La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

"Il cerusico di mare", di d’Annunzio: un viaggio verso la morte, di Alfredo Luzi


Il morticllo (1884), Francesco Paolo Michetti, Galleria d'Arte Moderna Ricci Odi



Il geografo Eugenio Turri, uno dei maggiori esperti del paesaggio marino, e in particolare dell’Adriatico, per sottolineare la vicinanza tra le due sponde, quella italiana e quella dalmata, utilizza un’immagine ‘sartoriale’ di grande efficacia, anche perché recupera la percezione visiva dell’ espace veçu da parte del viaggiatore:

 

Non ci sono forse sulla Terra due coste che si fronteggiano a breve distanza l’una dall’altra così diverse morfologicamente di quelle che delimitano il mare Adriatico a ovest e a est […]. Da una parte quindi un’orlatura semplice, essenziale, dall’altra una merlettatura, un ricamo.[1]

 

Morfologicamente in effetti l’Adriatico si può considerare un mare chiuso, se si tien conto che, ad esempio, Ancona e Spalato sono lontane solo 237 chilometri.
Le caratteristiche idrografiche e metereologiche hanno favorito una fitta rete di scambi tra le due rive fin dall’antichità.
La vicinanza delle coste, il succedersi delle dominazioni in passato e le alterne vicende politiche nell’ultimo secolo, i contatti culturali e commerciali, l’incrocio delle lingue talmente fitto che ha spinto i linguisti ad ipotizzare una sorta di lingua franca lungo le rotte adriatico-mediterranee, hanno suggerito allo scrittore Predrag Matvejevic, morto nel febbraio scorso, l’immagine mitopoietica dell’Adriatico come “mare dell’intimità”.[2]
Tralasciando l’ipotesi, avanzata da alcuni storici, che il nome Adriatico derivi dalla città di Atri, in Abruzzo, forse fondata dagli Illiri e punto d’arrivo dell’itinerario da Roma all’Adriatico, sul piano antropologico ha una sua valenza euristica il fatto che sulla traversata di questo mare siano fiorite leggende mitiche come quelle delle peripezie di Diomede, le disavventure di Antenore, le migrazioni dei Pelasgi, e il nomadismo di Ulisse.
Soprattutto tra la metà del Settecento e la proclamazione dell’Unità d’Italia i porti del medio Adriatico hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’attività della pesca e degli scambi commerciali tra le due sponde. Pescara e Ortona erano gli avamposti del Regno di Napoli nei contatti con i paesi dell’est. Il loro ruolo tenderà ad attenuarsi dopo l’annessione dell’Abruzzo al Regno d’Italia che determinerà una modifica strutturale del sistema economico e commerciale dell’intera nazione.[3]
I pescatori dell’Adriatico hanno navigato soprattutto su trabaccoli, imbarcazioni di ridotto cabotaggio fornite di due vele al terzo, cioè di forma triangolare o trapezoidale, in modo da sfruttare al massimo la spinta del vento da entrambe le parti, e lo hanno fatto almeno fino ai primi decenni del Novecento, quando in Italia il numero dei velieri risulterà inferiore a quello dei battelli a motore. Nel 1912 dai cantieri navali di San Benedetto del Tronto sarà varato il San Marco, il primo motopeschereccio che avvierà un cambio radicale del sistema di pesca e delle tecniche di navigazione.
Ma nelle frequenti traversate non si trasporta solo il pescato, le derrate alimentari, il riso, il grano, lo zafferano, il legno. Dalle coste dalmate giungono anche, nel medio Adriatico, frequenti epidemie di peste, malattia endemica nella zona di Spalato (nella città era stato costruito fin dal 1581 un lazzaretto per la quarantena dei malati).
Quella del 1815 è attestata, per le Marche, nel Libro di memorie (1760-1836) dello scrivano sangiorgese Giovan Battista Campanelli:

 

20 giugno 1815
Casotti per la peste dal Tronto fino a Tenna vi vollero da circa 4 mila tavole, ed Amico Magistrelli dovette andare in Ancona a prender chiodi.[4]
 
Per l’Abruzzo fa fede il documento di Polizia sul Cordone marittimo per la peste di Spalato del 1815 nel Distretto di Chieti e parte del Distretto di Lanciano.[5]
 
