- Gerar link
- X
- Outros aplicativos
Voci femminili della “Scuola di Milano”: la interiorità nella poesia di Antonia Pozzi e Daria Menicanti, di Silvia Cattoni
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Antonia Pozzi
Daria Menicanti
Silvia Cattoni
em
- Gerar link
- X
- Outros aplicativos
![]() |
Gustav Klimt: Beethoven Frieze |
Verso gli anni trenta sorge, nell’Università di Milano, un gruppo di intellettuali che, nato sotto il magistero di Antonio Banfi[1], diede spessore e continuità a ciò che in filosofia si conosce come la Scuola di Milano. Intellettuali quali Vittorio Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni, Luciano Anceschi, Giulio Preti, Daria Menicanti, Antonia Pozzi, Maria Adalgisa Denti scoprirono alla luce di questi presupposti la possibilità di andare oltre le imposizioni culturali celebrate da una parte importante della società dell’epoca che normalizzò il nazionalismo e la violenza propri del fascismo in favore delle azioni di organizzazione economico-politiche.
Per Banfi, il razionalismo critico non poteva prescindere
dall’estetica. Un vincolo che sintetizzò Thomas Mann nel rapporto Geist-Leben (arte/vita) e che favorì,
nei suoi allievi, una prassi originale e autonoma. La “poetica degli oggetti”
di Sereni, la volontà di Pozzi di dare nome alle cose più semplici ed
essenziali e di riconoscere la verità della sua forza oggettiva e l’evidente
impronta cognoscitiva che Menicanti dà ai suoi versi costituiscono una
declinazione del razionalismo critico coltivato nel cenacolo banfiano.
Fu precisamente Luciano Anceschi a raccogliere, tramite
un’operazione di sistematizzazione critica, nella sua antologia Linea lombarda (1952), gli aspetti di
quella tradizione filosofica, nello stile poetico. Dante Isella, e Giorgio Luzzi[2] hanno continuato le operazioni per antologizzare la poesia lombarda. In tutte queste opere, la presenza di Vittorio
Sereni riconosce la potenza espressiva della voce che lo rende uno dei poeti
più importanti di questa linea nel Novecento.
Ancora sorvegliate da determinati meccanismi
egemonici funzionali al loro isolamento ed emarginazione, le donne mostrarono
nell’orizzonte poetico del Novecento una presenza debole. Benché questa
situazione non impedì loro di conquistare la parola poetica, la visibilità
delle voci femminili, alla fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo
millennio nelle recenti antologie poetiche è ancora molto ridotta. Nessuna
delle raccolte sopra citate, vincolate alla linea lombarda, concede spazio alle
voci femminili, omissione abbastanza significativa se si tiene conto del fatto
che, solo nel gruppo di Banfi, ci sono state due scrittrici degne di
riconoscimento: Antonia Pozzi e Daria Menicanti.
Questa
situazione va analizzata in relazione alle operazioni critiche parallele che si
avvertono nelle antologie poetiche del sistema letterario nazionale e che hanno
ridotto significativamente la presenza femminile, addirittura dopo il
postguerra. Ne è un esempio la già classica e rilevante opera di Mengaldo Poeti
italiani del Novecento (1978)
che prende in considerazione solo la voce di Amelia Rosselli. Nel vasto
universo cui fa parte la poesia italiana, genere formalizzato e di estesa e
articolata tradizione e che ha saputo codificare il femminile come il suo oggetto
poetico e la sua musa ispiratrice, continua ancora ad essere un interessante
argomento di ricerca la scoperta dei motivi per cui, per le donne, la conquista
della propria voce rappresenti tuttora un’ardua impresa.[3]
La Pozzi (1912-1938) e la Menicanti (1914-1995)
esemplificano l’ambigua posizione della donna nel campo letterario.
Appartenenti a una generazione nata nel contesto della stagione ermetica, la
loro poesia si riflette, con notevole potenza espressiva e innovative risorse
formali, nelle prime decadi del nuovo secolo, grazie al lavoro di recupero e
diffusione che tenta di mostrare il legittimo e significativo corpus di poesia
italiana scritta da donne.
Diverse sono state le difficoltà che entrambe le poetesse
dovettero affrontare per rendere nota la propria produzione poetica. Per quanto
riguarda la Pozzi, la sua opera affrontò, negli anni Trenta, l’egemonia del
giudizio maschile che non le permise un riconoscimento legittimo. Già negli
anni universitari fu Banfi il primo a sottovalutare la poesia della giovane
allieva e considerare i suoi versi un rifugio e sfogo dell’io lirico turbato
dal sentimentalismo. Dopo la prematura morte di Antonia, la sua opera fu
presentata, come già accaduto con altre poetesse della sua generazione, come un
caso letterario in cui ebbe
rilevanza, sicuramente, la tragedia della sua scomparsa.
