La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Subalterni che possono parlare: Giulia da Gazuolo, di Yuri Brunello

Kosta, Escravidão
 
Bhuvaneswari Bhaduri è, secondo il resoconto di Gayatri Spivak in Can the Subaltern Speak?, “una ragazza di sedici o diciassette anni”[1]. Si tratta di un’indipendentista indiana. Nel 1926 partecipa all’organizzazione di un crimine politico, che non va a buon fine. La giovane, spinta da vergogna per l’insuccesso conseguito, decide di suicidarsi. Sapendo che le circostanze della morte potrebbero indurre a pensare a una gravidanza illecita, Bhuvaneswari Bhaduri attende le mestruazioni per togliersi la vita, volendo in tal modo connotare politicamente il suo tragico atto: un eloquente segno che la drammatica morte non era conseguenza di una relazione illecita. Un segno eloquente? Al contrario, argomenta Spivak. È, piuttosto, una scelta vana. Spivak – che venne a sapere del caso di Bhuvaneswari Bhaduri attraverso resoconti determinati da legami di famiglia – racconta di avere chiesto, prima di iniziare a studiarne il caso, informazioni su Bhuvaneswari Bhaduri a una donna bengali, una studiosa di sanscrito e filosofa: “due le risposte ottenute: (a) perché, se le sue due sorelle, Saileswari e Rãseswari, hanno vissuto vite così piene e meravigliose, tu ti interessi all’infelice Bhuvaneswari? (b) ho chiesto alle sue nipoti. Sembra che sia stato un episodio di amore illecito” (traduzione nostra). Ecco, i subalterni non possono parlare, conclude Spivak. I subalterni non disponendo di un discorso proprio, non possono che vedere la propria voce dissolversi e finire sovvertita per le interferenze del discorso del Potere, egemonico e ipertrofico. A nessuno, insomma, era venuto in mente che il suicidio fosse politico.

Giulia da Gazuolo, invece, è una subalterna che riesce a parlare. E lo fa, nella fantasia di Matteo Bandello, proprio attraverso il suicidio. L’età è la stessa di Bhuvaneswari Bhaduri, secondo quel che ci fa sapere Bandello, riportando le parole del narratore della novella ottava del primo libro delle Novelle, Gian Matteo Olivo: “fu una giovane d’età di dicesette anni chiamata Giulia, figliuola d’un poverissimo uomo di questa terra, di nazione umilissima, che altro non aveva che con le braccia tutto il dì lavorando ed affaticandosi guadagnar il vivere per sé, per la moglie e due figliuole”[2]. Giulia non è nobile (la madre “che era buona femina, s’affaticava in guadagnar qualche cosa filando ed altri simili servigi donneschi facendo”); eppure, Antonia Bauzia (Antonia Del Balzo, figlia del principe di Altamura e moglie di Gianfrancesco Gonzaga I) rimane sorpresa dal portamento dignitoso e nobile di Giulia, nel corso di un incontro fortuito, durante il quale quest’ultima, su sollecitazione di Antonia, “riverentemente rispose e disse il nome del padre, e molto al proposito a le domande di madama sodisfece, che pareva che non in un tugurio e casa di paglia fosse nata e allevata, ma che tutto il tempo de la sua età fosse stata nodrita in corte”.
Giulia, tuttavia, ci fa sapere il narratore, non verrà mai ammessa a corte: “madama mi disse volerla pigliar in casa ed allevarla con l’altre donzelle. Perché poi si rimanesse, io non vi saperei già dire”. Giulia, infatti, “pareva ne le più civili case nodrita”. Speculare alla figura di Giulia è il personaggio del cameriere del vescovo di Mantova Lodovico Gonzaga. Il cameriere, ferrarese, di Giulia “sì stranamente s’innamorò, che ad altro il suo pensiero rivolger non poteva”. Elisabetta Menetti, nel suo commento alle novelle di Bandello, inserisce una nota a piè di pagina, osservando come stranamente significhi in tale specifico contesto “fuor di misura”. L’equilibrio e la misura, che sono le proprietà più vistose di Giulia (era “molto più leggiadra che a sì basso sangue non conveniva”, nei balli “aggraziatamente si moveva”), trovano un contrappunto nell’ossessione erotica del cameriere di Lodovico Gonzaga, sentimento che crescerà progressivamente nel corso del racconto, fino a trasformarsi in un qualcosa di bestiale: “l’amoroso verme fieramente rodeva il core, quanto più ella dura e ritrosa si mostrava, tanto più egli s’accendeva, tanto più la seguitava e tanto più s’affaticava di renderla pieghevole a’ suoi appetiti, ben che il tutto era indarno”.
La metafora entomologica del verme è indicativa di una condizione spiritualmente bassa, a dispetto del ruolo sociale occupato dal personaggio. Il cameriere, infatti, è di condizione più elevata rispetto a Giulia: vive in quegli ambienti che sono preclusi alla giovane subalterna “di basso sangue”. Incontrata Giulia, la quale “andava con l’altre giovanette ai balli e davasi onestamente piacere”, il cameriere “le gettò l’ingorda vista a dosso”. Giulia, quando lo vedeva “fuggiva come un basilisco”, osserva il narratore: dell’irriflesso mondo animale Giulia ricorda sì il basilisco, ma l’analogia con il serpente si dà nella velocità della fuga proprio dal paesaggio naturale. Al contrario, la giovane, che domina la terra lavorandola (“ella tutti i giorni che si lavorava non perdeva mai tempo, ma o sola od in compagnia sempre travagliava”), al cameriere del vescovo appare “più dura e più rigida che un marino scoglio”, immagine che rinvia agli spazi aperti del paesaggio marittimo.
Nell’animo dell’uomo – il quale, al pari dello staffiere che diverrà suo complice, “era in corte”, appartenendo cioè all’equilibrato spazio nobiliare – l’istinto bestiale da infimo si trasforma allora in criminale. Le insistenze si spingeranno fino allo stupro. Di un simile delitto Giulia finirà vittima, dopo essere stata “presa e gettata in terra” nella campagna di Gazuolo dallo staffiere, che le stringe un bavaglio sulle labbra, per ammutolirla, come si trattasse di un animale da domare. E la terra è l’ambiente proprio dei vermi. In seguito all’oltraggio, fisico, morale e psicologico, la giovane si toglierà la vita, gettandosi nel fiume Oglio. Optando per il suicidio, però, Giulia non sceglie di soccombere. Al contrario, con il suo gesto Giulia realizza un atto sovversivo, che ribalta le relazioni di potere: “dispogliatasi tutti quei vestimenti che indosso aveva, prese una camicia di bucato e se la mise”. Subito dopo,
 