***
 
Quando d’Annunzio pubblica su “Il Fanfulla della Domenica” il 20 settembre 1885 la novella Il martirio di Gialluca, che nella edizione delle Novelle della Pescara del 1902 prenderà il titolo di Il cerusico di mare, ha ventidue anni e frequenta i salotti della mondanità romana, il cui mondo descrive nelle rubriche che cura in varie riviste, pronto a segnalare le novità letterarie e artistiche che giungono dagli altri paesi europei, in particolare l’Inghilterra e la Francia.
Due anni prima, nell’estate del 1883, aveva trascorso il suo viaggio di nozze con la duchessina Maria Hardouin di Gallese sull’Adriatico, a Porto San Giorgio, dove nel 1881 era stato fondato il Circolo Canottieri Piceni, luogo di ritrovo dell’aristocrazia fermana e romana.
La passione politica non ha ancora preso il sopravvento sull’esperienza letteraria e il giovane scrittore abruzzese scrive testi narrativi in cui, tra plagio e suggestione, predomina l’adesione al verismo bozzettistico e all’epopea delle tradizioni popolari.
Non è da escludere che il giovane scrittore pescarese abbia avuto l’occasione di leggere Verga, che, nel gennaio del 1881, aveva pubblicato sulla “Nuova Antologia” il X° capitolo dei Malavoglia, dove è descritta la tempesta in cui s’imbatte la Provvidenza, un’ambientazione che strutturalmente si ritrova nello schema narrativo del Cerusico di mare.
Sul piano linguistico la novella presenta due livelli: la parte descrittiva sviluppata in un italiano intessuto di tonalità auliche, la parte dialogica impostata sul dialetto pescarese, parlato dai personaggi protagonisti della narrazione. Ma quest’attenzione al dialetto, in prospettiva sociolinguistica, non è forse altro che la propaggine tardo-romantica con venature decadenti dell’idea di ‘popolo’ che, dopo il Risorgimento, aveva favorito gli studi sulle tradizioni popolari.
Annamaria Andreoli scrive, nell’Introduzione a Tutte le novelle:

 

Il suo (di d’A.) Abruzzo è figurativo (michettiano) e cartaceo, controllato sugli studi etnografici. Sono appunto questi gli anni delle indagini sul campo che frutteranno le raccolte della tradizioni popolari di De Nino (Usi e costumi abruzzesi, sei volumi fra il 1879 e il 1897) e di Finamore (Novelle popolari abruzzesi, due volumi del 1882 e del 1885), senza contare, di quest’ultimo, il Vocabolario abruzzese che con l’appendice dei Canti popolari affianca gli inserti dialettali e poetici di alcune novelle.[6]

 

Ma la deriva dal romanticismo verso il decadentismo estetizzante rintracciabile, come una sorta di patina mitica, anche in questa novella, era già stata evidenziata da Giuseppe Cocchiara, in una pagina del suo Popolo e letteratura in Italia:
 
Nelle sue novelle, è vero, non manca il tentativo di utilizzare il dialetto. In sostanza, però, anche qui egli tiene più all’effetto estetizzante, anziché alla struttura interna del suo linguaggio. Si direbbe, anzi, che nelle novelle egli fa col dialetto abruzzese quel primo esperimento che poi lo porterà alla ricerca dei più raffinati e complicati strumenti linguistici.
Chiamato a interrompere la narrazione, il dialetto – quando non è trascritto fedelmente per dare un certo calore ai suoi personaggi - è sfruttato dal D’Annunzio come elemento di preziosità.[7]
 
La novella, in cui i critici hanno riscontrato l’influsso, al limite dell’imitazione (la burrasca, stesso numero dei componenti l’equipaggio, utilizzo dell’acqua di mare per nettare la ferita), del racconto di Maupassant En mer del 1883, collega metaforicamente la traversata del trabaccolo Trinità in un mare dove la tempesta s’alterna con la bonaccia, alla macrosequenza della malattia del protagonista, affetto da un ascesso purulento sul collo. L’apertura della falla nello scafo dell’imbarcazione assume così la valenza di un correlativo oggettivo della morte del marinaio.