Pubblicate in un volume unico, Parole, e in un’edizione privata a carico della famiglia nel 1939, le poesie soffrirono la manipolazione del padre, che le modificò al punto di distorcere completamente il temperamento della figlia, la quale viene mostrata piuttosto debole, triste e snervata. Essenziale per la legittimazione dell’opera della poetessa fu la prefazione di Montale all’edizione del ’48 della Mondadori, intitolata Parole. Diario di poesie. È risaputo che le prefazioni di Montale furono di altissima rilevanza per la consacrazione delle nuove voci del suo tempo, ciononostante il noto poeta non poté che leggere l’opera della Pozzi in chiave di poesia femminile e segnalare che l’effusione del sentimento e l’esperienza biografica toglievano valore ai suoi risultati tecnici e formali. Meno restrittivo è stato il giudizio del poeta T.S. Eliot, il quale, in una lettera del 1954[4], mette in rilievo il valore che il tono diaristico, evidenziato dal sottotitolo, concede alla poesia.
Con l’andare degli anni e la ridefinizione delle
operazioni critiche rispetto al ruolo delle donne nella letteratura in Italia,
la poesia della Pozzi ha conquistato progressivamente riconoscimento. È bene
notare che nel volume Il Novecento
della recente e prestigiosa Antologia
della poesia italiana[5],
a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, è l’unica ad essere nominata oltre ad
Amelia Rosselli.
Benché non nelle
stesse decadi e in condizioni diverse di produzione e diffusione rispetto a
quelli della Pozzi, anche la Menicanti ha dovuto affrontare i limiti che il
sistema letterario italiano impone alla poesia scritta da donne.
Stabilitasi a Milano
e dedita appieno all’insegnamento nella scuola media, Menicanti comincia a
scrivere, alla fine degli anni ’50, dopo una sostenuta opera di traduzione di letteratura
inglese. La sua carriera di poeta inizia in modo intenso nel 1965 con la
pubblicazione del suo primo libro, Città
come, nella collana Il Tornasole di
Mondadori, a cura del suo grande amico Vittorio Sereni, opera con la quale
vince il premio Carducci. Sempre a
cura di Sereni, pubblica anche Un nero
d’ombra nel (1969) e Poesia per un
passante nel (1976).
La zona d’ombra sopravviene per Daria
Menicanti dopo l’inaspettata morte del poeta-consulente, quando la Mondadori,
seguendo un’altra linea editoriale, rifiuta il suo libro Ferragosto, il quale verrà pubblicato tempo dopo dalla piccola
Lunarionuovo. Da allora, Menicanti non è mai più stata accolta dalle case
editrici di prestigio, tanto che le sue ultime opere Altri amici (1986) e Ultimo
quarto (1990) seguono un percorso meno noto. All’inizio del nuovo secolo,
appaiono La vita è un dito. Antologia poetica 1959-1989, e solo nel 2011 è stata riunita la sua opera completa
da Mimesis.
Antonia Pozzi e Daria Menicanti danno voce a una particolare prospettiva di interiorità definita dagli
affetti, sentimenti e passioni. La poesia fu per loro una via per trasformare
l’esperienza vissuta in materia simbolica ed esplorare, come possibilità di
autoconoscenza, determinate prospettive di affettività. La sofferenza psichica,
l’amore, il desiderio e, nel caso particolare della Pozzi, la maternità negata,
furono motivi attivi di creazione che, in entrambe le autrici, aiutarono a definire
il proficuo vincolo stabilito tra intimità e scrittura.
* * *
Figlia unica di una benestante famiglia
della borghesia milanese, Antonia Pozzi modellò il suo gusto estetico su una solida
formazione umanistica. La prima edizione critica della poesia originale della
Pozzi appare nel 1989, Garzanti pubblica, quindi 50 anni dopo la prima
pubblicazione a cura di Adriana Cenni e Onorina Dino, con il titolo Parole, la prima edizione critica della scrittrice
lombarda.
La
vita sognata[6] è un brevissimo canzoniere che potrebbe essere
considerata un brevissimo canzoniere d’amore scritto nel 1933 e dedicato ad
Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco del Liceo, per il quale la
giovane allieva nutriva una profonda ammirazione intellettuale che non tarda a
diventare un sognato e appassionato amore di gioventù. Il vincolo, vietato e
cancellato dalla severità familiare, fu interrotto dal potere del padre.
