La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Tra grammatica e verità, di Valerio Magrelli

 

Foto: Dino Ignani

Confrontare poesia e pensiero, ossia letteratura e filosofia, chiedersi se possano esistere il pensiero senza poesia e la poesia senza pensiero, interpellare Leopardi e Jean Paul, Novalis, Hölderlin e Michelstaedter, Gadda e Landolfi, infine, interpretare la frase di Heidegger secondo cui “pensiero e poesia abitano vicini su monti lontanissimi” – tutto ciò significa molto semplicemente mettere un chiodo nella presa elettrica.
Qualche premessa. Come ha scritto Lula Gatti, si potrebbe dire che la poesia praticata da molti autori di oggi non abbia disegni pre-esistenti né bersagli:
 
Il poeta è colui che deve disegnare con sé la propria figura, che non pretende di dire parole decisive, che traccia il proprio bersaglio dopo il tiro intorno all’oggetto colpito e definisce i propri obiettivi anche casualmente. Insomma, la sua parola non parte da un disegno prefissato, da una conoscenza universale, né ambisce alla costruzione di una visione totalizzante, è piuttosto un’arma che, con tutta la coscienza dei propri limiti e margini di errore, può scavare per cercare il senso […] depositato nel fondo delle cose. Quale messaggio più interessante per i nostri studenti - figli di un’epoca che non ha mai conosciuto la sacralità della parola poetica, né veduto disegni globali all’orizzonte – del concepire la poesia (quella contemporanea, s’intende) come arma difettosa che può però prendere alcuni pezzi della realtà complessa e sfuggente e attribuirvi un senso?
 
Quanto a me, dopo tanti anni mi è capitato di affrontare la questione solo qualche tempo fa. Rispondendo a una domanda di Andrea Cortellessa, mi sono chiesto: come mai non ho mai scritto nulla intorno alla mia poetica? Non voglio, o non posso farlo? Questa ovviamente è già una posizione di poetica. Allora, tanto vale prenderne atto. Amo solo e soltanto commentare le mie poesie nelle letture, anzi accetto di intervenire in pubblico proprio per poter esaminare quei versi ex post, improvvisando e prendendo appunti nel corso delle conferenze. Già su questo dettaglio, a ben vedere, ci sarebbe molto da dire. Io tendo a preparare una scaletta, un canovaccio, su cui eseguire variazioni (cadenze, svisate). Il risultato è che le mie note vengono stilate mentre parlo, quasi mai prima. Insomma, il mio motore mentale, come la mia poetica, è “a trazione posteriore”. Ecco perchè scrivere di poetica non mi è possibile: ritengo anzi che un atto del genere rappresenti il frutto avvelenato dell'avanguardia, come ebbi modo di scoprire mentre terminavo il mio primo libro universitario, Profilo del dada.
 
Ogni manifesto pre-scrive, mentre io posso soltanto produrre post-scritti, ovvero una sterminata serie di addenda. Se proprio dovessi capitolare, preferirei allora optare per una “post-poetica”, così come nel cinema si parla di post-produzione. Io non so dove vada la mia scrittura: scrivo appunto per scoprirlo, come ho cercato di spiegare in un abbecedario intitolato Che cos’è la poesia? Traggo da quelle pagine, la voce Gnarus:

 


E' una parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima di scrivere questo abecedario. Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l'aggettivo "ignaro". Ma proviamo a vederla da vicino. Il termine significa "ben informato", "esperto", "pratico di", e deriva dalla radice indoeuropea gna, che sta per "conoscere". Ad essa è correlato un vocabolo come "gnoseologia", ma anche termini quali "narratore" e "narrazione". Dunque, secondo il suo etimo, il narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare. Ora, se questo è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone versi? Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un tempo sui fatti da narrare?

 

Mi piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: "Io non metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. E' da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di sapere". I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta…
In che maniera uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l'opera non va considerata come un oggetto dominato dall'autore, bensì come un processo che trasforma l'autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, ma per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.
 