Ma, mentre i pescatori che hanno rischiato il naufragio potranno gustare, una volta tornato il sereno, l’emozione del nostos , chiudendo collettivamente col canto (“le ciurme ripresero la canzone, sotto la luna” (p.369) [8]) la loro vicenda che si era aperta col canto del “mozzo [che] prese a cantarellare una canzone della patria, a cavalcioni sulla prua” (p.358), Gialluca, nonostante l’applicazione di pratiche di medicina popolare e l’intervento dell’improvvisato cerusico Massacese per togliere il tumore, concluderà il suo viaggio marino ed esistenziale con la morte, gettato in un sacco e con una pietra ai piedi nel fondo del mare.

La struttura cronotopica del racconto è tutta basata sulle variazioni meteorologiche inserite in un reticolato prevalentemente auditivo dei rumori del mare e del vento.

All’inizio della navigazione, “Il tempo era ‘benigno’. […] In alto, passavano le oche selvatiche, ‘senza gridare’, e si dileguavano” (p.358). Ma, “Nella notte si mutò il vento; e il mare cominciò ad ingrossare. Il trabaccolo si mise a ballare sopra le onde […]” (p.359).“Il ‘romore’ del mare copriva le ‘voci’. Qualche ondata si spezzava sul ponte, ad intervalli, con un ‘suono’ sordo. Verso sera la burrasca si placò” (p.359-360). “Il cielo era coperto di vapori e il mare appariva cupo e stormi di gabbiani si precipitavano verso la costa ‘gridando’” (p.361).
Il protagonista, sceso nella stiva, ha la percezione della tempesta attraverso i suoni, amplificati dall’assenza della dimensione visiva: “Si udivano i colpi profondi del flutto contro i fianchi del naviglio e gli ‘scricchiolii’ di tutta quanta la compagine” (p.362).
La bufera si protrae: “Cadeva la notte. Il mare nell’ombra pareva che ‘urlasse’ più forte” (p.363); “Il mare, ancora grosso, ‘romoreggiava’ in torno, senza fine” (p.364); “La Trinità virava ‘scricchiolando’.(p.366). Fin quando: “Come più il vespro si avvicinava, le onde si placavano. […].  Il giorno si ritirava lentamente dalle acque. Nell’aria veniva la calma” (p.367).
Ai segnali sonori di un naufragio imminente fanno da contrappunto i suoni vocali emessi dai pescatori, la traccia delle loro reazioni emotive in un rapporto disforico tra soggetto e natura. Attraverso questa procedura d’Annunzio realizza il passaggio dagli stati di cose agli stati d’animo, studiato alcuni anni fa da Greimas e Fontanille in Semiotica delle passioni [9], e in qualche modo dinamizza l’atto di lettura, facendo della voce la parola-chiave che aggrega le varie fasi del racconto.
E se il silenzio accompagna la previsione della tempesta in arrivo (“Alla profezia, tutti guardarono verso il largo; e ‘non parlarono’” (p.358) [10]) e suggella il patto segreto dei marinai che gettano in mare il cadavere di Gialluca (“-oh, tu…. ‘mute come nu pesce’” (p.368); “Fumavano, ‘senza parlare’” (p.369), lo stato d’animo dei protagonisti è espresso tramite la comunicazione uditiva: “Ferrante La Selvi, che sentì giungere un gran colpo di vento, ‘gridò con voce rauca’ un comando, in mezzo al ‘romorio’ del mare” (p.361); “Gli altri marinai, dai loro posti, si misero a discutere i rimedii; ad alta voce, quasi gridando, per superare il fragore della burrasca” (p.362); “Ferrante governava il timone, gettando di tratto in tratto una ‘voce’ nella tempesta” (p.363); “Quando veniva una ondata, i marinai abbassavano la testa e mettevano un ‘grido’ concorde, simile a quello con cui sogliono accompagnare un comune sforzo nella fatica” (p.363); “Ferrante La Selvi, che vedeva la barca pericolare, diede un comando a ‘squarciagola’” (p.365); “Si udivano di là le ‘voci gutturali’ di Ferrante che comandava la manovra.[…] I Marinai discesero, in tumulto. ‘Gridavano’ tutti insieme” (p.366).
Alle voci dell’equipaggio s’aggiungono i suoni inarticolati emessi dal protagonista Gialluca che vede nel naufragio della Trinità un presagio della sua morte: “Gialluca, nella manovra, gittava ogni tanti un piccolo ‘grido’, perché ad ogni movimento brusco del capo sentiva dolore” (p.359).
Durante il rozzo intervento chirurgico per rimuovere il tumore: “Al primo contatto della lama, Gialluca gittò un ‘urlo’; poi, stringendo i denti, metteva quasi ‘un muggito’ soffocato” (p.364).
Il beccheggio del trabaccolo gli arreca altro dolore: “Un colpo di mare fece affondare la lama dentro i tessuti sani. Gialluca gittò un altro ‘urlo’” (p.364), fin quando egli entra in una sorta di deliquio, “facendo un lagno continuo” (p.365); “parlava con ‘voce’ che pareva non fosse più la sua” (p.366); “balbettava parole insensate” (p.367).
La tessitura cromatica fa invece da supporto al rapporto euforico con il paesaggio, con la presenza leopardianamente rassicurante della luna (si noti l’uso del verbo ‘pendere’):

