La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Gli ulivi, Lino Angiuli, di Amina Di Munno


Mare pugliese - Antonio Anelli


ne sa qualcosa / quest’ulivo / che dal medioevo / mi cresce

dentro / il luogo del cuore / e sa scrivere ics / sulla pagina del cielo

 

A febbraio del 2020 Lino Angiuli pubblica Addizioni, l’ultimo di una nutrita serie di libri di poesia, per i tipi della Nino Aragno Editore. Angiuli, nato a Valenzano nel 1946, vive a Monopoli, dove è stato dirigente dell’Amministrazione Regionale dei Servizi Educativi e Culturali, nonché collaboratore di quotidiani e dei servizi culturali della RAI. È tra i fondatori della rivista letteraria semestrale “incroci”, arrivata con successo al suo quarantesimo numero. Moltissime sono le sue opere. A partire dal 1967, con la pubblicazione del libro di poesie Liriche, la sua attività di scrittore (poesie, prosa, saggi, massime), non ha subito interruzioni.

Leggendo la produzione di questo poeta si ha la sensazione che la sua poesia sia nata matura e a questo proposito la mente corre verso una celebre frase di Fernando Pessoa, che di se stesso diceva: “não evoluo, VIAJO” [non evolvo, VIAGGIO]. Frase che scrive in una lettera indirizzata all’amico Adolfo Casais Monteiro il 20 gennaio 1935, lo stesso anno della sua morte, e specifica che inavvertitamente la parola è stata digitata nella macchina da scrivere con le maiuscole. Il viaggio per Pessoa, secondo quanto da lui affermato, si realizza in pianura. Per Lino Angiuli il viaggio sembra svolgersi in un solo luogo, in quel luogo che si identifica con la lingua della propria terra, lingua intrisa di storia, di influenze, di modi di dire attinti dal dialetto, (quando non espresse in dialetto puro), di espressioni arcaiche, antropologicamente tramandate di generazione in generazione.

E il tempo? Questo sì, è un tempo espanso, dilatato nel passato, nel presente e in un’ipotesi di futuro. È il tempo basato sulla diacronia saussuriana. Il quadro che ne viene fuori è il dipinto a colori di una Puglia verace fatta dell’azzurro del mare e del verde di ogni pianta, di ogni albero che caratterizza il mondo della macchia mediterranea immersa nelle varie stagioni: l’inverno, la primavera, come nella poesia Maggio in rosso, per citarne una:

 


Potrà addolcire gli altri inverni che mi restano ancora

da vivere senza dover dire la vecchiaia è una carogna

finché il calendario annuncerà il benestare di maggio

finché il ciliegio terrà aperta l’industria del suo rosso

voglio restare a contare albe e frutti a più non posso.

 

Le albe e i frutti di questa terra pugliese sono millenari, come antichissima è la sua storia, tanto antica da far risalire al paleolitico importanti reperti databili tra i 500.000 e gli 11.000 anni da oggi. La sua posizione strategica nel Mediterraneo la rende terra di passaggio e di incroci fra popoli e culture diverse. Situazione che crea le basi per un arricchimento se non altro di reciprocità. Anche in base alle esperienze e alle influenze ricevute, il suo ruolo la spinge oggi, più che mai, al di là dei propri confini e al di là del mare verso dinamiche di relazione culturali, commerciali, sociali e politiche. Le sue tradizioni, di cui fanno parte la lingua, la gastronomia, il folclore, l’architettura, sono il frutto della mescolanza di apporti diversi.

La Puglia è, dunque, terra dalle mille culture. Culture di cui si è nutrita l’anima, la mente, il cuore di Lino Angiuli.

Se analizziamo la vita e le opere di questo scrittore-poeta scopriamo di volta in volta con quanta conoscenza e consapevolezza egli penetri, sempre più a fondo, la natura e i suoi elementi. Allo stesso modo si confronta con l’umanità, le consuetudini, i mestieri: il libeccio, il peschereccio, l’equipaggio, per esempio, nella poesia “Sannicola” della sezione Tre santini fattincasa.

In ogni raccolta di poesie, svariate sono le scelte sia metriche che linguistiche. Alcune liriche sono scritte integralmente nel dialetto di Valenzano, in altri casi, sia pure meno frequenti, Angiuli ricorre alla composizione delle sue poesie nelle due versioni, in italiano e anche nella versione dialettale, come nel caso di Non voglio più morire-Nan vogghie merì chiù,

 

Non voglio morire più

Non voglio morire più che non voglio morire

me lo dico a solo a solo quei giorni

che ti trovo e accolgo dentro l’occhio mio….

