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Rappresentazioni letterarie degli spazi smagliati del deserto: un linguaggio possibile. Absolutely nothing, di Giorgio Vasta, di Viviana Veneruso
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Giorgio Vasta
Ramak Fazel
Viviana Veneruso
em
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Foto: xphere.com |
Absolutely
nothing[1] è
il resoconto dell’esperienza di attraversamento dei “deserti americani” da
parte di tre compagni di viaggio, il cui ricordo è ripercorso à rebours a distanza di alcuni anni
dalle sensibilità diversissime dei tre partiti insieme.
A intraprendere
l’avventura e stilare poi questo reportage
sono lo scrittore Giorgio Vasta, Ramak Fazel (l’occhio fotografico che
incastona immagini parlanti nel racconto), e Silva, fotografa e editor
milanese, che si è occupata di mappare un itinerario preliminare del viaggio.
È stata lei infatti ad
abbozzare sulle cartine un reticolato di tragitti, che poi mostra allo
scrittore dirigendone la fisionomia col dito: il suo polpastrello carezza le “vene
gialle”[2] di
una geografia scheletrica, che ha la natura onirica del miraggio più che la solidità
di un paesaggio reale. Ma, d’altronde, questo è ciò che si deve mettere in
conto quando si ragiona con il deserto.
Eppure, prima di cozzare
contro la minaccia di svanimento che sempre inghiotte i luoghi che infestano il
deserto come presenze immateriali, Silva sembra quasi convincerci della loro
esistenza tangibile: il progetto della partenza sembra prendere corpo davvero
quando lei nomina le tappe, assesta e inanella i luoghi lungo una ragionevole
allogazione topografica. Di contro, l’esattezza delle posizioni con cui lei
ritiene di aver studiato il percorso minaccia, volta dopo volta, di essere
smentita dalla particolare natura di quegli stessi luoghi: sagome spettrali,
fossili segnaletici di avamposti abbandonati, di cui sopravvive al massimo
l’ombra di una funzionalità passata, sfrattata, che vuole rimanere trincerata
dentro il suo silenzio e non essere disturbata dalle interferenze antropiche.
Quelli che si leggono in Absolutely nothing sono i ricordi di un
viaggio passato, sommati e rassodati insieme dopo anni che lo è stesso è stato
compiuto. Per cui si assestano nel testo
zone atte ad accogliere una scrittura dall’andatura di un commento
commemorativo, tipograficamente
distinte e isolate dal corpo del testo con un carattere dalle dimensioni
inferiori, più discrete e estratte come dal sottofondo della lontananza.
Riflessioni che soltanto un benefico “artificio della distanza” consente di
mettere a fuoco.
Queste
invocazioni di ricordi, cavate dal passato e recuperate durante chiamate Skype,
appositamente consacrate a confronti e recrudescenze di nostalgia, sono
occasioni che permettono specialmente a Giorgio e Ramak di riflettere insieme
sul sentimento con cui ripensano quanto hanno vissuto.
Malgrado
il filtro retrospettivo con cui il racconto si riaggancia al ricordo, la
scrittura si ostina a cucire insieme le sue tessere al presente indicativo: un
tempo sfruttato nel suo essere incredibilmente aderente e elastico. Un tempo
cioè che assume la forma curvilinea del deserto, arzigogolata e serpeggiante
del tragitto in jeep, picchettante di oggetti a cozzare nel bagagliaio e
borbottante di colpi di tosse del motore.
I segmenti temporali
della storia schizzano in mille schegge, il racconto cerca di riannodare il
filo di quel continuum scarmigliato: “una
manciata di sferette bianche che rovesciate da un contenitore si allontanano
rimbalzando in ogni direzione”, dove “ogni pallina è un giorno di viaggio”[3],
zampillante e salterino.
