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Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Loretta Emiri
Mosaico Indigeno
Yanomami
em
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Nel settembre del 1984 venne pubblicato a Torino il libro
intitolato Gli ultimi yanomami.
Nella copertina figura anche il sottotitolo Un
tuffo nella preistoria. All’epoca avevo già vissuto per quattro anni
nell’area del Catrimâni, operando con e a favore degli indios yanomami,
trascorrendo con loro gli anni più felici della mia vita. Poiché i miei sforzi
professionali derivavano dall’esigenza di contribuire alla sopravvivenza fisica
e culturale degli yanomami, la parola “ultimi” mi indignò alquanto. Nel luglio
del 2017 il Corriere della sera ha
pubblicato un reportage, uno dei sottotitoli del quale è “La preghiera degli
ultimi yanomami”. Dal 1984 al 2017 sono trascorsi trentatré anni, eppure in
Italia, riferendosi a questa etnia, si utilizzano le stesse banali,
stereotipate parole. Nel gennaio del 2018 è andata in onda su RAI-TRE
l’intervista fattami da Sveva Sagramola. Un’amica, sessantottina e giornalista,
mi ha scritto: “Certo, il fatto che siano raddoppiati, che si salvaguardano da
soli (bene!) ha tolto un po’ di carica emotiva… che cosa possiamo fare noi per
loro? O loro per noi?”.
Cosa possono fare gli yanomami per noi? Possono aiutarci a
guarire dall’etnocentrismo, che è proprio una tremenda, contagiosa malattia. È
recente l’uscita del libro La caduta
del cielo. Pubblicata in francese e inglese nel 2010, in portoghese nel
2015 e ora in italiano, l’opera è destinata a raggiungere il mondo intero, come
il coautore Davi Kopenawa, sciamano yanomami, si augura. Nel dicembre del 1989
l’etnologo francese Bruce Albert ha iniziato a registrare le parole di Davi, e
lo ha fatto per più di dieci anni; poi, grazie allo straordinario dominio che
ha della stessa lingua parlata da Davi, le ha tradotte in francese. Il libro è
il risultato della complicità fra i due uomini e della loro preoccupazione per
le sorti del popolo yanomami, sempre sistematicamente minacciato dai fronti di
espansione della società occidentale. È un’autobiografia che, al tempo stesso,
l’etnologo converte in biografia. È un’enciclopedia yanomami, data la mole
delle informazioni che riguardano habitat, lingua, mitologia, botanica,
zoologia, cultura materiale.
La lettura dell’opera ci permette di penetrare nella
cosmogonia yanomami; di conoscere su quali valori questo popolo ha costruito la
propria struttura sociale; ci fa meditare su modi diversi di vedere, sentire,
agire; mette a confronto la società cosiddetta “civilizzata” con quella
cosiddetta “primitiva”. Per gli occidentali “ecologia” è una parola alla moda,
per gli yanomami è uno stile di vita. Accumulo, consumismo, aggressione alla
natura, sfruttamento selvaggio delle risorse naturali hanno trasformato la
terra in un immondezzaio. Non riusciamo più a smaltire i rifiuti. Quelli
tossici avvelenano l’aria, l’acqua, il sottosuolo, tutto ciò che mangiamo, e
noi moriamo di cancro. I pesci muoiono soffocati dalla plastica; in mare
muoiono i “diversi” che il nostro egoismo respinge. Concepite da menti malate, faraoniche
centrali idroelettriche e nucleari si sono trasformate in catastrofi
ambientali, arrivando a devastare territori anche molto lontani dai luoghi in
cui sono state costruite. Tutto avviene in nome del cosiddetto progresso, che,
aumentando, non fa altro che svuotare l’animo degli uomini, rendendoli
individualisti e sconsolatamente soli.
Le parole di Davi e Bruce ci mettono di fronte a tutto
questo. Davi e così generoso da preoccuparsi anche per gli uomini bianchi:
suggerendo di fare in modo che il cielo non cada, sta dicendoci che insieme
agli yanomami ci salveremmo anche noi. D’altronde, la generosità è il valore
più grande per gli yanomami. Secondo loro, solo chi è stato generoso in vita
raggiungerà la “terra di sopra”, cioè la dimensione che noi chiamiamo cielo.
Alla fine degli anni settanta, io e gli altri membri dell’equipe di lavoro
dell’area del Catrimâni, portavamo avanti un progetto denominato Piano di
Coscientizzazione, che doveva servire per coadiuvare gli yanomami nel capire
cosa stava minacciando, all’epoca, il loro territorio (apertura di strade,
segherie, colonizzazione). All’inizio non fu per niente facile, perché gli
indigeni obiettavano che la foresta è grande e c’è posto per tutti. Quando
epidemie e morti hanno ridotto tredici villaggi in otto piccoli gruppi di
sopravvissuti, sulla pelle hanno capito cosa l’uomo bianco portava con sé.
Tra le rivendicazioni degli ultimi anni degli indios
brasiliani, e gli yanomami non fanno eccezione, c’è quella di non parlare di
loro al passato remoto, di smetterla di collocarli nella preistoria. Ci sono.
Esistono. Resistono all’invasione delle proprie terre da oltre cinquecento
anni. Sono nostri contemporanei. Le loro culture e società non sono inferiori,
sono solo differenti. Hanno molto da insegnarci, se solo avessimo l’umiltà di
ascoltarli per quello che sono: esseri umani con conoscenze, esperienze,
diritti, sentimenti, sogni, proprio come lo siamo noi. Nonostante le continue,
estenuanti aggressioni al loro territorio e al loro modo di vivere, in questi
ultimi anni gli yanomami sono considerevolmente aumentati, si sono organizzati
in associazioni, hanno maestri, infermieri, leader che percorrono il mondo per
tenere alta l’attenzione sulla loro situazione, denunciando violazioni,
rivendicando diritti.
No, proprio no: a essere gli ultimi non sono né saranno gli
yanomami. Se il cielo cadrà, ad avere chance di sopravvivenza saranno proprio
loro e gli altri popoli indigeni, perché sanno come trattare la terra, come
godere con lei senza violentarla, come metterla incinta e perpetuare la
discendenza. In occasione di un soggiorno nel villaggio di Davi, Bruce scattò
una foto che mi ritrae con la figlia di Davi in braccio: per me è più preziosa
di tutto l’oro e minerali preziosi che i depredatori bianchi hanno già
abusivamente estratto dal territorio yanomami. Associato all’immagine della
foto è l’augurio che la piccola società yanomami continui a crescere forte e
sana, a dispetto di tutti e tutto. (Maggio 2018)
(Testo
pubblicato in “Mosaico indigeno”, Multimage, 2020)
Como citar: EMIRI, Loretta. "Il cielo non cade per i non-ultimi yanomami". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 1, n. 10, out. 2020.
Disponível em https://repositorio.ufsc.br/ handle/123456789/217025
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Nata in Umbria nel 1947, nel 1977 Loretta Emiri si è
stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o
per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni
Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto
lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti
nella lingua materna faceva parte. L’obiettivo era di fornire alle comunità
raggiunte nuove conoscenze che le mettessero in condizione di analizzare
criticamente il mondo dei bianchi e quindi di difendersi nello scontro con
esso. Frutto della ricerca linguistica e dell’esperienza svolte, in quell’epoca
ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica
della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario
Yãnomamè-Portoghese). Altre informazioni sono disponibili su: https://lorettaemiriegliyanomami.wordpress.com/informazioni/.
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