La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Visività e teatralità nelle Novelle edite e rare di Ugo Betti, di Alfredo Luzi

 


 
Per Betti come per Pirandello esiste un problema critico relativo all'utilizzo di  scritture di codici diversi, più precisamente di canoni rappresentativi, poesia, narrativa, teatro, e della convivenza tra loro nella fase di produzione.
Lo aveva intuito Lia Fava Guzzetta nella introduzione a Novelle edite e rare sostenendo che  per quanto attiene alle novelle è necessario
 
“chiarire si si tratti di testi preparatori, “cartoni”, come si suol dire, o piuttosto di semplici spunti, se non addirittura di riprese successive o conferme tematiche; mentre infine andrà individuata la precisa specificità di altri testi sia a livello tematico, sia forse, ancor più, nella scrittura. […] L'impegno bettiano con la prosa, infatti, potrebbe avere rappresentato ed esercitato una duplice funzione: di ricerca sperimentale di nuovi moduli prosastici, per se stessi, e, al contempo, la via per una messa a fuoco tematica da utilizzare ulteriormente dallo scrittore in altra sede. In tal senso, ad esempio, risulta importante il chiarimento di tutti i problemi di datazione, di composizione, di eventuali stesure con varianti, che questa nuova edizione offre.”[1]
 
In verità, in questa raccolta il problema risulta irrisolvibile sul piano filologico perché siamo in presenza di una intertestualità continua e complessa spesso senza date e determinata anche dal fatto che le edizioni  delle novelle sono molteplici e sono state sottoposte a continue revisioni nell’arco del tempo con cambiamenti di titoli, di frasi, di finali, di iniziali narrativi. Quel che è una costante stilistica, addirittura una macrometafora ossessiva strutturale, è invece il predominio della visività, che spesso sviluppa nella scrittura un suo cammino autonomo attraverso la fase intermedia della icasticità fino alla dimensione della visionarietà. Probabilmente nella tecnica compositiva delle novelle è rintracciabile anche un certo influsso del cinema, e in particolare della tecnica del montaggio inventata da Meliès, come strumento che favorisce la sequenzialità, più che la suggestione visiva indotta dalla pratica teatrale.
Betti è consapevole dei mutamenti che il cinema determina sul piano del rapporto ricettivo tra emissione di immagini in movimento e spettatore, ma individua anche delle analogie con le finalità del narratore:
 
“Parlate dell'obiettivo, dite che la terribile strabiliante novità del cinema è questa: che ogni visione è raccolta da un occhio (l'obiettivo) […] Ma che altro fa il narratore quando, dopo aver descritto un volto, corre dietro a un ricordo, e poi si lascia attrarre dallo scintillio di un gioiello, e poi, che so io, dal mormorio d'alberi che viene dalla finestra?”[2]
 
La correlazione tra cinema e narrazione è confermata, nella struttura delle Novelle edite e rare dalla adozione della focalizzazione del particolare, dell’elemento minuto, emblematizzata dalla continua attenzione ad uno degli elementi più ricorrenti nel tratteggiare la corporeità dei personaggi, la mano.
Mariella Rossini, nella raccolta degli atti del convegno su Ugo Betti, organizzato nel 1992 da chi scrive, aveva già individuato alcuni punti di contatto tra teatro, cinema e narrazione:
 
“Lo stretto legame con il teatro fa sì che, non solo spunti e temi passino con reciproca disinvoltura dall'una all'altra produzione, ma anche che alla narrativa siano trasferite determinate soluzioni proprie del genere teatrale nella costruzione di scene e nell'animazione di personaggi.”[3]
 
precisando che
 
“Betti nelle Case, elaborando lo stile come sceneggiatura e adottando la tecnica come montaggio, sembra aver sentito profondamente il fascino della lezione cinematografica, per l'idoneità a trasmettere in maniera efficace il suo messaggio letterario.
Lo scrittore infatti sembra indagare le coscienze dei protagonisti, cogliendone i dubbi, le incertezze, le ansie, le paure, utilizzando la scrittura, appunto, come una cinecamera, che scruti i gesti e le espressioni”[4].
 