si vestì il suo valescio di boccaccino bianco come neve ed una gorgiera di velo candido lavorato, con uno grembiale di vel bianco, che ella solamente soleva portar le feste. Così anco si messe un paio di calzette di saia bianca e di scarpette rosse. Conciossi poi la testa più vagamente che puoté, ed al collo si avvolse una filza d’ambre gialle.
 
La morte di Giulia si costituisce come un segno, capace di costruire un discorso nuovo, divergendo in ciò dall’analogo atto della coetanea novecentesca Bhuvaneswari Bhaduri. Al principio della novella Antonia Bauzia aveva interpellato Giulia, che “riverentemente” le aveva risposto, ma l’interesse della donna non si era tradotto in nulla di più di un’accidentale curiosità. Adesso, invece, è Giulia a interpellare, con il suo drammatico gesto e, dunque, con la sua voce, la realtà della corte e a interferire in essa. A due parenti, spiega, prima di togliersi la vita: “il fine mio farà a tutto il mondo manifesto e darà certissima fede che, se il corpo mi fu per forza violato, che sempre l’animo mi restò libero”. Violata nella verginità, Giulia a sua volta viola il suo stupratore e lo staffiere, estromettendoli dalla corte: “il signor vescovo e madama, udito il miserabil accidente, la fecero pescare. In questo il cameriero, chiamato a sé lo staffiero, se ne fuggì”. 
La voce di Giulia da Gazuolo si fa discorso, produce “il suo luogo”[3]: “l’illustrissimo e reverendissimo signor vescovo la fece su la piazza, non si potendo in sacrato seppellire, in un deposito mettere che ancora v’è, deliberando seppellirla in un sepolcro di bronzo e quello far porre su quella colonna di marmo ch’in piazza ancor veder si puote”. La presenza della giovane, in precedenza legata alla terra, si sublima nell’immutabile dimensione della persistenza minerale e nell’agency dei significanti cortigiani.

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Como citar: BRUNELLO,Yuri. "Subalterni che possono parlare: Giulia da Gazuolo". In Literatura Italiana Traduzida, v. 1, n. 9, set. 2020. 
Disponível em https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/212926


[1] SPIVAK, Gayatri Chakravorty. “Can the Subaltern Speak?’. In Laura CHRISMAN, Laura; WILLIAMS, Patrick (orgs.), Colonial Discourse and Post-Colonial Theory: A Reader. Londra: Harvester Wheatsheaf, 1993, p. 104.
[2] Questa e le seguenti citazioni di Bandello sono tratte da: BANDELLO, Matteo. Novelle. MENETTI, Elisabetta (org.). Milano: Rizzoli, 2011. Ebook.
[3] RIBEIRO, Djamila. Il luogo della parola. Alessandria: Capovolte, 2020. Traduzione di Monica Paes.