La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Segni residuali in Gianni Celati: ricordo di un grande narratore, di Patricia Peterle

 


 
I segni, i residui colti possono avere la potenzialità di “barbagli di immagini”, per riprendere l’espressione usata da Gianni Celati, da cui scaturiscono pensieri, storie, ricordi. Questi sono appunto dei momenti unici, delle aperture, degli scarti vitali, che sospendono nella frenesia quotidiana il meccanicistico modo di vedere e rapportarsi con l’esterno, cioè con quello che è davanti a noi e a cui, al contempo, apparteniamo. Il laboratorio artistico di Gianni Celati ha la tendenza a mettere in atto proprio questo processo del vedere, il quale richiede sempre una distanza, fisica e non (“Basta pensare a quante cose non avrebbero senso se dovessimo abolire le nostre proiezioni immaginative e ridurre tutto a conoscenza positiva”[1]). Se da un lato, infatti, un paesaggio o un oggetto qualsiasi più si avvicina ai nostri occhi e meno visibile diventa, perdendo l’originaria nitidezza di dettagli e diventando una massa o, per meglio dire, una macchia – a volte amorfa – solo con qualche tono di colore, dall’altro, invece, lo stesso paesaggio o oggetto, quando viene allontanato, offre ulteriori capacità immaginative e compositive che vengono messe in scena proprio a causa della distanza. Difatti, quando qualcosa ci tocca, in un attimo tante operazioni s’incrociano, come per esempio quelle dell’affettività, della reminiscenza, dell’oblio e del fantasticare.
La distanza, come ha affermato lo stesso Celati in un incontro presso l’Università di Trieste nel 2005, fa sì che anche il processo del vedere venga alla luce; non interessa solo il vedere qualcosa, ma, anzitutto, il fatto che si veda il vedere, che si guardi il guardare e infine che si percepisca l’atto di percepire: “l’esposizione all’inatteso, al fuori, a una situazione contingente che diventa una dimensione esterna dell’inconscio”[2]. O ancora, “non il “come si vede”, ma “come qualcosa si presenta alla percezione”“[3]. Con queste parole, egli mette in risalto non il risultato di ciò che si vede o è stato visto, ma addirittura il processo in atto. Nel farsi vedere, c’è la possibilità di uno sfavillamento indefinibile e indicibile, che ci può aprire altri e nuovi sentieri ancora non percorsi. I segni raccolti dall’occhio sono inenarrabili, è possibile solo “accennare al fatto che esistono e fan parte della nostra immanenza”[4]. Il termine “esplorazione” è una parola-chiave del laboratorio di questo narratore-viandante, il quale nasce dall’esperienza, del qui e ora; esplorazione come tentativo di capire le sensazioni. L’esperienza è dunque al centro della sua scrittura, essa è sempre già una cosa altra, perché l’esperienza in sé, quando l’evento cessa, non c’è più: ciò che resta sono i residui che essa lascia come segno del c’è stato. Tutto ciò che ha a che fare con le percezioni o le reminiscenze è ormai sulla soglia di una terza via: “La visione d’un luogo sorge certamente non come un discorso con risposte pronte, ma come un pensare-immaginare su come è fatto il mondo”[5]. In tal senso c’è da considerare perfino un altro aspetto, accennato da Celati: che non esistono luoghi o cose che vediamo con occhi vergini o neutri, seppur appaia nuovo quel momento, portiamo dentro di noi delle aspettative, delle cose che abbiamo letto, sentito dire e immaginato. Un’esperienza, questa, che è a sua volta una esperienza altra dalla storia, che implica una nuova concezione di tempo (cairologica) e, di conseguenza, un diverso rapportarsi anche con il linguaggio (altra preoccupazione importante nella traiettoria di questo scrittore).
 Lo scrivere si presenta a Celati, così come il fotografare al suo amico e compagno di viaggio Luigi Ghirri, un’esplorazione del quotidiano, e cioè un’attenzione particolare verso il “guardare”, un modo di dare aria al pensiero, poiché “essere al mondo vuol dire compiere proiezioni immaginative e creare campi affettivi in tutto quello che ci circonda”[6]. Uno scavare dunque il mondo esterno che si presenta davanti ai nostri occhi senza alfabeti determinati a priori: in verità il loro, sia quello dello scrittore che del fotografo, è un gesto di scavare un alfabeto (forse anche mutevole e plastico) che già esiste ma è quasi sempre coperto e fatto illeggibile dalla fretta e dal camminare meccanico della contemporaneità. Un alfabeto rovinoso e residuale, fatto da concrezioni delle azioni umane e di quelle della natura, i cui simboli non costituiscono di per sé un significato, ma offrono delle aperture e fanno vibrare le attività immaginative. Come afferma Marco Belpoliti, la figura di Celati va oltre quella dello scrittore (e non solo perché, in effetti, ha fatto dell’altro), egli sarebbe un esploratore a tutti gli effetti. Inoltre, i suoi interessi e la sua ricerca punterebbero verso un fuori, un fuori da noi, verso l’osservazione del mondo, come si evince dai vari racconti e cronache relativi al viaggio.
 