Ne consegue che il guardare in Betti equivale ad esplicitare una posizione gnoseologica, una sorta di fenomenologia etico-spirituale. Solo guardando l’uomo può arrivare a sciogliere  il nodo dell’esistenza, il nocciolo tra il bene e il male, tra il mistero e la coscienza. La conferma a contrario è rintracciabile nella novella I poveri dove il ricordo della morte del figlio del brigadiere Mateica è connesso al sopraggiungere della cecità, del non vedere: “Oh Dio mio, papà non ti vedo più, capisci? non ti vedo più. Ma dunque è proprio vero, muoio, papà, muoio ora!”[5]
Molte novelle hanno come nucleo dinamico narrativo lo sguardo, il guardare, in particolare Furto di biancheria, La casa solitaria, Afa.
Uno dei testi più significativi in questa prospettiva è Incidente all'udienza che, fra l'altro, ha una forte impronta di esperienza vissuta, tenuto conto della biografia professionale del giudice Betti. La novella si sviluppa lungo una serie di microeventi dinamizzati da una sorta di fitta semiotica dello sguardo:
 
“L'omone, indignato, scarlatto, faceva dei sorrisi di compatimento, poi guardava il giudice, con l'evidente speranza che venisse in suo soccorso.
Il giudice rialzava ora lo sguardo dall'incartamento […] La osservò […] Il giudice guardò ancora il fascicolo, vide che la ragazza, quando lui aveva lasciato il paese giovanotto, doveva essere appena nata, in fasce. […] Rivide le mura degli orti […] S'accorse che lo guardavano […] La donna lo guardò un momento […] Il segretario, sbirciandolo coi suoi occhi molto vicini, da topo, chiese se il signor giudice avesse bisogno di qualche cosa.[…] Guardando sul banco la sua mano […] Voltò il viso con un sorriso pallido […] Guardò la finestra buia, fissò ancora il giudice […] Lui respirando a fatica, la guardava […] Vedeva gli occhi dilatati della ragazza […] Perché gli occhi del giudice la guardavano così? […] lui aveva socchiuso gli occhi.”[6]
 
La sequenza visiva è corroborata da un insistente uso del cromatismo (“ chiari, rossore, scarlatto, bianca, livido, pallido, buia, azzurre, rosse, verde, oscure”) e predispone, attraverso la dimensione memoriale, alla visività interna, alla visionarietà.
 
“ Gli ritornò d'un tratto, con un tuffo dentro, il suo gesto d'allora […] Gli pareva di vederla, ora, sua moglie, a casa: […] Immaginava […]  Gli erano tornate in mente quelle straducce […] Si figurò, illuminata da larghe vetrate un po' azzurre, una casa”.[7]
 
La stessa tecnica viene utilizzata per la descrizione fisica del personaggio. Lo scrittore ha la necessità, come peraltro avviene in molti autori della letteratura europea della prima metà del Novecento, a partire da Baudelaire e fino allo Svevo di Una vita, e di Senilità , di tratteggiare somaticamente la figura, partendo da premesse visive che preludono alla definizione del carattere psicologico:
 
“La osservò. Una certa grazia le ingentiliva le gote molto incipriate e forse in via di sfiorire, la bocca che aveva un'espressione imbronciata, un po' fanciullesca, quando era chiusa; e invece, quando si apriva impetuosamente a gridare, tremava leggermente. Allora la gola bianca, un po' esile, si inturgidiva, e gli occhi di colpo si inumidivano, come se ella ricordasse a un tratto chi sa quali ingiustizie; ma subito faceva un sorriso di noncuranza”.[8]
 
Con la stessa procedura è presentata Ines di Furto di biancheria:
 

“Era una ragazza tanto di sentimento, la Ines. Era un po' grassa, bionda, gli occhi grossi, dolci e come un tantino annebbiati”.[9]

 
o Adelina in La casa solitaria:
 
“Pare che questa Adelina fosse di carattere ombroso, di alta statura e, secondo alcuni, benché di tipo rustico e selvatico, bella, specie gli occhi.
Di essi si parla  in una lettera: larghi, un po' infossati e scuri, e tuttavia con qualche cosa di dorato, come in certe bestie, melanconici. Anche i capelli, che ella pettinava spesso e a lungo, erano nerissimi, forti, pregni d'un aroma penetrante”.[10]
 
Una tecnica di scrittura che trova il suo riferimento nel modello iconico della Nedda verghiana:
 
“Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell'attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l'isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino”.[11]
 
La caratterizzazione visiva adottata come supporto alla complessione psicologica dei protagonisti è evidente nella struttura narrativa della novella Caino, dove la differenza somatica simbolizza l'antagonismo tra bene e male:
 
