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La letteratura dell’ (im)migrazione in Italia: genesi, temi, e un esemplare: Immigrato di Fortunato/Methnani, di Alfredo Luzi
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Alfredo Luzi
Imigração
Immigrato
em
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Imagem: pxhere.com |
Genesi e temi
Di fronte ai profondi mutamenti
antropologici e culturali apportati dalla dinamica socio-economica della
globalizzazione, anche la critica letteraria ha conosciuto un radicale
rinnovamento che può essere individuato nello sviluppo della imagologia, degli
studi interculturali e delle letterature della migrazione.
Rispetto ad una concezione
centralizzata e omogenea di letteratura nazionale che rinvia ad un’idea di
identità come radice unica, per usare la terminologia di Glissant[1],
sta prevalendo un atteggiamento comparatistico, imposto anche dalla presa di
coscienza etico-politica sulla divisione del mondo in un Nord ricco e un Sud
povero e sulle conseguenze sociali determinate dai continui flussi di
migrazione delle popolazioni provenienti da paesi poveri. Da questo punto di
vista l’identità di una nazione è invece individuata in un processo
dialettico-differenziale sempre in atto nel continuo confronto con
l’alterità, in una valorizzazione della
prospettiva rizomatica, che valorizzi cioè lo scambio osmotico tra visioni del
mondo diverse, perché è lo sguardo dell’altro ad aiutarci a conoscerci e
riconoscerci.
La descrizione di un paese straniero
e dei suoi abitanti mette in gioco la concezione che un autore ha della propria
cultura e la maniera in cui egli vi si colloca, ossia la propria identità
culturale. Parlare degli altri è in fondo un modo per rivelare se stessi.
E’ ciò che è avvenuto anche in Italia
negli ultimi venti anni. Il paese, la cui storia recente era stata
caratterizzata da un’incessante emigrazione esterna (Argentina, Stati Uniti,
Canada, Australia, Europa )[2] ed
interna ( dal Meridione verso le metropoli della produzione industriale del
Nord )[3],
conosce una profonda mutazione sociologica, grazie all’arrivo di migranti da
popoli una volta lontani, separati da frontiere politiche, culturali,
linguistiche, ed ora nostri vicini di casa. L’Italia diventa uno spazio
geografico d’immigrazione ed assume un’impronta multietnica, ormai evidente non
solo nel contesto sociale delle grandi città ma anche in quello delle cittadine
di provincia che costituiscono il reticolato urbanistico dell’intera
popolazione italiana.
La letteratura prodotta da migranti
che, una volta giunti nel paese prescelto, sono spinti a scrivere per vincere
il proprio isolamento, testimoniare in qualche modo la loro presenza, dialogare
con un lettore italiano, esibire la propria diversità attraverso la scrittura,
gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di un immaginario collettivo
relativo al paese d’accoglienza, a quello di provenienza, al confronto con i
propri connazionali e con gli abitanti della nazione in cui sono approdati.[4]
Come ha giustamente osservato Armando
Gnisci[5],
che da tempo si occupa di questi temi, la letteratura della migrazione
documenta l’incontro tra le varie culture della migrazione e la cultura
italiana in sito italico, l’incontro tra le varie culture dell’immigrazione in
Italia tra di loro, la letteratura scritta tra i migrant writers in italiano.
La migrazione comporta un cambiamento
nell’identità individuale e culturale. Costretto ad affrontare una vita
diversa, il migrante subisce condizionamenti sociali che revocano in dubbio
l’immagine di sé e che determinano una revisione dell’identità, ridefinita
dalle difficoltà di rapporto con l’altro, dal tentativo di superare i
pregiudizi e la diffidenza che l’io incontra nella dinamica relazionale con la
collettività degli indigeni o di altri paesi. Egli non può, in un consapevole
processo speculare di autoriconoscimento, non prendere atto della perdita di
una identità individuale compatta, progressivamente intaccata dalle relazioni
con l’ambiente, fino a divenire una identità altra, in qualche modo
intrasoggettiva.