Con un eccezionale lirismo e dando forma poetica alla
triste esperienza amorosa della gioventù, i dieci componimenti che integrano La vita sognata alludono alla parabola
dell’amore proibito e segnano, in modo emblematico, la rinuncia all’amore che,
benché idealizzato, consente diverse modulazioni poetiche del dolore. I versi
liberi, dolci e melodiosi, illustrano l’intensità del sentimento che la
passione amorosa desta nella giovane poetessa. La Pozzi riprende la via poetica
propria del Novecento iniziata con
Pascoli e riconoscibile in Corazzini, i crepuscolari e Saba, continuando una
poesia trasparente, cristallina, che appella a un linguaggio limpido e
quotidiano.
Queste poesie seguono le tappe della vita sognata:
l’allegria del ritrovamento con Cervi, il terrore della perdita dell’amato,
l’immagine commuovente del figlio che gioca nel prato, i ricordi della morte di
Annunzio, fratello di Antonio, e la possibilità di farlo risvegliare nel
bambino desiderato. La cancellazione del sogno e l’inizio della morte
completano le suddette fasi.
La Pozzi, che possedeva una cultura raffinata e una
squisita e delicata sensibilità, seppe creare, nel contesto di restrizioni
proprie della sua epoca, un esteso territorio di interiorità che favorì lo
sviluppo della sua voce. Se la restrizione fu il leitmotiv che orientò la sua esistenza, la vita sognata costituisce
il motivo più rilevante della sua attività poetica, sviluppata in segreto e
solitudine. Con un evidente richiamo alla teoria del piacere di Leopardi, la
poetessa presenta un primo poema che si intitola precisamente “La vita sognata”,
precoce consapevolezza già dell’impossibilità e del carattere illusorio del
mondo, e nell’immagine del sogno la Pozzi condensa il dolore di una verità
amara che si rivela dinanzi ai propri occhi.
La vita, che, per la Pozzi, si frantuma quando trova i
limiti di quello che non può essere, raggiunge un tono drammatico a causa della
maternità negata, motivo presente in gran parte dei componimenti come si legge
nella poesia Saresti
stato. La cancellazione di
ogni speranza e l’interruzione del sogno di una maternità da lei tanto
desiderata portano la Pozzi ad avviare il cammino di una poesia elegiaca modulata
in un eros dolosamente negato per le circostanze esterne. La sua voce, candida
e giovanile, esibisce la già profonda sensibilità di qualcuno che sembrava non
essere preparato per la vita.
Altri versi della Pozzi spiccano per
la precisione e la chiarezza dell’immagine poetica che risale, per esempio, a L’allodola e Ricongiungimento. Questo si deve, sicuramente, alla sua ricerca
estetica e al suo amore per la fotografia, i quali portarono Antonia ad avere
un modo particolare di osservazione. Costretta alla solitudine assoluta, la Pozzi scrive per se stessa e sviluppa una
poesia che definisce ogni volta con più precisione tecnica i nuclei del suo
malessere. Con inusitato lirismo, la sua voce si delinea, breve e intensa,
nell’orizzonte poetico degli anni ’30, dove la concezione di poesia come
diario, quella che trasforma in versi l’esperienza vissuta e accoglie argomenti
vincolati a una singolare sofferenza psichica femminile, esibisce un territorio
di affettività nuovo che allarga i confini dell’intimità nella sfera poetica.
Nata
a Piacenza, Daria Menicanti si è formata, come la Pozzi, a Milano. Si laureò
nel 1937 con una tesi sulla poesia e la poetica di John Keats e in quello
stesso anno, l’amicizia con Giulio Preti, “scivolò in uno strano e confuso
matrimonio”. Benché quest’unione sia terminata nel 1954, Preti rappresentò per
Daria una presenza fondamentale durante tutta la sua vita. Un vincolo dolce e
tenero, ma anche e spesso insopportabile, che mostrò con tutte le sue contraddizioni
l’intensità delle passioni.
Il Canzoniere per Giulio[7] è stato
pubblicato postumo nel 2004. I suoi componimenti sono stati scritti
appositamente per definire linguisticamente “l’amore intensissimo che si è
prolungato in un dialogare che è andato al di là della sua morte” (785) e che
traccia uno dei più eccezionali territori di intimità del discorso amoroso di
Daria Menicanti.