“Il contadino della pieve, Mansueto, ebbe dalla moglie due figli ai quali mise nome Paolo e Sante; ma Sante, per una cicatrice che gli solcava la fronte, veniva chiamato Caino.
[…] Paolo era bello, ridente, gradito ai forestieri, che lo accarezzavano; mentre Caino come noncurante tirava sassi alle fratte.[…]
Crebbero. Paolo si fece snello e colorito; invece Caino, benché buono per la fatica, sembrava malaticcio, la faccia color terra, il passo greve, come quando si sfanga nei solchi”.[12]
 
Qui la narrazione procede, come e forse più che in altri testi, attraverso un reticolato di sguardi, un continuo incrocio di punti di vista, che fa da sfondo motivazionale alla focalizzazione del dettaglio, quello della mano è così frequente da assumere un valore metaforico-ossessivo, (“ “le sue mani bianche”, “si guardò le sue mani”, “guardò le sue mani”, “fissava, ma di nascosto, quelle mani liscie”, “le manine d'allora”, “alzò la mano guasta”, “tutti avevano le mani come quelle di Caino” “).
L'atteggiamento per certi aspetti voyeuristico è confermato, nella novella Una giornata:
 
“Poi sazio, rosso, alza gli occhi un po' velati e impiccoliti, fermandoli sull'ascella della donna, dove la blusa ha una macchia di sudore vecchio. Quella macchia lo disturba, gli sembra quasi di vederla nuda, l'ascella; grassa, folta, con un sentore aspro”.[13]
 
con un improvviso passaggio dalla percezione visiva a quella olfattiva, o in Notte al commissariato, o in Furto di biancheria, dove la semiotica dello sguardo, dilatata dal gioco alterno tra rumore e  silenzio, sviluppa una sorta di scenografia collettiva:
 
“S'era formato nell'androne un piccolo crocchio, facce inquiete apparivano alle finestre.[…] si vide dal basso un paio di pantaloni marrone chiaro, un po' laceri.[…] Probabilmente anche il ladro, chinandosi, scorgeva sulle scale, due piani sotto, ferme le scarpe degli altri. Il portinaio si sporse cautamente. Una faccia, in alto, pure s'era sporta, lo guardava in silenzio.[…] S'era fatto un silenzio”.[14]
 
in cui irrompe la dimensione auditiva a dare una più definita caratterizzazione cronotopica. Fra l'altro il commento-didascalia di tipo extra-diegetico “S'era fatto un silenzio”, con l'uso dell'indeterminativo in funzione enigmatica, ricorre spesso nelle novelle e nelle opere teatrali di Betti, quasi a costituire una vera e propria marca stilistica, un logo della scrittura bettiana.
La metafora ossessiva della mano ritorna col il suo cumulo di tensione erotica, indotta dall'immaginario e sostenuta dal linguaggio archetipico biblico (la biscia e il peccato) e dal gioco onirico della specularità, in Lo specchio dell'altra:
 
“Talvolta sogna che dal confessionale venga fuori una mano, lunga come una biscia, che s'accosta, le sale pei ginocchi; poi spunta il confessore;che invece è la sorella, Angela, con quegli occhi tetri, bluastri, entrata anch'essa a confessarsi, ma nuda. Santa vuole avvertirla, vuole farla specchiare. Ma nello specchio, invece, s' avvede che la nuda è lei, Santa”.[15]
 
e diventa punto di sintesi prospettica in Un signore che rincasa, una novella emblematica delle strategie narrative con cui Betti, molto spesso, percorre il cammino dalla visività alla visionarietà, dal dato descrittivo verso il ritratto psicologico. E' come se la macchina da presa, partita da un campo lungo, definitore dello spazio:
 
“Ognuna delle lampade ad arco, un po' rade, faceva sotto di sé e ai due lati, sul selciato e sui muri, una zona di chiarore che si alternava con una di ombra. Lungo la strada dirittta in prospettiva, parevano tanti U, uno chiaro, l'altro scuro, ciò dava l'impressione quasi penosa di inoltrarsi in uno scenario, però fatto di muri”.[16]
 
cerchi di penetrare, attraverso un punto fisso di luce, all'interno dei pensieri del personaggio:
 
“La lampada del comò, accesa un attimo, gli diede un senso di fastidio. Mentre si spogliava, al chiarore che filtrava dalle imposte, il dottore pensava ai seni pesanti della donna, e poi, chi sa perché, a una mano, la mano di un signore in tranvai, poche ore prima, una mano posata sulla spalliera, molto pallida, anzi giallognola, con lunghi peli neri, madida, cadaverica”.[17]
 

