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Foto: Dino Ignani |
Confrontare
poesia e pensiero, ossia letteratura e filosofia, chiedersi se possano esistere
il pensiero senza poesia e la poesia senza pensiero, interpellare Leopardi e Jean
Paul, Novalis, Hölderlin e Michelstaedter, Gadda e Landolfi, infine, interpretare
la frase di Heidegger secondo cui “pensiero e poesia abitano vicini su monti lontanissimi”
– tutto ciò significa molto semplicemente mettere un chiodo nella presa elettrica.
Qualche
premessa. Come ha scritto Lula Gatti, si potrebbe dire che la poesia praticata da
molti autori di oggi non abbia disegni pre-esistenti né bersagli:
Il
poeta è colui che deve disegnare con sé la propria figura, che non pretende
di dire parole decisive, che traccia il proprio bersaglio dopo il tiro intorno all’oggetto
colpito e definisce i propri obiettivi anche casualmente. Insomma, la sua parola
non parte da un disegno prefissato, da una conoscenza universale, né ambisce alla
costruzione di una visione totalizzante, è piuttosto un’arma che, con tutta la coscienza
dei propri limiti e margini di errore, può scavare per cercare il senso […] depositato
nel fondo delle cose. Quale messaggio più interessante per i nostri studenti - figli
di un’epoca che non ha mai conosciuto la sacralità della parola poetica, né veduto
disegni globali all’orizzonte – del concepire la poesia (quella contemporanea, s’intende)
come arma difettosa che può però prendere alcuni pezzi della
realtà complessa e sfuggente e attribuirvi un senso?
Quanto
a me, dopo tanti anni mi è capitato di affrontare la questione solo qualche tempo
fa. Rispondendo a una domanda di Andrea Cortellessa, mi sono chiesto: come mai non
ho mai scritto nulla intorno alla mia poetica? Non voglio, o non posso farlo? Questa
ovviamente è già una posizione di poetica. Allora, tanto vale prenderne atto. Amo
solo e soltanto commentare le mie poesie nelle letture, anzi accetto di intervenire
in pubblico proprio per poter esaminare quei versi ex post, improvvisando
e prendendo appunti nel corso delle conferenze. Già su questo dettaglio, a ben vedere,
ci sarebbe molto da dire. Io tendo a preparare una scaletta, un canovaccio, su cui
eseguire variazioni (cadenze, svisate). Il risultato è che le mie note vengono stilate
mentre parlo, quasi mai prima. Insomma, il mio motore mentale, come la mia poetica,
è “a trazione posteriore”. Ecco perchè scrivere di poetica non mi è possibile: ritengo
anzi che un atto del genere rappresenti il frutto avvelenato dell'avanguardia, come
ebbi modo di scoprire mentre terminavo il mio primo libro universitario, Profilo
del dada.
Ogni
manifesto pre-scrive, mentre io posso soltanto produrre post-scritti, ovvero
una sterminata serie di addenda. Se proprio dovessi capitolare,
preferirei allora optare per una “post-poetica”, così come nel cinema si parla
di post-produzione. Io non so dove vada la mia scrittura: scrivo appunto per
scoprirlo, come ho cercato di spiegare in un abbecedario intitolato Che
cos’è la poesia? Traggo da quelle pagine, la voce Gnarus:
E'
una parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima di scrivere questo
abecedario. Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l'aggettivo "ignaro".
Ma proviamo a vederla da vicino. Il termine significa "ben informato",
"esperto", "pratico di", e deriva dalla radice indoeuropea gna,
che sta per "conoscere". Ad essa è correlato un vocabolo come "gnoseologia",
ma anche termini quali "narratore" e "narrazione". Dunque, secondo
il suo etimo, il narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare.
Ora, se questo è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone
versi? Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce
davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E
ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato
come un tempo sui fatti da narrare?
Mi
piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: "Io non
metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. E' da lui che lo aspetto, per
scoprire ciò che non sapevo di sapere". I nostri dubbi trovano conferma.
Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il
poeta…
In
che maniera uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste
nel capire che l'opera non va considerata come un oggetto dominato dall'autore,
bensì come un processo che trasforma l'autore medesimo. Chi scrive versi,
infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, ma per cercare qualcosa che
non potrebbe mai trovare altrove.
Ho
provato a riassumere queste impressioni (o questi pensieri?) in una poesia tratta
da Il sangue amaro, ispirandomi a una splendida riflessione di Isabelle Stengers.