Il “tempo del racconto” riavvolge il nastro in
maniera diversa da come il viaggio si è svolto, laddove esso aveva dovuto
obbligatoriamente rispettare la rettilinea e obiettiva geometria del tempo:
[…]
se anche il
viaggio, com’è logico, ha previsto un prima e un dopo, il suo racconto funziona
in un altro modo: il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si
mescola all’oblio, la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno
relativi e davanti agli occhi e nelle orecchie c’è solo il picchiettio sottile
delle palline sul pavimento, la vitalità selvatica di ciò che si sparpaglia.[4]
Tale scompaginamento nella
logica temporale dei ricordi si fa addirittura aperto atto di disobbedienza al
tempo, alla sua meccanica regolare, quando a un certo punto della storia viene
demarcata la fine del viaggio, con tutto il sentimento di commiato e nostalgia
preventiva che essa comporta, eppure lo scrittore grida la necessità di farlo
proseguire, testardo. Da questo momento in poi, la sua voce si sfilaccia in una
storia fantasmatica, in potenza, in grado di stirare il tempo esatto del trip vissuto, pur di prolungarlo oltre
la sua durata reale.
L’immagine forse più
potente, in grado di simboleggiare quell’attitudine che il tempo ha di
spalmarsi dentro strati geologici o configgersi tra gli spazi (l’abitacolo di
un’auto noleggiata, gli orifizi della stoffa di una t-shirt, gli interstizi della
gommapiuma di un sedile), è in particolare “una confezione di Survival Mix”,
una bustina di frutta secca che ha fatto compagnia ai tre durante tutto il
tempo e che solo adesso lo scrittore si riversa sul palmo, guardandola
raggranellata e disordinata:
[…]
me ne rovescio
qualche pezzetto sul palmo e per la prima volta da due settimane a questa parte
guardando che cosa ho in mano – banane mele pere arance kiwi mandorle ananas
uvetta, frutta granulare o tagliata a fette tenuta per un lasso di tempo a
deumidificare in un container sparpagliati nel deserto californiano oppure
esposta ai raggi diretti del sole […] quello che vedo racchiuso nella plastica
è soprattutto il brulichio, la mischia, un magma frantumato, una proliferazione
caotica di particelle davanti a cui tutto il resto possiede un ordine e una
logica: una dicibilità laddove nella baruffa di coriandoli zuccherini c’è
l’indicibile[5].
È questo forse uno dei
modi per parlare del senso del viaggio e della misura puntiforme e granulosa
della sua durata:
[…]
raccolgo una
mandorla, la rondella annerita di una banana, la mezzaluna di un ananas, ma poi
le lascio ricadere sul tappetino, non ha senso rimuovere ciò che nei giorni si
è accumulato perché questa frutta secca non è altro che tempo solido, secondi
minuti ore condivide perdute radunate, e se è vero che il tempo passa, scorre e
sorge, il nostro tempo vegetale è caduto depositandosi in una lunga lenta
disordinata incastonatura di frutta nelle cose e nei vestiti.
Problematico quanto la
coordinata del tempo è, nel libro, il concetto di spazio, tanto nella sua
versione gigantesca e dilatata (nei silenzi del deserto, nelle sue geografie
impossibili a ritracciarsi), sia nella sua variante più minuta e calettata sul
singolo. Il sentimento dello spazio palpita insieme al corpo, o meglio riguarda
esattamente la maniera in cui il corpo riempie l’ambiente e scopre la materia
soda della sua consistenza:
Quando
prendo posto è come se il mio corpo, penetrando nello spazio tra tavolo e
divanetto, guadagnasse un’improvvisa consistenza, schiena spalle di colpo si inspessiscono e il torace
si rinsalda e il respiro, dentro, si trasforma in una colonna d’aria solida, e
nel momento in cui atterro sulla finta pelle suscitando una breve esalazione
della gommapiuma, le braccia e le mani che mi ritrovo davanti gli occhi a
reggere il menu sono le mie ma sono inedite, mai viste prima, chiare e dense e
perfette. Intonate, direi se avesse
senso, oppure accordate[6].