Questo procedere dall'esterno all'interno, fino al sogno, è rintracciabile, mi limito ad alcuni esempi, anche in Incidente all'udienza, Caino, Le mani della mamma.
Per dare una maggiore ampiezza e dinamismo alla collocazione cronotopica delle sequenze, realizzando una sorta di didascalie interne alla struttura narrativa, Betti innesta frequentemente la percezione auditiva su quella visiva, così che al tema dello spazio assunto visivamente succeda e s'intrecci quello del tempo, attivato  tramite il suono. Emblematica, in questa prospettiva, la novella Una giornata che si apre con una vera e propria descrizione di una sceneggiatura teatrale:
 
“Nei quartieri ovest della città le case sono di costruzione recente, in cemento, a otto piani, con cento, anche duecento appartamenti. Dalla parte dei cortili le finestre non hanno persiane. Nei mattini bui d'inverno se ne vedono intiere colonne illuminarsi presso a poco alla stessa ora: sono le scale, oppure le cucine, situate una sotto l'altra, dove qualcuno riscalda il caffè prima di andare all'ufficio”.[18]
 
su cui irrompe l'attante sonoro:
 
“Appena fuori dalla stanza da letto, con uno scialle sulle spalle, Massimo avverte nella casa un suono lungo, triste, così monotono che bisogna star lì un momento con attenzione per distinguerlo dal silenzio”.[19]
 
Ma c'è di più. Nel procedere della narrazione per ben tre volte c'è un movimento dall'esterno verso l'interno, il sopraggiungere di una voce anonima che ripete un motivetto musicale. È la realtà collettiva e pubblica che con toni e ritmi ricorrenti sconvolge il silenzio della dimensione privata e più nascosta:
 
“Qualcuno sulla piattaforma canticchia sottovoce “Messico, giardino incantato”[…] Qualcuno fischietta “Messico, giardino incantato”[…] Anche il grammofono del terzo piano suona la stessa canzone”.[20]
 
L'iterazione sonora come traccia della diacronia è presente in Incidente all'audienza, dove “la voce del giudice, aggressiva, insistente, dominava l'aula. Era un tono acuto[21] , o,ancora, in Notte al commissariato:
 
“Alzava l'occhio ogni tanto verso una grossa farfalla rossa e pelosa, i cui strepiti improvvisi, quando si attaccava alla lampadina, lo mettevano di malumore. Si sentì finalmente lo scalpiccio del pattuglione che rientrava […] Si sentì, nel silenzio, il fremito della farfalla”.[22]
 
Lo spazio, in queste Novelle, è strutturato secondo una logica scenografica che evidenzia sul piano della scrittura le connessioni con la pratica teatrale, una ibridazione tra generi già sottolineata da Franco Musarra[23], sulla scia degli studi di Volker Klotz sul dramma moderno. In La casa solitaria lo spazio chiuso e familiare si carica di valenze psicologiche in una sorta di simbiosi tra oggetto e soggetto:
 
“La casa, quando io ragazzo vi passavo le vacanze, era già un po' mutata, più chiara, con qualche nuova finestra tagliata da mio nonno nel muro di levante. Tuttavia com'era solitari ancora, piena di silenzi, eppure vagamente risonante, e quasi impregnata da una inebriante tristezza!”[24]
 
mentre in Una giornata le azioni dei personaggi assumono una meccanicità disumana, divengono “gesti quadrangolari”[25] in una frammentazione spaziale che ricorda la tecnica cubista, confermata nel finale da un ultimo cambio di prospettiva: “Oltre il profilo nero della casa si vede come una nebbia lucente. Sono le lampade ad arco della strada”.[26]
 L'utilizzo del lemma “scena” in alcune novelle è indizio dell'influenza del laboratorio teatrale su quello narrativo. In Notte al commissariato la donna, deuteragonista,
 
“per far capire meglio si era data premurosamente a rifare la scena, lì nel mezzo, con lo scialletto di traverso, e un gesticolare  slegato, un po' ridicolo, da spauracchio, come hanno spesso le persone troppo magre e un po' esaurite”[27]
 
mentre Francesco, il protagonista di Amore,
 
“fa promessa di schiaffeggiarlo al più presto. Sceglie il posto più adatto per la scena, uno di quei caffè pieni di specchi e di persone”.[28]
 