 

“Nel cielo di ottobre, quasi a fior delle acque, la luna piena ‘pendeva’ come una dolce lampada ‘rosea’” (p.358);
“Verso sera la burrasca si placò; e la luna emerse come una cupola di ‘fuoco’” (p.360).
“Nella ‘chiara’ (ancora un lemma leopardiano) notte un’isoletta, che doveva essere Pelagosa, apparve in lontananza come una nuvola posata su l’acqua” (p.360).
“La burrasca accennava a diminuire. Il sole era a mezzo del cielo, tra nuvole color di ‘ruggine’” (p.366).
“L’isola di Solta appariva ‘tutt’azzurra’, in fondo” (p.368).
“La luna illuminava le rive. Il mare aveva quasi una tranquillità lacustre” (p.369).
 
Nella tavolozza dannunziana i colori segnano anche diacronicamente il peggioramento della malattia che porterà Gialluca alla morte. Il “rossore” (p.359) iniziale, col passare del tempo assume “un colore più cupo che su l’apice diveniva ‘violetto’” (p.360) fino all’insorgere sul collo di “alcune chiazze ‘brunastre’” (p.365).
Pur in un contesto di violenza della natura e degli uomini che ha le tonalità di un voyerismo morboso e macabro di stampo decadente, l’opzione per un lessico marinaresco specifico (“trabaccolo, paranze, mozzo, coperta, bonaccia, albero, vele, fiocchi, banda, prua, ponte, scotte, falla, poppa”) conferma la persistenza in questa novella della concezione verista della scrittura da parte dell’autore.
Ma d’Annunzio dimostra anche di conoscere bene gli usi, i costumi, i commerci dei pescatori abruzzesi del tempo.

C’è nel racconto un preciso riferimento ad una sorta di semiotica del mare quando l’autore scrive che i marinai della Trinità “vedendo le figure e le cifre delle vele” (p.369) capiscono che i due trabaccoli incrociati all’uscita del porto di Spalato sono della flotta pescarese. In effetti gli elementi del riconoscimento a distanza erano dipinti sulle vele: il colore e il segno, cioè le immagini artigianali che alludono o alla religione, o agli attrezzi di lavoro, ai soprannomi, a caratteri fisici dei proprietari.

