La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Voci femminili della “Scuola di Milano”: la interiorità nella poesia di Antonia Pozzi e Daria Menicanti, di Silvia Cattoni

 

Gustav Klimt: Beethoven Frieze


Verso gli anni trenta sorge, nell’Università di Milano, un gruppo di intellettuali che, nato sotto il magistero di Antonio Banfi[1], diede spessore e continuità a ciò che in filosofia si conosce come la Scuola di Milano.  Intellettuali quali Vittorio Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni, Luciano Anceschi, Giulio Preti, Daria Menicanti, Antonia Pozzi, Maria Adalgisa Denti scoprirono alla luce di questi presupposti la possibilità di andare oltre le imposizioni culturali celebrate da una parte importante della società dell’epoca che normalizzò il nazionalismo e la violenza propri del fascismo in favore delle azioni di organizzazione economico-politiche.
Per Banfi, il razionalismo critico non poteva prescindere dall’estetica. Un vincolo che sintetizzò Thomas Mann nel rapporto Geist-Leben (arte/vita) e che favorì, nei suoi allievi, una prassi originale e autonoma. La “poetica degli oggetti” di Sereni, la volontà di Pozzi di dare nome alle cose più semplici ed essenziali e di riconoscere la verità della sua forza oggettiva e l’evidente impronta cognoscitiva che Menicanti dà ai suoi versi costituiscono una declinazione del razionalismo critico coltivato nel cenacolo banfiano.
Fu precisamente Luciano Anceschi a raccogliere, tramite un’operazione di sistematizzazione critica, nella sua antologia Linea lombarda (1952), gli aspetti di quella tradizione filosofica, nello stile poetico. Dante Isella, e Giorgio Luzzi[2]  hanno continuato le operazioni per antologizzare la poesia lombarda. In tutte queste opere, la presenza di Vittorio Sereni riconosce la potenza espressiva della voce che lo rende uno dei poeti più importanti di questa linea nel Novecento.

Ancora sorvegliate da determinati meccanismi egemonici funzionali al loro isolamento ed emarginazione, le donne mostrarono nell’orizzonte poetico del Novecento una presenza debole. Benché questa situazione non impedì loro di conquistare la parola poetica, la visibilità delle voci femminili, alla fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio nelle recenti antologie poetiche è ancora molto ridotta. Nessuna delle raccolte sopra citate, vincolate alla linea lombarda, concede spazio alle voci femminili, omissione abbastanza significativa se si tiene conto del fatto che, solo nel gruppo di Banfi, ci sono state due scrittrici degne di riconoscimento: Antonia Pozzi e Daria Menicanti. 
 Questa situazione va analizzata in relazione alle operazioni critiche parallele che si avvertono nelle antologie poetiche del sistema letterario nazionale e che hanno ridotto significativamente la presenza femminile, addirittura dopo il postguerra. Ne è un esempio la già classica e rilevante opera di Mengaldo Poeti italiani del Novecento (1978) che prende in considerazione solo la voce di Amelia Rosselli. Nel vasto universo cui fa parte la poesia italiana, genere formalizzato e di estesa e articolata tradizione e che ha saputo codificare il femminile come il suo oggetto poetico e la sua musa ispiratrice, continua ancora ad essere un interessante argomento di ricerca la scoperta dei motivi per cui, per le donne, la conquista della propria voce rappresenti tuttora un’ardua impresa.[3]
La Pozzi (1912-1938) e la Menicanti (1914-1995) esemplificano l’ambigua posizione della donna nel campo letterario. Appartenenti a una generazione nata nel contesto della stagione ermetica, la loro poesia si riflette, con notevole potenza espressiva e innovative risorse formali, nelle prime decadi del nuovo secolo, grazie al lavoro di recupero e diffusione che tenta di mostrare il legittimo e significativo corpus di poesia italiana scritta da donne.
Diverse sono state le difficoltà che entrambe le poetesse dovettero affrontare per rendere nota la propria produzione poetica. Per quanto riguarda la Pozzi, la sua opera affrontò, negli anni Trenta, l’egemonia del giudizio maschile che non le permise un riconoscimento legittimo. Già negli anni universitari fu Banfi il primo a sottovalutare la poesia della giovane allieva e considerare i suoi versi un rifugio e sfogo dell’io lirico turbato dal sentimentalismo. Dopo la prematura morte di Antonia, la sua opera fu presentata, come già accaduto con altre poetesse della sua generazione, come un caso letterario in cui ebbe rilevanza, sicuramente, la tragedia della sua scomparsa.