La tecnica della camera oscura, che nel teatro sancisce la separazione visiva tra attori e astanti ma nel contempo il coinvolgimento emotivo del pubblico immerso nel buio con gli occhi rivolti alla scena illuminata, in molte novelle (Le mani della mamma, Viaggio notturno, Afa, I poveri ) si trasforma in gioco oppositivo luce/buio e determina l'ambientazione narrativa. 
In un signore che rincasa la sequenza iniziale è addirittura una vera e propria scenografia in cui lo spostamento del punto di vista dinamizza lo spazio:
 
“Ognuna delle lampade ad arco, un po' rade, faceva sotto di sé e ai due lati, sul selciato e sui muri, una zona di chiarore che si alternava con una di ombra. Lungo la strada diritta in prospettiva, parevano tanti U, uno chiaro, l'altro scuro, ciò dava l'impressione quasi penosa di inoltrarsi in uno scenario, però fatto di muri”.[29]
 
Connesso alla spazialità e alla visività è il tema dello specchio, utilizzato da Betti per innestare nella trama di alcune novelle il gioco del doppio, della proiezione identitaria/alteritaria, o dello sdoppiamento. Facendo riferimento agli studi di Lacan sull'immagine speculare e sulla funzione ortopedica dello specchio e alla importanza strutturale che le immagini, i ritratti, gli specchi rivestono in alcune opere di Pirandello, di certo note a Betti, si può interpretare su questa linea la crisi identitaria accennata in una breve sequenza di Amore: “Ma con l'imbrunire gli nasce dentro come un'angoscia. Si guarda nello specchio. Gli pare di essere un altro[30], o l'incrocio di identità tra sorelle che è al centro di Lo specchio dell'altra: “Scende a cercare una fotografia: le due sorelle insieme, con le teste appoggiate. Solleva il paralume, cercando le somiglianze; quindi l'occhio le corre allo specchio[31].
Ma anche per quanto riguarda la categoria cronologica le novelle presentano forti connessioni con la tecnica teatrale. Spesso la percezione del tempo ingrediente è garantita da una forte sequenzialità. Come sul palco, anche nelle novelle i personaggi entrano ed escono sulla scena narrativa, quasi a seguire delle didascalie predisposte.
In Notte al commissariato ad esempio (“entrò la donna”; “si aprì la porta”)[32]; o in Caino (“capitò Paolo sulla porta”)[33]; o in La cognata (“S'aprì la porta”)[34].
Ma la sinergia tra esperienza teatrale e scrittura novellistica è rivelata in tutta evidenza in un paio di testi in cui l'autore utilizza la tecnica della “mise en abîme”
Si tratta di scritti composti attorno agli anni Trenta ma rielaborati almeno per altri venti anni.
In Il grande teatro il voyeurismo bettiano, esercitato probabilmente sulla spiaggia di Senigallia, famosa fin dai primi del Novecento per la Rotonda sul mare, è come rafforzato dalla identificazione tra autore e soggetto narrante:
 
“Dorata più che abbronzata nel nitido due pezzi, la guovane signora traversa la spiaggia, formicolante, diretta al mare. Il suo passo, leggiadramente affaticato dalla cedevole sabbia, mette anche in miglior gioco tutta una linea di grazie, dalla finezza delle ginocchia alla eleganza delle reni, dalla gracilità dell'omero fino al piccolo capo, gemmato di un sorriso non rivolto ad alcuno. Il suo garbo è tale, che quasi arriva a dissimulare quella rigorosa funzionalità che un po' umilia il corpo femminile. Di tutto ciò elle è evidentemente consapevole, e dei molti sguardi che l'accompagnano verso la riga di schiuma. Anzi, è proprio per gradire a quegli sguardi ch'ella dondola un'ombra più del necessario le braccia fiorite[…] Non così la fanciulla che da un buon quarto d'ora ripete i suoi impeccabili tuffi dal più alto piano del trampolino.[…]Siamo in molti, ad ammirarla, dalla rotonda. Ma ella sembra non volersene avvedere, mai una volta che il suo viso o il suo sguardo si voltino in qua”.[35]
 
La vita balneare si metaforizza in un grande teatro appunto dove ogni personaggio recita la sua parte, rivolgendosi ad un suo pubblico. Come fa lo scrittore che scopre seppur in via interrogativa le connessioni tra esperienza vissuta e scrittura:
 
“E io? Che altro faccio io qui, guardando, e involontariamente graduando i miei aggettivi, se non preparare, come l'attore, le mie intonazioni e le mie truccature per quando, domani, dalle colonne di un giornale parlerò di tutto ciò, assai lieto se qualcuno leggendo, dirà:“però, quest'uomo, capisce abbastanza”.
Sì, presuppone un pubblico, questo che io odo, gridolino femminile di amabile orrore, rivolto apparentemente solo all'acqua troppo fredda. […] Sì, la vita è un colloquio. Ciò che facciamo è sempre per qualcun altro”.[36]
 