A
differenza di Antonia Pozzi, la voce di Daria Menicanti è riuscita con gli anni
a maturare e a guadagnare forza enunciativa. I componimenti che fanno parte del
Canzoniere, modulano i toni della sua
curiosa voce, la quale, mediante l’allontanamento dell’io lirico, riesce a
controllare lo sgorgare del sentimento[8]. Nonostante
una vena nostalgica percorra i suoi versi, la Menicanti riesce, a volte
mediante il rigore analitico, a volte mediante l’uso dell’ironia, ad
allontanare l’io lirico dallo sconforto e dai toni tragici di un amore
concluso. Con atteggiamento condiscendente nei confronti dei difetti del
consorte e dei limiti laceranti raggiunti a volte da questo matrimonio, la
Menicanti, con piena dimestichezza della forma, riesce ad ottenere nei suoi
versi, con nostalgia, tenerezza e a volte anche con disillusione, un ritratto
generoso del filosofo ammirato.
In
queste poesie, la tradizione e l’emozione convergono in una lingua raffinata
che, dietro alla sua apparente semplicità, esibisce un’accurata elaborazione
formale caratteristica di qualcuno che, come lei, possiede una minuziosa
formazione classica e moderna. Come opportunamente dice l’amica Lalla Romano: “Daria
aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, libera
e molto audace”[9].
Dentro
l’orizzonte della poesia italiana contemporanea è difficile identificare la
linea alla quale può vincolarsi la poesia della Menicanti. Ciononostante, i
suoi tratti particolari che definiscono la sua originalità non le impediscono,
nella babele di tendenze propria della poesia italiana odierna, di essere
collegata a un filone elegante, ma non troppo evidente, che coltiva la
tradizione[10].
Allontanamento,
brevità, leggerezza e ironia sono caratteristiche del suo stile che crea un
universo poetico nel quale si distingue l’argomento amoroso articolato con
altre costanti menicantesche: il sentimento della vita che scorre, gli spazi
urbani che segnano la sua esistenza, i vari animali che costituiscono il
proprio bestiario e la componente filosofica.
Con
la stessa razionalità critica propria di Preti e del magistero di Banfi, la
poesia della Menicanti registra, con precisione e nel contesto della sua
quotidianità, la sfera del sentimento amoroso in tutta la sua dimensione.
Questi componimenti parlano, come detto da lei stessa nei suoi versi, del decanto del vissuto[11] in una scelta di forme precise,
eleganti e raffinate e Preti è sempre
il punto di riferimento fondamentale. Come si legge nei versi della poesia Di te resta, negli ultimi versi di Solo questo e nella poesia Via Ugo Foscolo, Pavia.
È bene notare il valore che la forma epigrammatica
raggiunge nel canzoniere e in tutta la poesia della Menicanti. L’epigramma
della grande tradizione alessandrina è una forma che, allontanatasi dalla
profusa oratoria ciceroniana, cerca la perfezione, la precisione concettuale
nella brevità, è una forma adatta alla critica e alla sdrammatizzazione,
all’allontanamento, ma anche a riassumere in pochi versi l’intensità del
sentimento. In alcuni di essi, per esempio nell’Epigramma 1, il sentimento amoroso viene definito da un’accurata
scelta di verbi e un’agile enumerazione. In altri, come nell’Epigramma 4, il pathos trova il sollievo
nella tranquillità di un ricordo sereno. D’altronde, la forma classica è utile
a delineare, a mo’ di omaggio, una breve sintesi dell’oggetto amato come si
vede nell’Epigramma per un filosofo. Questo
gusto esibisce chiaramente il riferimento alla tradizione classica così
importante per la Menicanti.
La poesia di Daria Menicanti, mediatizza il pathos dell’impossibilità in forme
razionali, concise e brevi, familiari al pensiero, la meditazione e la
riflessione. La voce poetica, lieve e distante, misurata e diretta, suscita
un’impressione di immediatezza che non è mai il punto di partenza della sua
lirica, ma il risultato della decantazione e dell’arduo lavoro di sintesi che
arriva al concetto puro per mostrare, a volte in modo tragico, la leggerezza
del perenne scorrere della vita.
________________________
Como citar: CATTONI, Silvia. "Voci femminili della “Scuola di Milano”: la interiorità nella poesia di Antonia Pozzi e Daria Menicanti". Revista de Literatura Italiana, v. 2, n. 2, fev. 2021. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/220224
[1] L’ateneo di Banfi, inscritto nei
principi teorici della Scuola di Milano, fu un catalizzatore delle principali
idee della tradizione illuminista lombarda espresse in ciò che in filosofia si
conosce come razionalismo critico. Nelle sue idee convergono elementi etnici,
economici, sociali, politici e linguistici della regione.