Ho provato a riassumere queste impressioni (o questi pensieri?) in una poesia tratta da Il sangue amaro, ispirandomi a una splendida riflessione di Isabelle Stengers. La grande epistemologa rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. Diceva sostanzialmente che Galileo non si affezionò certo alla palla di piombo che gli serviva per dimostrare la rotazione della terra. Uno scienziato di oggi, non desidera tornare a casa col bosone che sta studiando, mentre uno zoologo sviluppa affetto per la scimmia con cui lavora, e magari vorrebbe tenerla con sé. Ecco, nei riguardi delle poesie che elabora, il poeta è un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata. Ecco, nei riguardi delle poesie che elabora, il poeta è un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata:

 

Cave cavie!

O forse sono cavie, queste poesie che scrivo,

per qualche esperimento concepite,

che tuttavia non so.

Non so perché si formano,

eppure mi affeziono e le chiamo per nome,

topolini vivissimi, allarmati

da che?[1]

 


Prima di ritornare al tema di partenza, poesia e pensiero, un’altra precisazione. Ritengo che la migliore definizione della poesia (e del fare artistico in genere) sia quella che Alfred Jarry attribuiva alla patafisica: "Scienza delle eccezioni". Speculazione e rivelazione, luce e orrore, invettiva e elegia, facondia e lallazione - tutto può diventare parola poetica, perché la parola poetica è lo specchio dell'infinita varietà del reale. Tuttavia, malgrado le tante letture "filosofiche" e soprattutto heideggeriane che hanno flagellato gli ultimi anni del secolo scorso (illuminanti, sì, ma irrimediabilmente viziate dall'intento di far aderire il prodotto letterario a un'interpretazione preconcetta), purtroppo si tende ancora a dimenticare che la "Poesia" è solo un'astrazione, formata da quell'insieme di concrezioni testuali che sono le singole “poesie”. La ragione di tale equivoco è presto detta: l’incombere della poetica sul materiale verbale, l’aleggiare dell’anima sul corpo della lettera.

La mia insofferenza nei riguardi di un simile atteggiamento dipende dal fatto che, ai miei occhi, la poetica rappresenta né più né meno che il tentativo compiuto dal pensiero per scassinare il testo. Violazione di proprietà privata – questo è il reato di cui si rendono colpevoli gli autori che pretendono di governare per intero l’atto della scrittura, tanto da credere di poterne disporre a proprio piacimento. Ritengo di essere l’ultimo degli scrittori imputabile di orfismo, oracolarità, veggenza (atteggiamenti che, peraltro, sono spesso guidati da poetiche assai forti), eppure mi sta a cuore ribadire l’importanza che svolge, in poesia, il libero “gioco linguistico” nel senso wittengsteiniano del termine: scarto, estro, mania inconciliabili con qualsiasi volontà prescrittiva.
Davanti a tutto ciò non restano che soluzioni individuali. Quanto a me, amo tendere il filo del pensiero per vedere quanto regge, per vedere quando la corda si arriccia, per arrivare al punto in cui si spezza. Ma mi interessa il prima e il durante, non il dopo. Il dopo, ossia il rigetto del significato, non porta lontano. E' un'acqua bassa, si tocca subito. Benché quanto sto per dire sia davvero troppo generico, vorrei spiegare che, personalmente, non mi interessa quella famiglia di opere basate sul rifiuto, più o meno radicale, della referenzialità. Mi limito a citare, ai suoi estremi storici, genealogici e geografici, Stéphane Mallarmé e John Ashbery. I miei maestri sono altri. Infatti continuo a ritenere che la migliore risposta a tante domande stia nella celebre immagine della colomba formulata da Immanuel Kant: immaginare una poesia che voli sfruttando le leggi fisiche del linguaggio, l'attrito tra suono e senso, tra verso e mondo, tra parola e esperienza, tra grammatica e verità.

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Como citar: MAGRELLI, Valerio. "Tra grammatica e verità". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 2, n. 1, jan. 2021. 
Disponível em:https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/219000



[1] Questa poesia di Valerio Magrelli fa parte dell’antologia brasiliana 66 poemas, MAGRELLI, Valerio. 66 poemas. Trad. Patricia Peterle; Lucia Wataghin. São Paulo: Rafael Copetti Editor, 2019.