La novella Il commendator Antonio svolge invece una funzione esplicativa del momento teatrale, quasi una dichiarazione di poetica in cui s'avverte la suggestione teorica del Pirandello di Sei personaggi in cerca d'autore. Anche qui la forma diventa vita, il reticolato di parole che definisce un personaggio muta in corporeità, grazie alla rappresentazione teatrale e alla interpretazione dell'attore:
 
“Col personaggio di cui voglio parlarvi, io ho già trascorso assai più di un giorno della mia vita, e ciò anche prima di quella sera in cui me lo vidi davanti sul palcoscenico di un teatro a Milano. Vi si recitava il Vento notturno: e lui mi guardò e mi parlò con gli occhi e la voce dell'attore Randone […].[37]
 
Betti ripropone l'idea pirandelliana dello scrittore il cui immaginario viene visitato dai propri personaggi che chiedono di trasformarsi da ipotesi narrative in atto attraverso la scrittura e/o la messa in scena, mentre all'autore resta l'assunzione di responsabilità individuale e culturale.
L'enigma che accomuna la novella e il testo teatrale di Vento notturno si scioglie nella dichiarazione dell' auctor:
 
“Nessuno avrebbe sospettato nel commendatore Antonio Quinzi tanto disperato ardore. È un ardore che certe volte, sentendolo, turba un po' anche me. Mi fa provare una sensazione leggermente angosciosa simile a quella di chi, costruito un fantoccio, lo veda d'un tratto muoversi per suo conto, diventar libero e quasi minaccioso. Perché Il vento notturno l'ho scritto io e il mio commendatore Antonio me lo sono inventato io”.[38]
 
In sintesi, pur nel predominio della visività e della teatralità, la scrittura delle Novelle edite e rare si presenta, sul piano strutturale, come processo,  sviluppo e concatenazione di eventi e si configura come  cammino attraverso il dubbio verso la conoscenza, un procedere dalla constatazione del reale alla sua interpretazione, dall’esterno all’interno, verso la scoperta prima di se stessi prima e poi dell'altro, fino a tendere verso il totalmente altro, il divino.
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Como citar: LUZI, Alfredo. "Visività e teatralità nelle Novelle edite e rare di Ugo Betti"v. 2, n. 9, set. 2021.  Disponível em:https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/227688


[1] Lia Fava Guzzetta, Introduzione, in Ugo Betti, Novelle edite e rare, a cura di Alfredo Luzi, Fossombrone, Metauro, 2001, p. 15, passim
[2] ivi, p.21
[3] Mariella Rossini, Tecnica espressiva nella raccolta Le case, in Alfredo Luzi (a cura di ), Ugo Betti letterato e drammaturgo. Atti del Convegno (Macerata-Camerino, 5-7 giugno 1992), Camerino, Università degli Studi, 1996, p.167
[4] ivi, p. 170
[5] Ugo Betti, op.cit., pp. 335-336
[6] ivi,  pp.445-449, passim
[7] ivi, 446-448, passim
[8] ivi, p.446
[9] ivi, p.404
[10] ivi, p.367
[11] Giovanni Verga, Nedda, in Tutte le novelle, vol.I, Milano, Mondadori, 19706, p.40
[12] Ugo Betti, op.cit., p.145
[13] ivi,  p. 254
[14] ivi, p.401, passim
[15] ivi, p.170
[16] ivi,  p.275
[17] ivi, p.276
[18] ivi, p.251
[19] Ivi
[20] ivi, pp.251-253, passim
[21] ivi, p.445
[22] ivi, pp.441-442, passim
[23] Cfr.Franco Musarra, Impegno e astrazione nell' opera di Ugo Betti,L'Aquila, Iapadre, 1974,pp. 127-136
[24] Ugo Betti, op.cit., p. 365
[25] ivi, p.252
[26] ivi, p.254
[27] ivi, p. 442
[28] ivi, p.112
[29] ivi, p. 275
[30] ivi, p.113
[31] ivi, p.169
[32] ivi, pp.441-443, passim
[33] ivi, p.146
[34] ivi, p.461
[35] ivi, p.557
[36] ivi, pp.557-559, passim
[37] ivi, p.567
[38] ivi, p.570