La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

L’evento, il nome. Il nome, l’avvento. L’Arminuta, un romanzo di Donatella Di Pietrantonio, por Diego Cervelin

 

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Basta leggere i primi capitoli del romanzo L’Arminuta[1], di Donatella Di Pietrantonio, per accorgersi che gran parte degli incontri e degli altri inaspettati scontri che costituiscono il testo non disegnano mai una linea dritta o unidirezionale, benché l’arco narrativo si svolga nel breve periodo di circa un anno, tra l’estate del 1975 e l’autunno del 1976, in Abruzzo, tra il mare e la montagna. A dire la verità, l’intero romanzo si costruisce sotto il segno del ritorno. Dal titolo fino all’ultimo capitolo, senza dimenticare nemmeno l’epigrafe morantiana tratta, con cura ed esattezza, da Menzogna e sortilegio: “Ancora oggi, in certo modo, io sono rimasta ferma a quella fanciullesca estate: intorno a cui la mia anima ha continuato a girare e a battere senza tregua, come un insetto intorno a una lampada accecante”.

L’Arminuta – ovvero “la ritornata”, in abruzzese[2] – torna nella casa da dove non sapeva nemmeno di essere stata allontanata da piccolina. Le ragioni di questo ritorno restano misteriose durante quasi tutto il percorso narrativo, e la ragazzina di tredici anni, trovandosi in una situazione talmente imprevista, almeno nelle prime pagine del libro, appare ai lettori come una specie di bambola qualsiasi con la quale a un certo punto si smette di giocare, restando dunque abbandonata tra gli scarti lasciati nella soffitta. Forse l’immagine è un po’ esagerata ma comunque ci sono poche parole per descrivere o per disegnare con un po’ più di chiarezza l’evento che colpisce la ragazzina. L’Arminuta subito si percepisce sola davanti ad una famiglia completamente nuova, la cui esistenza ignorava totalmente. Al contempo, del nucleo familiare anteriore, oltre alle domande non risposte e ai ricordi felici sempre più indefiniti, restano una valigia scomoda, una borsa piena di scarpe confuse e un barattolo di gelato alla vaniglia – l’ultimo regalo, dolce ma freddissimo, donato da colui che dopo quel giorno non potrà essere nominato altro che “lo zio”. Poco si sa della prima madre, Adalgisa, e rispetto a questo argomento noi e l’Arminuta ci troviamo alla pari. Infatti si fa fatica a capire se questa donna sia morta o soltanto malata. Infine, bisognerà aspettare il passaggio di qualche mese per percepire che ci sono in ballo altre alternative. Queste coordinate sono dunque i primi abbozzi del punto di rottura iscrittosi nella storia dell’Arminuta, la fanciulla che ha fatto fronte alla necessità di ritrovare, anzi di rifarsi uno spazio per sé nel mondo tra le macerie di un prima che non c’è più e i frammenti di un dopo che ancora resta sospeso.
Tuttavia è certo che, mentre passiamo da un capitolo all’altro del libro, noi lettori ci trasformiamo in testimoni di un doppio lavoro di decostruzione e di costruzione. L’Arminuta oscilla e a volte letteralmente svanisce tra le speculazioni e i rispecchiamenti. In altri termini, si potrebbe quasi dire che la ragazza si ritrova sempre di fronte ai sensi che sfuggono, che si fanno più o meno oscuri richiedendo un atteggiamento di continuo di ricominciare “da capo”, cioè di un ritorno che, del resto, non sarebbe segnato meno dalla differenza. Attenzione però: Donatella Di Pietrantonio non è un’esaltatrice del nonsense. Anzi non avrei dubbi nell’affermare che la scrittrice elabora la sua letteratura partendo dal di fuori del senso, che è cosa ben diversa dal nonsense. È così che lei ci permette di leggere qualche traccia di ciò che non può che rimanere tra le parole, come suono ammutolito nella vibrazione stessa dell’aria che all’improvviso si trasforma in voce.
Le varie manifestazioni del ritorno (cioè, morantianamente: la massima o la minima prossimità alla lampada accecante) formulano un ritmo quasi ciclico nel passaggio da un capitolo all’altro. Ma qua bisognerebbe avere un po’ più di attenzione. Questi cicli, diciamo così (almeno per ora), sono tutt’altro che monotoni. Anzi, le ripetizioni degli odori o degli scenari, per esempio, della casa in provincia, ma anche le evocazioni dei sapori o delle immagini della casa lasciata nella zona costiera dell’Abruzzo – che spesso fioriscono nei momenti decisivi – si presentano come portatrici di qualcosa in più dell’essenza del medesimo, cioè quel nucleo incolmabile che, nella sua quasi immutabilità, sembrerebbe garantire ai soggetti le diverse sfumature di ciò che bene o male rimane loro familiare. Infatti, nel romanzo di Donatella Di Pietrantonio, queste sensazioni così forti non si potrebbero confondere esattamente con quei leitmotiv delle opere wagneriane e nemmeno con la madeleine proustiana, anche se tutti essi si dimostrino paragonabili nella loro capacità sinestetica. Essi emergono infatti nella eventuale confusione tra il battito di un qualsiasi tamburo zigano e la corsa sfrenata dei cuori adolescenti, tra il rumorio delle parole pronunciate in mezzo alla folla e i vari singhiozzi degli sconvolti. Si potrebbe affermare allora che le ripetizioni degli odori o degli scenari e le evocazioni dei sapori o delle immagini della memoria funzionano nel romanzo come la punteggiatura degli effetti che coinvolgeranno irresistibilmente i corpi dei personaggi, segnalando sulla loro pelle le tracce di successive metamorfosi.