Pubblicate in un volume unico, Parole, e in un’edizione privata a carico della famiglia nel 1939, le poesie soffrirono la manipolazione del padre, che le modificò al punto di distorcere completamente il temperamento della figlia, la quale viene mostrata piuttosto debole, triste e snervata. Essenziale per la legittimazione dell’opera della poetessa fu la prefazione di Montale all’edizione del ’48 della Mondadori, intitolata Parole. Diario di poesie. È risaputo che le prefazioni di Montale furono di altissima rilevanza per la consacrazione delle nuove voci del suo tempo, ciononostante il noto poeta non poté che leggere l’opera della Pozzi in chiave di poesia femminile e segnalare che l’effusione del sentimento e l’esperienza biografica toglievano valore ai suoi risultati tecnici e formali. Meno restrittivo è stato il giudizio del poeta T.S. Eliot, il quale, in una lettera del 1954[4], mette in rilievo il valore che il tono diaristico, evidenziato dal sottotitolo, concede alla poesia.
Con l’andare degli anni e la ridefinizione delle operazioni critiche rispetto al ruolo delle donne nella letteratura in Italia, la poesia della Pozzi ha conquistato progressivamente riconoscimento. È bene notare che nel volume Il Novecento della recente e prestigiosa Antologia della poesia italiana[5], a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, è l’unica ad essere nominata oltre ad Amelia Rosselli.
Benché non nelle stesse decadi e in condizioni diverse di produzione e diffusione rispetto a quelli della Pozzi, anche la Menicanti ha dovuto affrontare i limiti che il sistema letterario italiano impone alla poesia scritta da donne.

Stabilitasi a Milano e dedita appieno all’insegnamento nella scuola media, Menicanti comincia a scrivere, alla fine degli anni ’50, dopo una sostenuta opera di traduzione di letteratura inglese. La sua carriera di poeta inizia in modo intenso nel 1965 con la pubblicazione del suo primo libro, Città come,  nella collana Il Tornasole di Mondadori, a cura del suo grande amico Vittorio Sereni, opera con la quale vince il premio Carducci. Sempre a cura di Sereni, pubblica anche Un nero d’ombra nel (1969) e Poesia per un passante nel (1976).

 La zona d’ombra sopravviene per Daria Menicanti dopo l’inaspettata morte del poeta-consulente, quando la Mondadori, seguendo un’altra linea editoriale, rifiuta il suo libro Ferragosto, il quale verrà pubblicato tempo dopo dalla piccola Lunarionuovo. Da allora, Menicanti non è mai più stata accolta dalle case editrici di prestigio, tanto che le sue ultime opere Altri amici (1986) e Ultimo quarto (1990) seguono un percorso meno noto. All’inizio del nuovo secolo, appaiono La vita è un dito. Antologia poetica 1959-1989, e solo nel 2011 è stata riunita la sua opera completa da Mimesis.
Antonia Pozzi e Daria Menicanti danno voce a una particolare prospettiva di interiorità definita dagli affetti, sentimenti e passioni. La poesia fu per loro una via per trasformare l’esperienza vissuta in materia simbolica ed esplorare, come possibilità di autoconoscenza, determinate prospettive di affettività. La sofferenza psichica, l’amore, il desiderio e, nel caso particolare della Pozzi, la maternità negata, furono motivi attivi di creazione che, in entrambe le autrici, aiutarono a definire il proficuo vincolo stabilito tra intimità e scrittura.