Altre volte, quel
sentimento dello spazio si accompagna all’effetto di uno shock culturale,
tramite cui si riescono ad osservare le sfasature tra la conformazione dello
spazio europeo (o meglio italiano) e quello americano:
Camminando faccio caso all’ampiezza
inedita della mia falcata – distesa, famelica – e mi dico che questo mutamento
dipende dal modo in cui in generale è mutato il rapporto tra il mio corpo e lo
spazio intorno. Un marciapiede come questo, largo e sgombro, così diverso dai
marciapiedi delle città italiane, lo accende e lo ravviva, trasforma le gambe
in organi di desiderio, il cemento calpestato in godimento. E dunque, questa
volta solo camminando, ricompare la pienezza[7].
Una
sorta
di “poetica dello spazio” empirica, diaristica, che non si accontenta di
riassumersi nella forma di un resoconto di viaggio ma straborda fuori dai
giorni e dalle fermate lungo cui la peregrinazione si snoda, segmentata in
certe precipue tappe, da Los Angeles al Salton Sea, “dall’ottimismo della
California al pragmatismo dell’Arizona e del New Mexico” fino alla diversa “sostanza
psicologica”[8],
di cui è impregnato il paesaggio della Louisiana.
Alla fine del libro, in una
sezione intitolata “Appunti locali”, sfilano informazioni su questa
costellazione elastica di mete provvisorie, sotto forma di lista di “Pernottamenti”
o cartine geografiche opportunamente riprodotte. Mentre, nel corso della
narrazione, è come se il loro fosse stato un ansimante e faticoso sforzo di
esistere ancora, dopo l’opacizzante
avventura della sparizione. A volte, addirittura, quella dissolvenza che slava
e sbiadisce, e inghiotte infine nella dissolvenza, può farsi durata, piuttosto
che epilogo o punto fermo, che conclude la storia.
È ciò che Giorgio Vasta
crede di vedere in Louisiana: “Come in nessun altro luogo, adesso
l’abbandono non è l’opposto di qualcosa, l’alternativa amara all’abitare, bensì
un modo: qui si abita non prima, dopo o
nonostante, ma durante e attraverso
l’abbandono […]”[9].
Ancora
su quel composito assortimento di materiale che segue il testo, lo sfilaccia e
lo completa, prolungando il racconto in due ulteriori appendici che raccolgono
documenti di varia natura, vanno citate naturalmente le fotografie analogiche
scattate da Ramak giorno per giorno, luogo dopo luogo, le quali si
incuneano nel telaio del testo in bianco e nero, per poi conquistare uno spazio
autonomo verso la fine. Lì, nella sezione intitolata “Corneal abrasion” firmata
da Ramak, esse ricompaiono nella propria veste a colori; riviste in questo
secondo adattamento, impenna il tasso di figuralità parlante con cui già erano
emerse nel corpo del testo.
Quello
che di sconcertante e bellissimo s’irraggia da questo libro è il tentativo
tenace – lungo
il tempo di un viaggio e anche ben oltre il ritorno, fin dentro le fibre del
suo ricordo –
di adattare un linguaggio a questi paesaggi rosicchiati, truciolati,
disabitati, per cui le parole rischiano di essere sempre troppo definitorie e
ingabbianti.
Invece,
per essere più adeguate, dovrebbero saper suonare porose e traspiranti;
l’impressione ultima è che quelle di Giorgio Vasta siano riuscite ad essere
esattamente così, rispettose del sentimento del deserto e dell’abbandono. O
quantomeno si ritiene che si siano sforzate, caparbie, di non imporre una
lingua “contenitiva” all’ermetismo del deserto; che abbiano provato piuttosto
ad ascoltare la sua, tutta fatta di voragini e lacune, scongiurando le secche
in cui, nel cuore del deserto, potrebbe impantanarsi il linguaggio.