[2] Le operazioni per antologizzare
hanno promosso delle nuove indagini nei lavori di Dante Isella, I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi
a Carlo Emilio Gadda, del 1984, nel saggio di Giorgio Luzzi del 1987
intitolato Poeti della Linea Lombarda
e poi nel suo volume di 1989, Poesia
italiana 1941-1988: La via lombarda. In tutte queste opere, la presenza di
Vittorio Sereni riconosce la potenza espressiva della voce che lo rende uno dei
poeti più importanti di questa linea nel Novecento.
[3] Il
canone italiano è stato da sempre più generoso con le narratrici che non con le
poetesse. Benché oltre i limiti del presente studio, meriterebbe qui lasciare
aperta una via di approfondimento critico che consenta di capire le cause di
questo divario.
[4]
VECCHIO, Mateo Mario. “Eugenio Montale e Thomas S. Eliot lettori di Antonia
Pozzi. Con una lettera di Thomas S. Eliot a Roberto Pozzi (novembre 1954)”. In “Italian
Poetry Review”, a. V, 2010, pp. 297-313.
[5]
SEGRE, Cesare e OSSOLA, Carlo. Antologia
della poesia italiana. Vol.1 Il Nvecento, Torino: Einaudi, 2018.
[6] Nel
1939, un anno dopo la morte di Antonia Pozzi, la sua famiglia pubblicò la prima
edizione privata del volume Parole
nel quale sono raccolte 91 poesie, molte delle quali furono modificate e
censurate dal padre. Sono poi uscite altre edizioni negli anni ’40, con il
titolo Parole. Diario di poesia della
collana Lo specchio della Mondadori: l’edizione del 1943 che ha 157 poesie e
frammenti di una lettera di Tullio Gadenz. La edizione del 1948 riunisce 159
componimenti e una prefazione di Montale. Solo nel 1989, quindi 50 anni dopo la
prima pubblicazione, Garzanti pubblica, a cura di Adriana Cenni e Onorina Dino,
con il titolo Parole, la prima
edizione critica della poesia della Pozzi. Il volume, attraverso un accurato
lavoro archivistico, recupera le poesie originali della poetessa e ne aggiunge
altri, nuovi, aumentando così significativamente il corpus a 248 componimenti.
Il lavoro di compilazione dell’opera della Pozzi si completa nel 2015 con
l’edizione Parole. Tutte le poesie,
nel quale Bernabò e Dino, tramite un attento lavoro filologico sui tre quaderni di lavoro della
poetessa lombarda, riescono a pubblicare la sua opera poetica completa.
[7] Il Canzoniere per Giulio, non
pubblicato direttamente dall’autrice, è un’opera che raccoglie trenta poesie
derivanti dalle sue quattro prime opere: Città
come (1964), Un nero d’ombra
(1969), Poesie per un passante (1978)
e Ferragosto (1986), a cura e con uno
studio di Fabio Minazzi in un volume che contiene, inoltre, il testo narrativo Vita con Giulio che illustra il
carattere biografico del componimento. Il volume è stato pubblicato postumo,
prima nel 2004 da Manni Editori e dopo nel 2014 nell’opera omnia della
Menicanti, Il concerto del grillo da Mimesis
Edizioni. Le poesie di questo canzoniere sono state scritte appositamente per
definire linguisticamente “l’amore intensissimo che si è prolungato in un
dialogare che è andato al di là della sua morte” (785) e che traccia uno dei
più eccezionali territori di intimità del suo discorso amoroso.
[8] Forse perché nel Canzoniere il sentimento si mostra in
tutta la sua complessità, Vittorio Sereni, il suo caro amico, sulla quarta di
copertina del libro, scrive: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre
capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di
morte”.
[9]
ROMANO, Lalla. “Il congedo di Daria. Poesia Fuori moda”. In Corriere della Sera il 20 gennaio 1995.
[10]
RAFFO, Silvio. “Il concerto del Grillo”. In Il
concerto del Grillo. L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite a
cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvi Raffo. Milano: Mimesis 2013, p.
72.
[11]MENICANTI,
Daria. Ultimo quarto (1990), Il concerto del Grillo. L’opera poetica
completa con tutte le poesie inedite a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi
e Silvi Raffo. In “Notizie biografiche”, Milano: Mimesis 2013, p. 615.
- Gerar link
- X
- Outros aplicativos