Leggere L’Arminuta, in un certo senso, significa rendersi disponibili alla possibilità di sorprendersi, che arriva insieme ai piccoli dettagli, quelli che, in una lettura troppo frettolosa, rischierebbero di restare trascurati o dimenticati al livello più basilare della costruzione testuale. Ma le cose possono trapassare la semplice osservazione (quasi burocratica, potremmo aggiungere) degli avvenimenti spesso sconcertanti vissuti dall’Arminuta e dalla sua famiglia – dalle sue famiglie, per esprimere più precisamente la varietà dell’ordito testuale. Infatti si dà il caso che Donatella Di Pietrantonio sembra approfittare di un rapporto del tutto speciale con i piccoli dettagli, con quei secondi infinitesimali in cui le storie ci travolgono e spesso si frantumano in mille pezzi. Sì, perché certamente non sono pochi i momenti del romanzo in cui essi vengono staccati dalla linearità quotidiana per riaprirsi in una molteplicità di punti oscuri trasformatisi in vere e proprie macchine scritturali. Così, pian piano, la rotazione dei ritorni spesso si mostra visceralmente legata a quello che altrimenti potrebbe rimanere sommerso nella trascurabilità e nella dimenticanza. O invece sarebbe il caso di chiederci se la scrittrice nel suo mestiere è così abile al punto da raccogliere la meraviglia e l’orrore di quello che, nella stranezza dell’altro, parrebbe meglio essere trascurato e dimenticato?
L’uso delle polarità non dovrebbe far credere all’impressione di una scrittura barocca. L’Arminuta ci presenta anzi il pieno esercizio di una tecnica costruttiva minimalista, ma non meno straziante. Ed ecco secondo me la sua grande bellezza e fortuna. Se facessimo un piccolo esercizio di biobibliografia fantastica non sarebbe del tutto fuorviante considerare che Donatella Di Pietrantonio – odontoiatra di formazione e professione – abbia frequentato anche le lezioni di Lucio Fontana, cogliendo proprio la gestualità potente dei suoi tagli e buchi. Ma mi arrischierei a considerare che, mentre si dedicava ai tagli e ai buchi, lei abbia addirittura sbirciato esemplari della tradizione pittorica orientale e le pagine del trattato di Goethe sulla Metamorfosi delle piante. Così il minimalismo del suo testo forse ci permetterebbe di ritrovare il punto originario da dove sarebbero partiti sia quella massima esplorazione degli elementi significanti, caratteristica della pittura cinese, sia quella massima contrazione della potenza creatrice la quale, secondo l’autore settecentesco, insisterebbe sui semi.
Ma basta. Troppi giri di parole per dire semplicemente che, senza staccarsi dal segno del ritorno, L’Arminuta materializza ed esplora alcune delle innumerevoli maniere attraverso le quali la crescita si fa praticamente sinonimo di rotture che di volta in volta si mischiano – spaccature rispetto sia ai termini sia alle immagini di un passato voluto e sognato senza macchie, senza nessuna ambiguità. Certo, e la prima spaccatura la si percepisce sin dal titolo, L’Arminuta, così strano ai lettori abituati all’apparente universalità dello standard. Sarebbe uno sbaglio – o comunque una riduzione – sostenere che il romanzo di Donatella Di Pietrantonio sia un rappresentante della letteratura chiamata regionale dagli esperti. Evidentemente ci sono degli elementi che potrebbero addirittura far immaginare l’esatto contrario. A cominciare dal confronto tra l’effusività borghese dalla cultura cittadina e tutto quel complesso sociale ed anche esistenziale che, nella pienezza degli anni Settanta, ancora faceva risuonare nelle case di campagna il ritmo di un tempo arcaico. Però occorrebbe non trascurare il fatto che, tra le mille folgorazioni o sfumature della modernità e dell’arcaismo, della ricchezza e della povertà, gli scontri tra il dialettale e lo standard svolgono un ruolo secondario – ma, si badi, non meno importante – nello scenario della drastica metamorfosi vissuta dal personaggio principale, l’Arminuta. Questa esperienza la si vive, al contempo, nel più profondo e nel più superficiale piano sia della lingua che del corpo.
Arminuta è il participio passato del verbo arminì, che significa semplicemente “tornare”. Ma potreste chiedermi se per caso esiste un qualsiasi ritorno che sia semplice. Forse la risposta non potrebbe che essere negativa. Gli incontri e gli altri inaspettati scontri, le ripetizioni degli odori o degli scenari, ma allo stesso tempo le evocazioni dei sapori o delle immagini della memoria fungono da campi di forza che creano, insieme alla presenza di Adriana e Vincenzo[3], il tessuto vitale attraverso il quale la fanciulla “ritornata” ha bisogno di confrontarsi con le sue due madri, Adalgisa e quella che nella prima riga del testo viene presentata soltanto come “l’altra mia madre”[4]. La metamorfosi dell’Arminuta non si confonde intanto con nessuna accettazione spensierata né dell’una né dell’altra. Ma la si percepisce appunto nella trasformazione di ciò che durante quasi l’intero percorso narrativo manifesta solo la predicazione di uno stato di abbandono vergognoso e non meno spaesante. Trovandosi quindi nella condizione di superstite inizialmente inconsapevole dell’impossibilità sia del ripristino delle significazioni precedenti sia del ritorno al punto di partenza senza la propria differenza, ci sarebbe bisogno, per così dire, che la bimba arminuta anch’essa si “arminizzi” in qualche misura. Che prenda per mano la stessa stranezza, la faccia nome proprio nell’avvento di un soggetto, l’Arminuta, per così affrontare i tagli e i buchi dell’amore e della propria sessualità, ma anche delle sue madri, due donne.