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Figlia unica di una benestante famiglia della borghesia milanese, Antonia Pozzi modellò il suo gusto estetico su una solida formazione umanistica. La prima edizione critica della poesia originale della Pozzi appare nel 1989, Garzanti pubblica, quindi 50 anni dopo la prima pubblicazione a cura di Adriana Cenni e Onorina Dino, con il titolo Parole, la prima edizione critica della scrittrice lombarda.
La vita sognata[6] è un brevissimo canzoniere che potrebbe essere considerata un brevissimo canzoniere d’amore scritto nel 1933 e dedicato ad Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco del Liceo, per il quale la giovane allieva nutriva una profonda ammirazione intellettuale che non tarda a diventare un sognato e appassionato amore di gioventù. Il vincolo, vietato e cancellato dalla severità familiare, fu interrotto dal potere del padre.
Con un eccezionale lirismo e dando forma poetica alla triste esperienza amorosa della gioventù, i dieci componimenti che integrano La vita sognata alludono alla parabola dell’amore proibito e segnano, in modo emblematico, la rinuncia all’amore che, benché idealizzato, consente diverse modulazioni poetiche del dolore. I versi liberi, dolci e melodiosi, illustrano l’intensità del sentimento che la passione amorosa desta nella giovane poetessa. La Pozzi riprende la via poetica propria del Novecento iniziata con Pascoli e riconoscibile in Corazzini, i crepuscolari e Saba, continuando una poesia trasparente, cristallina, che appella a un linguaggio limpido e quotidiano.
Queste poesie seguono le tappe della vita sognata: l’allegria del ritrovamento con Cervi, il terrore della perdita dell’amato, l’immagine commuovente del figlio che gioca nel prato, i ricordi della morte di Annunzio, fratello di Antonio, e la possibilità di farlo risvegliare nel bambino desiderato. La cancellazione del sogno e l’inizio della morte completano le suddette fasi.
La Pozzi, che possedeva una cultura raffinata e una squisita e delicata sensibilità, seppe creare, nel contesto di restrizioni proprie della sua epoca, un esteso territorio di interiorità che favorì lo sviluppo della sua voce. Se la restrizione fu il leitmotiv che orientò la sua esistenza, la vita sognata costituisce il motivo più rilevante della sua attività poetica, sviluppata in segreto e solitudine. Con un evidente richiamo alla teoria del piacere di Leopardi, la poetessa presenta un primo poema che si intitola precisamente “La vita sognata”, precoce consapevolezza già dell’impossibilità e del carattere illusorio del mondo, e nell’immagine del sogno la Pozzi condensa il dolore di una verità amara che si rivela dinanzi ai propri occhi.
La vita, che, per la Pozzi, si frantuma quando trova i limiti di quello che non può essere, raggiunge un tono drammatico a causa della maternità negata, motivo presente in gran parte dei componimenti come si legge nella poesia Saresti stato. La cancellazione di ogni speranza e l’interruzione del sogno di una maternità da lei tanto desiderata portano la Pozzi ad avviare il cammino di una poesia elegiaca modulata in un eros dolosamente negato per le circostanze esterne. La sua voce, candida e giovanile, esibisce la già profonda sensibilità di qualcuno che sembrava non essere preparato per la vita.
Altri versi della Pozzi spiccano per la precisione e la chiarezza dell’immagine poetica che risale, per esempio, a L’allodola e Ricongiungimento. Questo si deve, sicuramente, alla sua ricerca estetica e al suo amore per la fotografia, i quali portarono Antonia ad avere un modo particolare di osservazione.  Costretta alla solitudine assoluta, la Pozzi scrive per se stessa e sviluppa una poesia che definisce ogni volta con più precisione tecnica i nuclei del suo malessere. Con inusitato lirismo, la sua voce si delinea, breve e intensa, nell’orizzonte poetico degli anni ’30, dove la concezione di poesia come diario, quella che trasforma in versi l’esperienza vissuta e accoglie argomenti vincolati a una singolare sofferenza psichica femminile, esibisce un territorio di affettività nuovo che allarga i confini dell’intimità nella sfera poetica.
Nata a Piacenza, Daria Menicanti si è formata, come la Pozzi, a Milano. Si laureò nel 1937 con una tesi sulla poesia e la poetica di John Keats e in quello stesso anno, l’amicizia con Giulio Preti, “scivolò in uno strano e confuso matrimonio”. Benché quest’unione sia terminata nel 1954, Preti rappresentò per Daria una presenza fondamentale durante tutta la sua vita. Un vincolo dolce e tenero, ma anche e spesso insopportabile, che mostrò con tutte le sue contraddizioni l’intensità delle passioni.
Il Canzoniere per Giulio[7] è stato pubblicato postumo nel 2004. I suoi componimenti sono stati scritti appositamente per definire linguisticamente “l’amore intensissimo che si è prolungato in un dialogare che è andato al di là della sua morte” (785) e che traccia uno dei più eccezionali territori di intimità del discorso amoroso di Daria Menicanti.