Quello di Celati è senz’altro uno sguardo antropologico (“la varietà del mondo”), come si annunciava fin dal progetto della rivista Alì Babà, pensato insieme a Italo Calvino, Carlo Ginzburg, Ezio Melandri e Guido Neri.[7] I primissimi anni ’70 sono di grande scambio e idee tra di loro, c’è un’effervescenza iniziale, tuttavia il progetto non verrà mai portato avanti. Uno dei testi programmatici della rivista è appunto “Il bazar archeologico” di Celati, pubblicato prima sul Verri, il 12 dicembre 1975, e poi nella raccolta Finzioni occidentali (1986). L’altro testo base del progetto è “Lo sguardo dell’archeologo” di Calvino, uscito in volume su Una pietra sopra (1980). Nella nota che precede il suo saggio, Celati indica con precisione alcuni punti del suo laboratorio poetico, del suo sguardo e, di conseguenza, del suo rapportarsi con il mondo:
 
Questo articolo nasce da un progetto di rivista elaborato tra il 1970 e il 1972 da me, Calvino, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e Guido Neri. Il progetto si riferiva ad una serie di temi collegati attorno al nucleo delle tracce, dei residui, dei frammenti di ordini invisibili a cui si accede per una via che non ha niente a che fare con i criteri dell’evidenza, né con la conoscenza sistematica dell’oggetto di studio. Ed è la regione dell’archeologia, o del risvolto della storia, dove molte discipline [. . .] ci sembrava trovassero un terreno comune.[8]
 
Lo sguardo di Celati va verso la porosità delle cose, cioè una tessitura non liscia, composta anche da variazioni; una composizione che si produce anche da un processo di decomposizione. L’attenzione di questo scrittore, interessato ai dettagli delle cose, ricade – e non potrebbe essere altrimenti – sui frammenti, sulle vestigia, sui residui appunto. In questo gesto del vedere è impossibile avere a priori una aspettativa chiara di ciò che si può trovare: si delinea invece un esercizio il cui percorso può essere dato solo dal suo essere messo in scena. È qualcosa, dunque, che si produce all’interno dell’atto stesso. Infatti, nel brano succitato, l’”evidenza” viene scartata così come la “conoscenza sistematica”, la quale non permette la selezione di un pezzo che non abbia la “giusta forma”, lasciando nell’oblio tanti altri pezzi, magari anche più importanti. Il gesto di Celati si rivela in questo modo una vera potenza: è un collezionatore alla Benjamin, che nel preferire la porosità al liscio, le vestigia alle evidenze immediate, disattiva e rende inoperoso un modo di procedere, aprendolo così a un nuovo e possibile uso: “Contrariamente a un equivoco diffuso, la maestria non è perfezione formale, ma, proprio al contrario, conservazione della potenza nell’atto, salvazione dell’imperfezione nella forma perfetta”.[9]
Il brano già citato, tratto da “Dagli Aeroporti”, racconto presente nel volume Narratori delle pianure (1985)[10] e scritto anni dopo “Il bazar archeologico”, reca indirizzi non dissimili, di immagini che possono aprirsi ad altre immagini – qui, ancora una volta, si evidenzia uno scarto dall’evidenza; e, soprattutto, un termine che appare più volte in questo volume, “apparenza”, due anni dopo occuperà un posto di assoluto rilievo, cioè quello del titolo, Quattro novelle sulle apparenze, che ancora una volta sottolinea e problematizza il ‘vedere’ e il rapportarsi con l’esterno. 

