La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Rappresentazioni letterarie degli spazi smagliati del deserto: un linguaggio possibile. Absolutely nothing, di Giorgio Vasta, di Viviana Veneruso

 

Foto: xphere.com

 

Absolutely nothing[1] è il resoconto dell’esperienza di attraversamento dei “deserti americani” da parte di tre compagni di viaggio, il cui ricordo è ripercorso à rebours a distanza di alcuni anni dalle sensibilità diversissime dei tre partiti insieme.
A intraprendere l’avventura e stilare poi questo reportage sono lo scrittore Giorgio Vasta, Ramak Fazel (l’occhio fotografico che incastona immagini parlanti nel racconto), e Silva, fotografa e editor milanese, che si è occupata di mappare un itinerario preliminare del viaggio.
È stata lei infatti ad abbozzare sulle cartine un reticolato di tragitti, che poi mostra allo scrittore dirigendone la fisionomia col dito: il suo polpastrello carezza le “vene gialle”[2] di una geografia scheletrica, che ha la natura onirica del miraggio più che la solidità di un paesaggio reale. Ma, d’altronde, questo è ciò che si deve mettere in conto quando si ragiona con il deserto.
Eppure, prima di cozzare contro la minaccia di svanimento che sempre inghiotte i luoghi che infestano il deserto come presenze immateriali, Silva sembra quasi convincerci della loro esistenza tangibile: il progetto della partenza sembra prendere corpo davvero quando lei nomina le tappe, assesta e inanella i luoghi lungo una ragionevole allogazione topografica. Di contro, l’esattezza delle posizioni con cui lei ritiene di aver studiato il percorso minaccia, volta dopo volta, di essere smentita dalla particolare natura di quegli stessi luoghi: sagome spettrali, fossili segnaletici di avamposti abbandonati, di cui sopravvive al massimo l’ombra di una funzionalità passata, sfrattata, che vuole rimanere trincerata dentro il suo silenzio e non essere disturbata dalle interferenze antropiche.
Quelli che si leggono in Absolutely nothing sono i ricordi di un viaggio passato, sommati e rassodati insieme dopo anni che lo è stesso è stato compiuto. Per cui si assestano nel testo zone atte ad accogliere una scrittura dall’andatura di un commento commemorativo, tipograficamente distinte e isolate dal corpo del testo con un carattere dalle dimensioni inferiori, più discrete e estratte come dal sottofondo della lontananza. Riflessioni che soltanto un benefico “artificio della distanza” consente di mettere a fuoco.
Queste invocazioni di ricordi, cavate dal passato e recuperate durante chiamate Skype, appositamente consacrate a confronti e recrudescenze di nostalgia, sono occasioni che permettono specialmente a Giorgio e Ramak di riflettere insieme sul sentimento con cui ripensano quanto hanno vissuto.
Malgrado il filtro retrospettivo con cui il racconto si riaggancia al ricordo, la scrittura si ostina a cucire insieme le sue tessere al presente indicativo: un tempo sfruttato nel suo essere incredibilmente aderente e elastico. Un tempo cioè che assume la forma curvilinea del deserto, arzigogolata e serpeggiante del tragitto in jeep, picchettante di oggetti a cozzare nel bagagliaio e borbottante di colpi di tosse del motore.

I segmenti temporali della storia schizzano in mille schegge, il racconto cerca di riannodare il filo di quel continuum scarmigliato: “una manciata di sferette bianche che rovesciate da un contenitore si allontanano rimbalzando in ogni direzione”, dove “ogni pallina è un giorno di viaggio”[3], zampillante e salterino.
 Il “tempo del racconto” riavvolge il nastro in maniera diversa da come il viaggio si è svolto, laddove esso aveva dovuto obbligatoriamente rispettare la rettilinea e obiettiva geometria del tempo:
 
[…] se anche il viaggio, com’è logico, ha previsto un prima e un dopo, il suo racconto funziona in un altro modo: il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si mescola all’oblio, la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno relativi e davanti agli occhi e nelle orecchie c’è solo il picchiettio sottile delle palline sul pavimento, la vitalità selvatica di ciò che si sparpaglia.[4]  
 
Tale scompaginamento nella logica temporale dei ricordi si fa addirittura aperto atto di disobbedienza al tempo, alla sua meccanica regolare, quando a un certo punto della storia viene demarcata la fine del viaggio, con tutto il sentimento di commiato e nostalgia preventiva che essa comporta, eppure lo scrittore grida la necessità di farlo proseguire, testardo. Da questo momento in poi, la sua voce si sfilaccia in una storia fantasmatica, in potenza, in grado di stirare il tempo esatto del trip vissuto, pur di prolungarlo oltre la sua durata reale.
L’immagine forse più potente, in grado di simboleggiare quell’attitudine che il tempo ha di spalmarsi dentro strati geologici o configgersi tra gli spazi (l’abitacolo di un’auto noleggiata, gli orifizi della stoffa di una t-shirt, gli interstizi della gommapiuma di un sedile), è in particolare “una confezione di Survival Mix”, una bustina di frutta secca che ha fatto compagnia ai tre durante tutto il tempo e che solo adesso lo scrittore si riversa sul palmo, guardandola raggranellata e disordinata:
 