Nan vogghie merì chiù

Nan vogghie merì chiù ca nan vogghie merì

m’u ddigghe a ssule a ssule chidde di’

ca t’acchje e accogghhje jind’all’ùecchie mi’

 

Nel verso: “Non voglio morire più che non voglio morire”, la ripetizione “che non voglio morire” è tipica della parlata popolare, il ribadire il concetto ha valore rafforzativo. In altri contesti troviamo termini ripetuti, raddoppiati: buonobuono, dolcedolce, sanosano con valore accrescitivo. E a questo riguardo è estremamente curioso e straordinario il paragone che si può stabilire con la lontanissima lingua degli indigeni Tupi-Guarani in cui la ripetizione dell’ultima sillaba ha valore, appunto, accrescitivo. Troviamo un esempio nel termine ara (pappagallino), arara (pappagallo di taglia maggiore), e così molte altre!

Nella sezione Amleto innamorato il poeta-traduttore affronta una sfida particolarmente complessa e originale nella trasposizione dei sonetti 22 e 55 di William Shakespeare nel suo dialetto natio. Completano il quadro del dialogo fra le lingue, in questa raccolta, le traduzioni di alcuni testi realizzate da traduttori madrelinguisti in inglese, tedesco e in lingua serba.

Il gioco linguistico si tinge di colori, a partire dai titoli: Poesia in verde, Mare in blu, Maggio in rosso, Sogno in marrone, Neve in bianco, o di notazioni musicali. Nella sezione Due Confonie, musicale è il lessico dei titoli: Adagio, Largo, Grave, Andante, Allegro con brio, Vivo. Non solo, Angiuli ricorre all’insolito espediente di evidenziare in corsivo le note musicali: “mi lascio andare alla predica dell’ulivo che mi cambia i connotati e si rifà vivo per mettermi addosso qualcosa di verde senza un’essenza non c’è esse che tenga e tutte le semenze diventano scemenze nell’eterno ping pong tra vivai e mortai è necessario fare tabula rasa del soldo”.

C’è in altre poesie il riferimento numerico, matematico, nonché, qua e là, il rimando alla religione, principalmente nel parafrasare versi delle scritture.

Meno frequente nell’intera raccolta il canto d’amore, ma non meno intenso nella sua delicata espressività. Colpiscono gli ultimi versi della poesia Giaculatoria di Lancillotto:

 

da quando non mi riesce di dire amore

senza spogliarmi correndo ad affogare

nel mare d’ogni tua pupilla senza fondo

per trovarla tutta lì la radice del mondo.

 

Fra gli espedienti letterari spicca l’uso di figure retoriche e stilistiche tipiche della poesia “alta”, espressioni, tuttavia, inframmezzate da enunciati spiccatamente popolari. Come già evidenziato nella puntuale e rigorosa postfazione di Daniele Maria Pegorari, è abbastanza frequente nelle diverse sezioni di Addizioni, il ricorso di Angiuli all’anadiplosi o raddoppiamento, ossia nella ripetizione dell'ultimo elemento di una proposizione all'inizio di quella seguente, figura retorica molto usata nel linguaggio orale.

Il testo di Angiuli si chiude con una breve Nota dell’autore, che per espresso desiderio e omaggio del poeta al lettore di lingua portoghese, qui si propone in traduzione.

 


 

Palavra de alcaparra

Nota do autor

 Era uma vez um império feito de / por homens, aliás eram dois, aliás... cem, dos quais só sobrou alguma memória entre muitas ruínas para fototurismo, aonde deveriam ir em peregrinação todos os candidatos a imperadores da Terra ou do condomínio, que geralmente ignoram a tradução de memento mori.

E era uma vez o que todos os manuais escolares chamam de Humanismo: um dos muitos esforços realizados pelo homo occidentalis na sua tentativa, não totalmente conseguida, de carregar nas costas o peso do próprio destino e de criar um mundo… à sua imagem e semelhança.

Entretanto: descobertas, invenções, viagens de cada tipo, obras de todos os gêneros, filosofias, governance, produzidas na ilusão de viajar rumo àquelas “magníficas sortes e progressivas” estigmatizadas por uma solitária gesta mencionada por uma grande mente capaz de se expor perante o infinito e seus “sobre-humanos” silêncios, registrar sua pulsação secreta e traduzi-la em palavras mágicas.

Pois: isso tudo, esse caminho todo chamado de “civilização” tem enchido e enche os muitos tomos da enciclopédia humana, que, manifestamente, não pode de maneira alguma coincidir com o livro aberto do cosmos. De fato, o descendente de Adão e Eva se surpreende ainda verificando que não é ele a medida do universo e quase nunca adormece lembrando-se de viver num minúsculo grão de areia do qual faz uso descomedido e crônico abuso.

Seja como for, queira ou não queira, ele não se deslocou do centro do próprio mundo, tomando literalmente a fabula bíblica que o coroou como espécie dominante.

E assim acontece que, quando se comunica entre humanos, se fala sempre em eventos humanos; quando se escuta o rádio, se ouve sempre a mesma humana história antiga: quando se age, se age como humanos para com outros humanos (chamados não por acaso “símiles”); quando se escrevem livros, se escreve principalmente sobre eventos e questões humanas em conformidade com conceitos e parâmetros humanos: ufa!!!