Narrando le varie tappe della sua
peregrinazione, gli incontri con le comunità di emarginati di altre
nazionalità, le difficoltà di
adeguamento alla burocrazia del paese ospitante, la deprivazione verbale e la
babele linguistica, causa prima dello straniamento psicologico, l’autore avvia
il processo di costituzione di una nuova identità culturale dell’immigrato,
precaria e deperibile, voluta e perduta, ma certo libera dagli schemi imposti
dalla civiltà di origine o dagli stereotipi e pregiudizi della società
d’arrivo. All’interno di quello che Pageaux[6]
chiama ‘scenario’ testuale non si ripete
il confronto tra immagini predeterminate e fisse, rappresentative di popoli che
vengono in contatto, ma c’è un’incessante elaborazione demistificante che si
sviluppa lungo il testo e che porterà ad
un’identità per così dire meticcia, in cui convivono i valori più autentici dei
due mondi entro il cui spazio l’io scrivente colloca la propria vicenda
esistenziale e narrativa.
Prendendo a prestito da Paul Ricoeur[7] la
categoria dell’identità narrativa, cioè della configurazione da parte del
lettore del soggetto narrante non solo attraverso le tematiche narrative ma
anche tramite l’edificazione iconica che è insita nel linguaggio letterario, l’identità
del migrante è sottoposta a progressivi mutamenti, conseguenti alla serie di
choc che l’identità di partenza subisce durante
questa moderna ininterrotta anabasi. Un’identità rizomatica appunto, costituita
sulla base di molteplici esperienze in cui alberga l’Altro, lo straniero che ci
permette di riconoscere noi stessi, l’alterità costitutiva della nostra
soggettività.
Come ha scritto Ceserani,
Quella dello
straniero è una condizione esistenziale, un ruolo che viene assunto in
particolari circostanze da chi si trova a visitare un paese e una comunità
diversa da quella a cui appartiene, e si trova a intrecciare rapporti con i
membri di quella comunità e a confrontarsi con le strutture sociali di quel
paese.
Lo straniero
insomma […] è un’immagine o proiezione culturale, presente nella psicologia e
nell’immaginario delle comunità umane.[8]
In una condizione dimidiata di
migrante e vagabondo, il protagonista
utilizza il viaggio come categoria ermeneutica, un faticoso processo di
interpretazione della realtà che presuppone l’habitus psicologico del nomade. Il viaggio svolge, sul piano della ermeneutica
imagologica, anche una funzione di disvelamento veritativo dei mirages proposti dall’immaginario
collettivo.
Questo processo di demitizzazione
determina nell’io narrante un meccanismo di spaesamento. La familiarizzazione negativa
con la società d’arrivo ( contatto con la realtà oggettiva ) spinge il soggetto
ad individuare nel recupero della società d’origine ( contatto con la realtà
soggettiva tesaurizzato grazie alla memoria) un principio di compensazione.
Attraverso la nostalgia, favorita dalla lontananza e dal mancato inserimento
nel nuovo contesto socio-culturale, egli sostituisce il mito di partenza con un
mito di ritorno, anche se anche questo è in fondo un miraggio, una
autorappresentazione consolatoria. Ne consegue che l’immigrato, al centro di
questa opposizione, vive una sorta di equivoco imagologico, in bilico tra
oggettività e soggettività.
L’incertezza identitaria suscita la nostalgia,
intesa come malattia del nostos, del ritorno, un dolore provocato dalla
lontananza dalla propria terra natia. L’angoscia per la condizione degradata,
priva di dignità e di umanità, il senso di estraneità e di solitudine che ne
derivano, favoriscono il desiderio del ritorno, che, secondo Lévi-Strauss[9],
non è altro che un eccesso di comunicazione con la propria identità,
sollecitato dalla sofferenza dell’espatrio.