[…] me ne rovescio qualche pezzetto sul palmo e per la prima volta da due settimane a questa parte guardando che cosa ho in mano – banane mele pere arance kiwi mandorle ananas uvetta, frutta granulare o tagliata a fette tenuta per un lasso di tempo a deumidificare in un container sparpagliati nel deserto californiano oppure esposta ai raggi diretti del sole […] quello che vedo racchiuso nella plastica è soprattutto il brulichio, la mischia, un magma frantumato, una proliferazione caotica di particelle davanti a cui tutto il resto possiede un ordine e una logica: una dicibilità laddove nella baruffa di coriandoli zuccherini c’è l’indicibile[5].
 
È questo forse uno dei modi per parlare del senso del viaggio e della misura puntiforme e granulosa della sua durata:

[…] raccolgo una mandorla, la rondella annerita di una banana, la mezzaluna di un ananas, ma poi le lascio ricadere sul tappetino, non ha senso rimuovere ciò che nei giorni si è accumulato perché questa frutta secca non è altro che tempo solido, secondi minuti ore condivide perdute radunate, e se è vero che il tempo passa, scorre e sorge, il nostro tempo vegetale è caduto depositandosi in una lunga lenta disordinata incastonatura di frutta nelle cose e nei vestiti.
 
Problematico quanto la coordinata del tempo è, nel libro, il concetto di spazio, tanto nella sua versione gigantesca e dilatata (nei silenzi del deserto, nelle sue geografie impossibili a ritracciarsi), sia nella sua variante più minuta e calettata sul singolo. Il sentimento dello spazio palpita insieme al corpo, o meglio riguarda esattamente la maniera in cui il corpo riempie l’ambiente e scopre la materia soda della sua consistenza:
 
Quando prendo posto è come se il mio corpo, penetrando nello spazio tra tavolo e divanetto, guadagnasse un’improvvisa consistenza, schiena  spalle di colpo si inspessiscono e il torace si rinsalda e il respiro, dentro, si trasforma in una colonna d’aria solida, e nel momento in cui atterro sulla finta pelle suscitando una breve esalazione della gommapiuma, le braccia e le mani che mi ritrovo davanti gli occhi a reggere il menu sono le mie ma sono inedite, mai viste prima, chiare e dense e perfette. Intonate, direi se avesse senso, oppure accordate[6].
 
Altre volte, quel sentimento dello spazio si accompagna all’effetto di uno shock culturale, tramite cui si riescono ad osservare le sfasature tra la conformazione dello spazio europeo (o meglio italiano) e quello americano:
 
Camminando faccio caso all’ampiezza inedita della mia falcata – distesa, famelica – e mi dico che questo mutamento dipende dal modo in cui in generale è mutato il rapporto tra il mio corpo e lo spazio intorno. Un marciapiede come questo, largo e sgombro, così diverso dai marciapiedi delle città italiane, lo accende e lo ravviva, trasforma le gambe in organi di desiderio, il cemento calpestato in godimento. E dunque, questa volta solo camminando, ricompare la pienezza[7].
 