A differenza di Antonia Pozzi, la voce di Daria Menicanti è riuscita con gli anni a maturare e a guadagnare forza enunciativa. I componimenti che fanno parte del Canzoniere, modulano i toni della sua curiosa voce, la quale, mediante l’allontanamento dell’io lirico, riesce a controllare lo sgorgare del sentimento[8]. Nonostante una vena nostalgica percorra i suoi versi, la Menicanti riesce, a volte mediante il rigore analitico, a volte mediante l’uso dell’ironia, ad allontanare l’io lirico dallo sconforto e dai toni tragici di un amore concluso. Con atteggiamento condiscendente nei confronti dei difetti del consorte e dei limiti laceranti raggiunti a volte da questo matrimonio, la Menicanti, con piena dimestichezza della forma, riesce ad ottenere nei suoi versi, con nostalgia, tenerezza e a volte anche con disillusione, un ritratto generoso del filosofo ammirato.
In queste poesie, la tradizione e l’emozione convergono in una lingua raffinata che, dietro alla sua apparente semplicità, esibisce un’accurata elaborazione formale caratteristica di qualcuno che, come lei, possiede una minuziosa formazione classica e moderna. Come opportunamente dice l’amica Lalla Romano: “Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, libera e molto audace”[9].
Dentro l’orizzonte della poesia italiana contemporanea è difficile identificare la linea alla quale può vincolarsi la poesia della Menicanti. Ciononostante, i suoi tratti particolari che definiscono la sua originalità non le impediscono, nella babele di tendenze propria della poesia italiana odierna, di essere collegata a un filone elegante, ma non troppo evidente, che coltiva la tradizione[10].
Allontanamento, brevità, leggerezza e ironia sono caratteristiche del suo stile che crea un universo poetico nel quale si distingue l’argomento amoroso articolato con altre costanti menicantesche: il sentimento della vita che scorre, gli spazi urbani che segnano la sua esistenza, i vari animali che costituiscono il proprio bestiario e la componente filosofica.
Con la stessa razionalità critica propria di Preti e del magistero di Banfi, la poesia della Menicanti registra, con precisione e nel contesto della sua quotidianità, la sfera del sentimento amoroso in tutta la sua dimensione. Questi componimenti parlano, come detto da lei stessa nei suoi versi, del decanto del vissuto[11] in una scelta di forme precise, eleganti e raffinate e Preti è sempre il punto di riferimento fondamentale. Come si legge nei versi della poesia Di te resta, negli ultimi versi di Solo questo e nella poesia Via Ugo Foscolo, Pavia.
È bene notare il valore che la forma epigrammatica raggiunge nel canzoniere e in tutta la poesia della Menicanti. L’epigramma della grande tradizione alessandrina è una forma che, allontanatasi dalla profusa oratoria ciceroniana, cerca la perfezione, la precisione concettuale nella brevità, è una forma adatta alla critica e alla sdrammatizzazione, all’allontanamento, ma anche a riassumere in pochi versi l’intensità del sentimento. In alcuni di essi, per esempio nell’Epigramma 1, il sentimento amoroso viene definito da un’accurata scelta di verbi e un’agile enumerazione. In altri, come nell’Epigramma 4, il pathos trova il sollievo nella tranquillità di un ricordo sereno. D’altronde, la forma classica è utile a delineare, a mo’ di omaggio, una breve sintesi dell’oggetto amato come si vede nell’Epigramma per un filosofo. Questo gusto esibisce chiaramente il riferimento alla tradizione classica così importante per la Menicanti.
La poesia di Daria Menicanti, mediatizza il pathos dell’impossibilità in forme razionali, concise e brevi, familiari al pensiero, la meditazione e la riflessione. La voce poetica, lieve e distante, misurata e diretta, suscita un’impressione di immediatezza che non è mai il punto di partenza della sua lirica, ma il risultato della decantazione e dell’arduo lavoro di sintesi che arriva al concetto puro per mostrare, a volte in modo tragico, la leggerezza del perenne scorrere della vita.

