbe molto più saggio accoglierlo come una cosa che ci appartiene intimamente e che anzi è l'oggetto stesso della nostra volontà, dal momento che è proprio ciò che noi vogliamo o che faremmo bene a volere?  Sarebbe più saggio non solo perché, se lo accettiamo e lo accogliamo spontaneamente, invece che patirlo, ci sembrerà più leggero da sopportare. Ma  più saggio anche perché, in questo caso, cesserà di apparirci imperscrutabile se non addirittura beffardo, diventando per noi una inesauribile fonte di conoscenza. Conoscenza di noi stessi.


Como Citar: PETERLE, Patricia. Sulla peste del XXI secolo,  Sergio Givone in dialogo con Patricia Peterle. In "Literatura Italiana Traduzida", v.1., n.8, ago. 2020.
Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/212511