Una sorta di “poetica dello spazio” empirica, diaristica, che non si accontenta di riassumersi nella forma di un resoconto di viaggio ma straborda fuori dai giorni e dalle fermate lungo cui la peregrinazione si snoda, segmentata in certe precipue tappe, da Los Angeles al Salton Sea, “dall’ottimismo della California al pragmatismo dell’Arizona e del New Mexico” fino alla diversa “sostanza psicologica”[8], di cui è impregnato il paesaggio della Louisiana.
Alla fine del libro, in una sezione intitolata “Appunti locali”, sfilano informazioni su questa costellazione elastica di mete provvisorie, sotto forma di lista di “Pernottamenti” o cartine geografiche opportunamente riprodotte. Mentre, nel corso della narrazione, è come se il loro fosse stato un ansimante e faticoso sforzo di esistere ancora, dopo l’opacizzante avventura della sparizione. A volte, addirittura, quella dissolvenza che slava e sbiadisce, e inghiotte infine nella dissolvenza, può farsi durata, piuttosto che epilogo o punto fermo, che conclude la storia.
È ciò che Giorgio Vasta crede di vedere in Louisiana: “Come in nessun altro luogo, adesso l’abbandono non è l’opposto di qualcosa, l’alternativa amara all’abitare, bensì un modo: qui si abita non prima, dopo o nonostante, ma durante e attraverso l’abbandono […]”[9].
Ancora su quel composito assortimento di materiale che segue il testo, lo sfilaccia e lo completa, prolungando il racconto in due ulteriori appendici che raccolgono documenti di varia natura, vanno citate naturalmente le fotografie analogiche scattate da Ramak giorno per giorno, luogo dopo luogo, le quali si incuneano nel telaio del testo in bianco e nero, per poi conquistare uno spazio autonomo verso la fine. Lì, nella sezione intitolata “Corneal abrasion” firmata da Ramak, esse ricompaiono nella propria veste a colori; riviste in questo secondo adattamento, impenna il tasso di figuralità parlante con cui già erano emerse nel corpo del testo.
Quello che di sconcertante e bellissimo s’irraggia da questo libro è il tentativo tenace lungo il tempo di un viaggio e anche ben oltre il ritorno, fin dentro le fibre del suo ricordo di adattare un linguaggio a questi paesaggi rosicchiati, truciolati, disabitati, per cui le parole rischiano di essere sempre troppo definitorie e ingabbianti.
Invece, per essere più adeguate, dovrebbero saper suonare porose e traspiranti; l’impressione ultima è che quelle di Giorgio Vasta siano riuscite ad essere esattamente così, rispettose del sentimento del deserto e dell’abbandono. O quantomeno si ritiene che si siano sforzate, caparbie, di non imporre una lingua “contenitiva” all’ermetismo del deserto; che abbiano provato piuttosto ad ascoltare la sua, tutta fatta di voragini e lacune, scongiurando le secche in cui, nel cuore del deserto, potrebbe impantanarsi il linguaggio.
Come se la lingua qui avesse tentato non tanto la via di scongiurare lo svanimento, ma di raccontarlo nel suo inesorabile procedere in itinere, riconoscendo cioè che non sempre si possono “addomesticare le cose” con la parola.
Allora le parole dell’antropologo Matteo Meschiari sembrano attagliarsi perfettamente al reportage narrato da Vasta, laddove sostiene che “descrivere, raccontare, nominare un luogo significa prenderlo e portarlo via, ma anche farsi prendere e portare via da esso”[10]: quella di Absolutely nothing sarebbe un’esperienza simile, tutto il contrario di un’eurocentrica presa di possesso dello spazio, su cui pesano ipoteche di pregiudizi o una  leggerezza disinteressata da turista. Piuttosto un modo di lasciarsi afferrare da luoghi che non si possono conoscere se non in questo modo, rischiando la fagocitosi, il risucchio o la catabasi.
La decisione di rileggere questo romanzo durante i tempi difficili e isolati del marzo 2020 ha rappresentato per chi scrive un’occasione (lancinante e necessaria) per ripensare al modo che ciascuno di noi ha per interagire con lo spazio che ci circonda: quanto somiglia la nostra lingua al modo in cui raccontiamo lo spazio, quanto ne rispetta anse e metrature e intelaiatura? O ancora, quanto palpita il nostro “sentimento dello spazio” quando ci troviamo in luoghi a noi noti, domestici e familiari al punto tale che l’abitudine rischia di inghiottirli nella meccanicità istintiva dei gesti?
Mentre si rileggevano perciò le pagine di Absolutely nothing in cui Vasta sa descrivere perfino il ritmo interno della sua falcata, il modo che ha di mordere lo spazio americano e o di situarsi dentro le sue grinze con la sua lingua di nervi, fibre e tendini  si è pensato insistentemente al modo che ognuno ha per appropriarsi dello spazio.
Dopo aver trascorso mesi murati nelle nostre case, a rimasticare sempre gli stessi luoghi, era prevedibile che l’automatismo agguantasse tutti i nostri gesti, e che le traiettorie dei nostri movimenti rispondessero soltanto ad azioni economiche, routine funzionali. Più che mai si rinnova e attualizza allora l’esigenza che già Augé aveva segnalato, quando affermava che “abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio”[11].
Per cui, il suggerimento sarebbe quello di raccogliere anche tale prezioso spunto, enorme (e urgente, attualissimo) che questo libro sa lanciare, il quale ha a che vedere con il nostro personalissimo approccio all’ambiente, in tutta la sua viscosa complessità. Così, in più, la sua lettura potrebbe fungere da esercizio di consapevolezza per “fare mente locale”[12], situarci dentro il nostro spazio vissuto e metterlo a fuoco.

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Como citar: VENERUSO, Viviana. "Rappresentazioni letterarie degli spazi smagliati del deserto: un linguaggio possibile.  Absolutely nothing, di Giorgio Vasta". "Revista de Literatura Italiana", v. 2, n. 2, fev. 2021.  Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/220558



[1] VASTA, Giorgio; FAZEL, Ramak. Absolutely nothing. Macerata: Quodlibet, 2016.
[2] Idem, p. 26.
[3] VASTA, Giorgio; FAZEL, Ramak. Op. Cit, p. 29.
[4] Idem.
[5] Idem, p. 165.
[6] Idem, p. 14.
[7] Idem, pp. 18-19.
[8] Idem, p. 146.
[9] Ibidem.
[10] MESCHIARI, Matteo. Spazi Uniti d’America, etnografia di un immaginario. Macerata: Quodlibet, 2012, p. 41.
[11] AUGÉ, Marc. Non luoghi, introduzione a un’antropologia della surmodernità. Milano: Eleuthera, 2009, p. 57.
[12] LA CECLA, Francesco. Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare. Milano: Eulèthera, 1993.