In un passaggio di “Dagli Aeroporti”, racconto presente nel volume Narratori delle pianure (1985), il personaggio (il cui nome non viene mai fornito, come in altri brani del libro) parla con le piastrelle della cucina: “Diceva a quelle piastrelle: “Io non sono il vostro padrone, anche se sono i miei occhi che vi guardano. Ed è inutile che vi presentiate scodinzolando ogni mattina come oggetti familiari, perché le nostre strade sono ben diverse”“[11]. O ancora, in “Storia di un apprendistato”, la voce narrante si interroga e afferma: “cos’è la vita: una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa di inconsistente”[12]. È quindi all’interno di questa trama che la scrittura di Celati opera,  non potendo evitare di imbattersi nelle problematiche sul linguaggio e sulla parola che hanno segnato tutto il Novecento letterario e filosofico[13]; anzi, si potrebbe dire che il gesto di osservare il mondo e i suoi dettagli più minuti mette in gioco il conflitto del linguaggio con la sua capacità di esprimere ciò che si vede e si percepisce (le sensazioni). Anche per questo il testo di Celati può sembrare una forma informe o, se si vuole, un residuo rovinoso. Non è un caso allora che alcuni dei suoi riferimenti facciano capo a Calvino (anche se, forse, alle volte troppo cartesiano), Manganelli, Wittgenstein, Vico, Leopardi, Heidegger.
Il personaggio del racconto già citato, “Dagli aeroporti”, occupa un ruolo di rilievo nel presente discorso, dato che si tratta di uno ‘scienziato’ che “faceva quadrar tutto alla fine grazie alla precisione dei termini usati”[14]. Dopo tanti anni vissuti in nord America, questo protagonista decide di tornare al continente d’origine, ma alla fine il posto in cui si sente a suo agio sarà l’aeroporto. Un non-luogo, per ricordare Marc Augé, soprattutto per uno che ormai si ritrova senza più una lingua propria.
Così inizia il breve racconto:
 
Da molto tempo ormai non aveva una lingua propria con cui parlare e scrivere. Un lavoro svolto unicamente con parole tecniche d’una lingua straniera, in un continente dove non era mai riuscito a capir bene cosa gli altri dicessero, aveva creato il paesaggio definitivo del suo volto e la musica lenta della sua voce. Poiché era rimasto al mondo più a lungo d’una persona che aveva condiviso i suoi viaggi e la sua vita, un giorno s’era deciso a tornare nel proprio continente d’origine, trovandosi a suo agio soprattutto negli aeroporti, dove finalmente gli pareva d’essere in compagnia di altri con le sue stesse mete.[15]
 
 Gli spostamenti e le esperienze da lui vissute nel rientro a casa mettono in moto tutto un processo di estraniamento, anzi spaesamento, che avviene parallelamente ad alcuni cambiamenti relativi alle percezioni del mondo esterno. Infatti, è a partire dal sentirsi estraneo – defamiliarizzato – che egli, che dichiara di non aver una “lingua propria”, comincia a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Rientrato nel suo paese di origine, e una volta perso l’olfatto, inizia a pensare agli odori, ai profumi, ad immaginarseli; si rende così conto che quelli che gli si presentano, a prima vista, come dei limiti, diventano un percorso altro e possibile, una “strada, tracciata soltanto dalle sue infinite incapacità di fare altre cose”.[16] Anche gli altri sensi gli vengono meno, e quando è già un po’ sordo, “il sistema dei nomi dati alle cose gli appariva una grande farneticazione astratta”[17], cioè un’assurdità, qualcosa di sconclusionato.
 
Tutti i nomi dati dagli uomini alle cose, ai luoghi, alle erbe, ai modi di vivere e di sentire, tutto ciò che per lui rappresentava la Triste Storia, era nient’altro che una piccolissima incostanza; e ridicoli i piccoli falsari come lui, falsari scientifici moderni, che cercavano una piccola costanza fantastica attraverso l’astrazione dei nomi dati alle cose: i nomi nuovi, i nomi tecnici, i nomi dei luoghi che tutti citano come se fossero qualcosa di preciso, gli aggettivi, gli avverbi. Solo i verbi gli sembravano abbastanza rigorosi, anche pensando alle stelle.[18]
 