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Como citar: CERVELIN, Diego. "L’evento, il nome. Il nome, l’avvento.  L’Arminuta, un romanzo di Donatella Di Pietrantonio". In "Revista de literatura Italiana", v. 2, n. 11, nov. 2021.  Disponível em:  https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/230042

 



[1] PIETRANTONIO, Donatella Di. L’Arminuta. Torino: Einaudi, 2017.
[2] Non soltanto in Italia, ma anche nel vocabolario quotidiano di tanti immigrati italiani, le varietà linguistiche italo-romanze, come il napoletano, il veneto, e anche l’abruzzese, sono spesso chiamate “dialetti”. Però non è esattamente nuova la comprensione secondo cui le dette varietà abbiano grammatiche e tradizioni scritte (più o meno diffuse), costituendosi così come vere e proprie lingue. Il dibattito tra gli studiosi comunque rimane aperto e costituisce una pagina importante – e non meno variegata – della cultura italiana post-unitaria, con un campo di forze certamente complesso, di molte sfumature. Si vedano per esempio, Zanzotto Andrea, “Una esperienza in comune nel dialetto”, Scritti sulla letteratura. Vol. II – Aure e disincanti del Novecento letterario, edizione a cura di Gian Mario Villalta. Milano: Mondadori, 2001, pp. 424-428; D’Alessandro Roberta. Il progetto Microcontact: l’eredità linguistica dei dialetti italiani, «Lingua Italiana», 28 febbraio 2018, <https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/Microcontact/D_Alessandro.html>. D’altra parte è importante sottolineare che, come succede con le altre lingue, le varietà linguistiche italo-romanze spesso presentano innumerevoli variazioni grammaticali e sintatiche interne. In questo senso si potrebbe anche precisare che il termine “arminuta” riguarda una variante della zona del teramano, dove si trova Arsita, città natale di Donatella Di Pietrantonio. Sulla riva adriatica – a Pescara, per esempio – il termine sarebbe detto “arvinuta”, con la “v” invece della “m”.
[3] Sorella e fratello che si trasformano in custodi dell’Arminuta nel suo ritorno al mondo e alla vita.
[4] PIETRANTONIO, Donatella Di. L’Arminuta. Torino: Einaudi, 2017, p. 03.

L'Arminuta, foi publicado no Brasil, com tradução de Mario Bresighelo, em 2019 pela TAG, com o título A retornada, e no mesmo ano pela Faro Editorial com o título A devolvida.[nota do Editor]