Ad avvio di narrazione si dice che le vele del trabaccolo sono “tutte colorate in rosso e segnate di figure rudi” (p.358). Almeno per quanto riguarda il medio Adriatico, è documentato il fatto che per la colorazione delle vele si utilizzavano materiali semplici, a portata di mano dei pescatori: per il rosso le polveri di minio o ossido di piombo, per il nero il fiele delle seppie, per il giallo la terra d’ambra, sostanze che garantivano un colore intenso e indelebile.
Forse la conoscenza da parte dello scrittore delle isole e della costa dalmata non era solo ‘cartacea’, se un suo biografo, Giuseppe Fatini già nel 1935 aveva affermato che nell’estate 1878 d’Annunzio aveva effettuato una traversata dell’Adriatico che lo aveva portato fino alla cittadina di Traù.[11]
Certo è che la rotta percorsa dalla Trinità, doppiando Lissa ed entrando nello stretto canale tra l’isola di Solta e quella di Braç per raggiungere Spalato, è la più diretta da Ortona ed è ancora oggi la più seguita dai naviganti.
Nel racconto c’è anche un riferimento enologico al “vino di Dignano che ha il profumo delle rose” (p.358)[12], il ‘vin de rosa’, un moscato passito oggi riproposto come patrimonio della tradizione locale.
D’Annunzio scrive che i due battelli incrociati dall’equipaggio del trabaccolo al ritorno verso Pescara “uno dei navigli era carico di fichi secchi, e l’altro di asinelli” (p.369). Egli era dunque al corrente che l’isola di Lissa (oggi Vis) fosse famosa per la produzione di fichi secchi che forse venivano portati in Abruzzo ad incrementare le forniture della città di Atessa, nota per lo stesso dolce frutto, e che nel mercato del bestiame era molto apprezzata la razza dell’asino dalmatico per la sua adattabilità a trainare l’aratro e trascinare some pesanti in posti impervi, lungo sentieri inaccessibili, come quelli che accomunano la orografia dell’Abruzzo di montagna a quella della Croazia.
Due anni dopo, quasi a ribadire sul piano etico, cioè comportamentale, esistenziale, il principio estetico affermato nel Piacere: (Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte)[13], nell’estate del 1887 pianificherà, insieme al fraterno amico e sodale letterario Adolfo De Bosis che è alla guida del cutter Lady Clara, una traversata dell’Adriatico con partenza da Ortona, tappa a Portonovo e destinazione Venezia, per incontrare il suo grande amore del momento, Barbara Leoni, ossia Elvira Natalia Fraternali. Ma il battello perde la rotta e i naufraghi vengono raccolti dalla nave militare Agostino Barbarigo nelle acque davanti a Spalato.
Di questo viaggio c’è traccia nelle prime pagine del Trionfo della morte, edito nel 1894, dove il personaggio di Ippolita adombra la figura di Barbara Leoni e il naviglio prende il nome di Don Juan:
Siamo giunti ad Ancona oggi, alle due, venendo a vela da Porto San Giorgio. Per le tue preghiere e per i tuoi augurii, abbiamo avuto propizio il vento. Meravigliosa navigazione che ti racconterò. All’alba, riprenderemo il largo. Il Don Juan è il re dei cutter. La tua bandiera sventola su l’albero. Addio, forse a domani.[14]

Già sulla strada del decadentismo europeo, d’Annunzio passa dalla letteratura all’esperienza di vita e da questa di nuovo alla letteratura.

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Como citar: LUZI, Alfredo. "Il cerusico di mare", di d’Annunzio: un viaggio verso la morte. In Literatura Italiana Traduzida, v. 1, n. 9, set. 2020.  

[1] TURRI, Eugenio. L’orlo e il merletto, in Adriatico mare d’Europa. La geografia e la storia. Bologna: Rolo Banca 1473, 1999, p.150.
[2] MATVEJEVIĆ, Predrag. Mediterraneo. Un nuovo breviario. Milano: Garzanti, 1991, p.23.
[3] Vedi Patrimonio industriale marittimo nell’Adriatico centrale. Paola Pierucci (org.). Milano: Franco Angeli, 2013.
[4] CAMPANELLI, Giovan Battista. Libro di memorie. Alfredo Luzi e Clara Muzzarelli Formentini (orgs.) Fossombrone: Metauro, 2007, p. 245.
[5] Vedi Patrimonio industriale marittimo nell’Adriatico centrale, op. cit., nota 44, p.82.
[6] ANDREOLI, Annamaria.Introduzione a Gabriele d’Annunzio”. In Tutte le novelle. Milano: Mondadori, 1992, p.XXXVI.
[7] COCCHIARA, Giuseppe. Popolo e letteratura in Italia. Torino: Edizioni Scientifiche Einaudi, 1959, pp.498-499.
[8] D’ANNUNZIO, Gabriele. Tutte le novelle, op. cit., passim.
[9] Vedi GREIMAS, Algidars Julien e FONTANILLE, Jacques. Semiotica delle passioni. Milano: Bompiani, 1996.
[10] D’ANNUNZIO, Gabriele. Tutte le novelle, op. cit., passim.
[11] Vedi ora FATINI, Giuseppe. Gabriele D’Annunzio collegiale a Prato. Firenze: La Nuova Italia, 1988.
[12] D’ANNUNZIO, Gabriele. Tutte le novelle, op. cit., passim.
[13] D’ANNUNZIO, Gabriele, Il piacere. Milano: Mondadori, 1989, p.94.
[14] D’ANNUNZIO, Gabriele. Il trionfo della morte. Milano: Mondadori, 1966, p.57.