Ora, nella sua sordità, il personaggio preferisce affidarsi agli accenti, alle intonazioni, insomma alle inflessioni di un’oralità, cioè al puro sentito dire, a un canto mutevole di situazioni. Non c’è più una lingua che permetta di leggere la realtà: il mondo che si è aperto e che offre tante altre aperture e pieghe è possibile solo nel momento in cui egli ha perso la sua lingua e si consegna al canto della pluralità, dei bisbigli, dei rumori, cioè all’infinito vociare. Il girovagare per negozi e bar di questo personaggio, esposto ai vari lacerti di lingua, è un’esperienza coltivata anche dallo stesso Celati (Narratori delle pianure e Verso la foce sono nati così)[19], fatta prima con alcuni fotografi, tra cui Ghirri, e poi da solo. Come confida nell’intervista rilasciata a Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, era solito rintanarsi nei bar, mettersi all’ascolto – gesto che richiede disposizione[20] – e prendere appunti.[21] Quel che emerge sono dunque brandelli di vita, rovine di esperienze passate e dell’immaginario collettivo, che affiorano nel e dal “sentito dire”; residui di percorsi, un riferire continuo di storie, scelte che ci interrogano e ci permettono di immaginare e fantasticare, perché, come ci dice infine Celati, “essere al mondo vuol dire essere con gli altri dall’inizio alla fine”.[22]

________________________

Como citar: PETERLE, Patricia. "Segni residuali in Gianni Celati: ricordo di un grande narratore". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 1, jan-abr, 2022.  Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/230591



[1] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 105.
[2] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 52: «Il rituale dello scrivere prevede questo effetto, come una messa a distanza delle percezioni, per sottrarle alla casualità e portarle vero la trasparenza dell’intelligibile. Solo in questi termini riesco a scrivere, e sopporto poco chi prende lo scrivere come un riflesso della sua esperienza personale o della cosiddetta realtà nuda e cruda, senza vedere il processo rituale a cui le parole debbono essere sottoposte (metrica, ritmo, colore tonale, distanza focale)».
[3] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 82.
[4] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 69.
[5] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 64.
[6] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 105.
[7] BARENGHI, Mario; BELPOLITI, Marco (a cura di). Alì Babà. Progetto di una rivista 1968–1972. Riga 14, Milano: Marcos y Marcos, 1998.
[8] CELATI, Gianni. ‘Nota a “Il bazar archeologico”’, in Finzioni occidentali: fabulazione, comicità e scrittura. Torino: Einaudi, 1980, pp. 225–27.
[9] AGAMBEN, Giorgio. Il fuoco e il racconto. Roma: nottetempo, 2015, p. 47.
[10] I. Calvino nel 1984, così parlava di questo volume: «Dopo vari anni di silenzio, Celati ritorna ora con un libro che ha al suo centro la rappresentazione del mondo visibile, e più ancora una accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione», in CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 1751.
[11] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 791.
[12] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 762.
[13] Si ricorda che negli anni Ottanta Celati si dedica allo studio di testi di Wittgenstein.
[14] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 789.
[15] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 789.
[16] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 792.
[17] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, p. 793.
[18] CELATI, Gianni. Romanzi, cronache e racconti. A cura di Marco Belpoliti e Nunziata Palmieri. Milano: Mondadori, Meridiano, 2016, pp. 792-793.
[19] Non si può non ricordare del film Strada provinciale delle anime (1991), fatto dopo un invito di Rai3. Un viaggio intimo, luoghi, amici e parenti, fino alle foci del Po. Un documentario-diario, pieno di memoria e rivisitazioni.
[20] Cfr. TABUCCHI, Antonio. “”, in il manifesto, 22 giug. 1985; NANCY, Jean-Luc. All’ascolto. Trad. Erica Lisciani Petrini. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004.
[21] E a proposito di come è nato Narratori, afferma: «Narratori era un esperimento del genere: prendere degli spunti su «fatti della vita» e usarli come materiale immaginativo, restando nel quadro delle regole di scambio nei racconti quotidiani […] Scrivevo senza chiedermi come doveva andare a finire una storia, e se in mezz’ora non veniva bene la bittavo via. Così in un mese ho scritto trenta novelle, tipo quelle duecentesche del Novellino […] Ma più spesso sentivo la naturalezza del racconto che viene fuori come una serie di automatismi, in modo semplice, quasi da solo», in CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 127.
[22] CELATI, Gianni.  Conversazione del vento volatore. Macerata: Quodlibet, 2011, p. 77.