Consequentemente, quando nos deparamos com criaturas diferentes, logo as levamos à visão, à mentalidade e às necessidades do homem. Vento mar céu oliveiras estrelas plantas formigas exercem a função de contorno e de pano de fundo dos feitos do homo duas vezes sapiens, hipnotizado ainda pela força da clava e sempre em busca de segurança e religiões baratas capazes de curar seu ontológico e biológico medo da morte.

Desde este ponto de vista foram geradas, entre outras coisas, a geografia antrópica, a antroposofia, a antropologia, o antropomorfismo… e até a antropofagia, muito divulgada sob a forma de homo homini lupus: manifestações todas de uma “civilização” antropocêntrica, que cancelou violentamente culturas e pensamentos de outra forma e diferentemente fundados na relação com a Mãe Terra e o Pai Mundo!

Não foi por acaso, quando uma outra grande mente arriscou-se a observar com “suspeita” e distância a vida, que chamou suas reflexões de Humano, Demasiado Humano. Seu nome era Friedrich e vivia na Europa, a Europa em que nasceram também Cortés e Descartes.

Em conclusão, ao fim e ao cabo, o ser denominado humano apresenta muitas dificuldades em se deslocar do próprio umbigo, em se centrifugar ou descentralizar, em se colocar no lugar ou melhor no olho de outra criatura, e tampouco pretende abandonar essa posição protagonística, que custou-lhe enormes tragédias e trágicas destruições produzidas pelas numerosas tribos de humanus ou melhor dizendo de “hupedes”.

E então?

Então falemo-nos claro, frente a frente.

Quem sabe, talvez, provavelmente, se tentasses largar esse aparente privilégio, quem sabe, talvez, provavelmente poderias rever tua condição, tua história e poderias, de mais a mais, meditar sobre a consistência da tua existência ‘terrena’, devolvendo a esse adjetivo o seu significado literal.

Quem sabe, talvez, provavelmente, bem próximo do milagre de uma alcachofra ou de uma rosa empenhadas em brotar, pararias de falar “o homem e a natureza” como se se tratasse de dois âmbitos diferentes em lugar do mesmo “reino” do qual, além do mais, com toda certeza não és o monarca, como seguem te sussurrando o arco-íris, o pôr do sol, o horizonte e como gritam no teu ouvido, periodicamente, o terremoto, o furacão, o tsunâmi. E acrescentarias um acento àquele e conjunção.

Quem sabe, talvez, provavelmente, passando do sonho do Humanismo (pois trata-se de um belo sonho) ao do Vegetalismo (pois trata-se de um belo sonho), poderias aprender a fresca língua do manjericão, saberias escutar seus prodigiosos feitos (feitos com os quatro elementos principais: terra, água, ar, sol) e poderias praticar a arte do silêncio para escutar sua voz e compreender seu sentido. E entenderias que meus cem botões de flores são só as cem palavras, pronunciadas na língua materna alcaparresa, com as quais eu também invento discursos visões contos poesias, enquanto trabalho para administrar minha prolífica e premiada produção de alcaparras.

Peço-te, então, que não fales sobre / acerca da alcaparra mas que me deixes dizer e me deixes ser o que eu sou até o fim, até o fundo terra de que sou um vivaz cata-vento, não me tomes para teu uso e consumo mas deixa-te tomar por mim até poderes vestir o meu próprio olhar.

Convido-te também, para que imites minhas fontes de cor verde que sussurram verdemente e esverdeiam no olho do transeunte cego para devolver-lhe a visão, aprender de mim que se pode secar e se pode renascer, porque todas a criaturas animadas têm no bolso um certo número de vidas que podem semear e cultivar, que a morte não impressiona para nada o amor, que somos iguais e diferentes ao mesmo tempo, que basta pouco para alimentar com dignidade tantas folhas e tantos filhos… e outras verdezas, verdagens, verderias, verdimentas, verdações ao alcance do coração, com cuja chama poderiam tornar-se ver(de)dades.

Convido-te, por fim, a trocar a tua posição com a minha, a ficares não acima mas em frente ou ao meu lado para rezarmos juntos: cada ramo um salmo (o meu), cada botão de flor uma palavra (a minha), cada folha um versículo (o meu). Agora pega na tua mão um silêncio sem rompê-lo, entrega-o ao vento, enquanto te lanças com força no círculo mágico do presente e deixas que eu te receba para te ensinar o que é a ecosofia, porque eu sou a tua alcaparra e não terás outra alcaparra além de mim.

Então, adeus Humanismo, procura ir um pouco mais longe e passar do ego para o eco graças a uma só consoante. Digo isto para o teu bem: palavra minha!

 

Amina Di Munno

Monopoli, 31/07/2020


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Como citar: DI MUNNO, Amina "Gli ulivi, Lino Angiuli". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 1., n. 9, set. 2020.
Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/212621