Come se la lingua qui
avesse tentato non tanto la via di scongiurare lo svanimento, ma di raccontarlo
nel suo inesorabile procedere in itinere,
riconoscendo cioè che non sempre si possono “addomesticare le cose” con la
parola.
Allora le parole
dell’antropologo Matteo Meschiari sembrano attagliarsi perfettamente al reportage narrato da Vasta, laddove sostiene
che “descrivere, raccontare,
nominare un luogo significa prenderlo e portarlo via, ma anche farsi prendere e
portare via da esso”[10]:
quella di Absolutely nothing sarebbe
un’esperienza simile, tutto il contrario di un’eurocentrica presa di possesso
dello spazio, su cui pesano ipoteche di pregiudizi o una leggerezza disinteressata da turista.
Piuttosto un modo di lasciarsi afferrare da luoghi che non si possono conoscere
se non in questo modo, rischiando la fagocitosi, il risucchio o la catabasi.
La decisione di rileggere
questo romanzo durante i tempi difficili e isolati del marzo 2020 ha
rappresentato per chi scrive un’occasione (lancinante e necessaria) per
ripensare al modo che ciascuno di noi ha per interagire con lo spazio che ci
circonda: quanto somiglia la nostra lingua al modo in cui raccontiamo lo
spazio, quanto ne rispetta anse e metrature e intelaiatura? O ancora, quanto palpita
il nostro “sentimento dello spazio” quando ci troviamo in luoghi a noi noti,
domestici e familiari al punto tale che l’abitudine rischia di inghiottirli
nella meccanicità istintiva dei gesti?
Mentre si rileggevano
perciò le pagine di Absolutely nothing in
cui Vasta sa descrivere perfino il ritmo interno della sua falcata, il modo che
ha di mordere lo spazio americano e o di situarsi dentro le sue grinze – con
la sua lingua di nervi, fibre e tendini – si è pensato insistentemente al modo che
ognuno ha per appropriarsi dello spazio.
Dopo aver trascorso mesi
murati nelle nostre case, a rimasticare sempre gli stessi luoghi, era
prevedibile che l’automatismo agguantasse tutti i nostri gesti, e che le
traiettorie dei nostri movimenti rispondessero soltanto ad azioni economiche, routine funzionali. Più che mai si
rinnova e attualizza allora l’esigenza che già Augé aveva segnalato, quando
affermava che “abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio”[11].
Per cui, il suggerimento
sarebbe quello di raccogliere anche tale prezioso spunto, enorme (e urgente,
attualissimo) che questo libro sa lanciare, il quale ha a che vedere con il
nostro personalissimo approccio all’ambiente, in tutta la sua viscosa
complessità. Così, in più, la sua lettura potrebbe fungere da esercizio di
consapevolezza per “fare mente locale”[12],
situarci dentro il nostro spazio vissuto e metterlo a fuoco.
____________________________
Como citar: VENERUSO, Viviana. "Rappresentazioni letterarie degli spazi smagliati del deserto: un linguaggio possibile. Absolutely nothing, di Giorgio Vasta". "Revista de Literatura Italiana", v. 2, n. 2, fev. 2021. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/220558
[1] VASTA, Giorgio; FAZEL,
Ramak. Absolutely nothing. Macerata: Quodlibet, 2016.
[2] Idem, p. 26.
[3] VASTA, Giorgio; FAZEL,
Ramak. Op. Cit, p. 29.
[4] Idem.
[5] Idem, p. 165.
[6] Idem, p. 14.
[7] Idem, pp. 18-19.
[8] Idem, p. 146.
[10] MESCHIARI, Matteo. Spazi Uniti d’America, etnografia di un
immaginario. Macerata: Quodlibet, 2012, p. 41.
[11] AUGÉ, Marc. Non luoghi, introduzione a un’antropologia
della surmodernità. Milano: Eleuthera, 2009, p. 57.
[12] LA CECLA, Francesco. Mente locale. Per un’antropologia
dell’abitare. Milano: Eulèthera, 1993.
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