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Como citar: CATTONI, Silvia. "Voci femminili della “Scuola di Milano”: la interiorità nella poesia di Antonia Pozzi e Daria Menicanti". Revista de Literatura Italiana, v. 2, n. 2, fev. 2021.  Disponível em:  https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/220224



[1] L’ateneo di Banfi, inscritto nei principi teorici della Scuola di Milano, fu un catalizzatore delle principali idee della tradizione illuminista lombarda espresse in ciò che in filosofia si conosce come razionalismo critico. Nelle sue idee convergono elementi etnici, economici, sociali, politici e linguistici della regione.
[2] Le operazioni per antologizzare hanno promosso delle nuove indagini nei lavori di Dante Isella, I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, del 1984, nel saggio di Giorgio Luzzi del 1987 intitolato Poeti della Linea Lombarda e poi nel suo volume di 1989, Poesia italiana 1941-1988: La via lombarda. In tutte queste opere, la presenza di Vittorio Sereni riconosce la potenza espressiva della voce che lo rende uno dei poeti più importanti di questa linea nel Novecento.
[3] Il canone italiano è stato da sempre più generoso con le narratrici che non con le poetesse. Benché oltre i limiti del presente studio, meriterebbe qui lasciare aperta una via di approfondimento critico che consenta di capire le cause di questo divario.
[4] VECCHIO, Mateo Mario. “Eugenio Montale e Thomas S. Eliot lettori di Antonia Pozzi. Con una lettera di Thomas S. Eliot a Roberto Pozzi (novembre 1954)”. In “Italian Poetry Review”, a. V, 2010, pp. 297-313.
[5] SEGRE, Cesare e OSSOLA, Carlo. Antologia della poesia italiana. Vol.1 Il Nvecento, Torino: Einaudi, 2018.
[6] Nel 1939, un anno dopo la morte di Antonia Pozzi, la sua famiglia pubblicò la prima edizione privata del volume Parole nel quale sono raccolte 91 poesie, molte delle quali furono modificate e censurate dal padre. Sono poi uscite altre edizioni negli anni ’40, con il titolo Parole. Diario di poesia della collana Lo specchio della Mondadori: l’edizione del 1943 che ha 157 poesie e frammenti di una lettera di Tullio Gadenz. La edizione del 1948 riunisce 159 componimenti e una prefazione di Montale. Solo nel 1989, quindi 50 anni dopo la prima pubblicazione, Garzanti pubblica, a cura di Adriana Cenni e Onorina Dino, con il titolo Parole, la prima edizione critica della poesia della Pozzi. Il volume, attraverso un accurato lavoro archivistico, recupera le poesie originali della poetessa e ne aggiunge altri, nuovi, aumentando così significativamente il corpus a 248 componimenti. Il lavoro di compilazione dell’opera della Pozzi si completa nel 2015 con l’edizione Parole. Tutte le poesie, nel quale Bernabò e Dino, tramite un attento lavoro filologico sui tre quaderni di lavoro della poetessa lombarda, riescono a pubblicare la sua opera poetica completa.
[7] Il Canzoniere per Giulio, non pubblicato direttamente dall’autrice, è un’opera che raccoglie trenta poesie derivanti dalle sue quattro prime opere: Città come (1964), Un nero d’ombra (1969), Poesie per un passante (1978) e Ferragosto (1986), a cura e con uno studio di Fabio Minazzi in un volume che contiene, inoltre, il testo narrativo Vita con Giulio che illustra il carattere biografico del componimento. Il volume è stato pubblicato postumo, prima nel 2004 da Manni Editori e dopo nel 2014 nell’opera omnia della Menicanti, Il concerto del grillo da Mimesis Edizioni. Le poesie di questo canzoniere sono state scritte appositamente per definire linguisticamente “l’amore intensissimo che si è prolungato in un dialogare che è andato al di là della sua morte” (785) e che traccia uno dei più eccezionali territori di intimità del suo discorso amoroso.
[8] Forse perché nel Canzoniere il sentimento si mostra in tutta la sua complessità, Vittorio Sereni, il suo caro amico, sulla quarta di copertina del libro, scrive: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di morte”.
[9] ROMANO, Lalla. “Il congedo di Daria. Poesia Fuori moda”. In Corriere della Sera il 20 gennaio 1995.
[10] RAFFO, Silvio. “Il concerto del Grillo”. In Il concerto del Grillo. L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvi Raffo. Milano: Mimesis 2013, p. 72.
[11]MENICANTI, Daria. Ultimo quarto (1990), Il concerto del Grillo. L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvi Raffo. In “Notizie biografiche”, Milano: Mimesis 2013, p. 615.