La grande epistemologa rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto
diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. Diceva sostanzialmente che Galileo
non si affezionò certo alla palla di piombo che gli serviva per dimostrare la rotazione
della terra. Uno scienziato di oggi, non desidera tornare a casa col bosone che
sta studiando, mentre uno zoologo sviluppa affetto per la scimmia con cui lavora,
e magari vorrebbe tenerla con sé. Ecco, nei riguardi delle poesie che elabora, il
poeta è un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e
animata. Ecco, nei riguardi delle poesie che elabora, il poeta è un po’ come uno
zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata:
Cave cavie!
O forse sono cavie, queste poesie che scrivo,
per qualche esperimento concepite,
che tuttavia non so.
Non so perché si formano,
eppure mi affeziono e le chiamo per nome,
topolini vivissimi, allarmati
da che?[1]
Prima
di ritornare al tema di partenza, poesia e pensiero, un’altra precisazione. Ritengo
che la migliore definizione della poesia (e del fare artistico in genere) sia quella
che Alfred Jarry attribuiva alla patafisica: "Scienza delle eccezioni".
Speculazione e rivelazione, luce e orrore, invettiva e elegia, facondia e lallazione
- tutto può diventare parola poetica, perché la parola poetica è lo specchio dell'infinita
varietà del reale. Tuttavia, malgrado le tante letture "filosofiche" e
soprattutto heideggeriane che hanno flagellato gli ultimi anni del secolo scorso
(illuminanti, sì, ma irrimediabilmente viziate dall'intento di far aderire il prodotto
letterario a un'interpretazione preconcetta), purtroppo si tende ancora a dimenticare
che la "Poesia" è solo un'astrazione, formata da quell'insieme di concrezioni
testuali che sono le singole “poesie”. La ragione di tale equivoco è presto detta:
l’incombere della poetica sul materiale verbale, l’aleggiare dell’anima sul corpo
della lettera.
La
mia insofferenza nei riguardi di un simile atteggiamento dipende dal fatto che,
ai miei occhi, la poetica rappresenta né più né meno che il tentativo compiuto dal
pensiero per scassinare il testo. Violazione di proprietà privata – questo è il
reato di cui si rendono colpevoli gli autori che pretendono di governare per
intero l’atto della scrittura, tanto da credere di poterne disporre a proprio
piacimento. Ritengo di essere l’ultimo degli scrittori imputabile di orfismo, oracolarità,
veggenza (atteggiamenti che, peraltro, sono spesso guidati da poetiche assai forti),
eppure mi sta a cuore ribadire l’importanza che svolge, in poesia, il libero “gioco
linguistico” nel senso wittengsteiniano del termine: scarto, estro, mania inconciliabili
con qualsiasi volontà prescrittiva.
Davanti
a tutto ciò non restano che soluzioni individuali. Quanto a me, amo tendere il filo
del pensiero per vedere quanto regge, per vedere quando la corda si arriccia, per
arrivare al punto in cui si spezza. Ma mi interessa il prima e il durante, non il
dopo. Il dopo, ossia il rigetto del significato, non porta lontano. E' un'acqua
bassa, si tocca subito. Benché quanto sto per dire sia davvero troppo generico,
vorrei spiegare che, personalmente, non mi interessa quella famiglia di opere basate
sul rifiuto, più o meno radicale, della referenzialità. Mi limito a citare, ai suoi
estremi storici, genealogici e geografici, Stéphane Mallarmé e John Ashbery. I miei
maestri sono altri. Infatti continuo a ritenere che la migliore risposta a tante
domande stia nella celebre immagine della colomba formulata da Immanuel Kant: immaginare
una poesia che voli sfruttando le leggi fisiche del linguaggio, l'attrito tra suono
e senso, tra verso e mondo, tra parola e esperienza, tra grammatica e verità.
________________________
Como citar: MAGRELLI, Valerio. "Tra grammatica e verità". In "Literatura Italiana Traduzida", v. 2, n. 1, jan. 2021.
Disponível em:https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/219000
[1]
Questa poesia di Valerio Magrelli fa parte dell’antologia brasiliana 66 poemas,
MAGRELLI, Valerio. 66 poemas. Trad. Patricia Peterle; Lucia Wataghin. São
Paulo: Rafael Copetti Editor, 2019.
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