Scrivere diventa un atto catartico
nei confronti dell’impatto psicologico che il soggetto subisce rispetto al
troppo pieno della sua vicissitudine esistenziale, un processo di riduzione del
peso degli eventi a tracce iconiche.
Conseguentemente l’idea di patria (in
cui è inserito semanticamente il concetto di paternità) non può più essere
radicata in una spazialità definita territorialmente ma va elaborata attraverso
un processo memoriale che accumuli materiale utile per l’identificazione del
sé, del soggetto nella diversità, attraverso una dinamica di contaminazione
della categorie cronotopiche. Almeno per
una gran parte della produzione di testi di scrittura migrante, molto
variegata, centralità e marginalità, storia e mito, paesaggio e memoria,
scrittura e oralità, s’intrecciano continuamente sulla pagina creando nel
lettore la percezione di una narrazione epica e corale.
In questo senso la patria, il microcosmo
del caos-mondo, è configurata nell’opzione plurilinguistica della scrittura
narrativa che caratterizza le opere della letteratura della migrazione. Si
tratta di una lingua che ha conosciuto un processo di creolizzazione e che sul
piano formale è lo specchio della compresenza dell’altro in un soggetto
sottoposto ad un continuo processo di disseminazione e tuttavia pronto ad un’attitudine
inclusiva. Non si tratta di un espediente stilistico secondo la tipologia del ‘pastiche’.
Ogni inserto differenziale-linguistico è funzionale alla narrazione. Spesso le
frasi in lingua originale non sono tradotte perché portano lo stigma dell’emotività
e della familiarità, e la loro semantizzazione è affidata al contesto. Oppure l’adozione di termini derivati
da altre lingue è motivata dal fatto che questi lemmi veicolano la dimensione
sociologica dell’emigrazione.[10]
L’elemento unificante di tante
diversità biografiche, generazionali, linguistiche, resta il racconto, l’atto
perlocutorio, offerto all’altro attraverso la propria esperienza, il colloquio
tra molti per comprendere e comprendersi.
Ed è ormai tempo di verificare l’efficacia
delle riflessioni teoriche attraverso l’analisi testuale di un’opera che è
considerata dai critici un primo esemplare della letteratura dell’immigrazione
in Italia.[11]
Dalla cronaca
alla narrazione. Immigrato
Scrittura e
identità
Immigrato, scritto a ‘quattro mani’ da
Mario Fortunato e Salah Methnani, pubblicato dalla casa editrice Theoria nel
1990 e riedito nei Tascabili Bompiani nel 2006, è un testo esemplare della
configurazione di genere nella narrativa di migrazione e nello stesso tempo può essere assunto come
modello di verifica dell’efficacia euristica del metodo imagologico.
L’occasione della scrittura nasce da
un fatto di cronaca che colpì molto l’opinione pubblica italiana: l’uccisione,
per motivi razzisti, di un rifugiato sudafricano, Jerry Essan Masslo, il 24
agosto 1989 a Villa Literno, un centro nella provincia di Caserta dove molti
immigrati trovavano lavoro stagionale nella raccolta dei pomodori. La nota
degli autori posta in fondo al volume nella prima edizione (“La prima idea di
questo libro è nata nelle stanze della redazione dell’ Espresso”) allude al fatto che, dopo il delitto, il settimanale
decise di affidare proprio ad un immigrato, Salah Methnani, un’inchiesta sulla
condizione degli extra-comunitari in Italia. Ma lo scrittore decise di dare
alla documentazione esistenziale e giornalistica uno spessore di fiction
letteraria, di genere misto ( diario di viaggio, autobiografia, romanzo),
attribuendo all’io narrante le vicende
raccontate in realtà dagli altri e affidando agli altri protagonisti le storie
vissute dall’autore stesso.[12]
Così l’omicidio di Villa Literno, di
cui si parla in due brevi paragrafi nella prima parte della narrazione, e
l’adozione della legge Martelli sull’emigrazione nel febbraio del 1990, grazie
alla quale il personaggio che descrive il suo peregrinare per l’Italia da
clandestino otterrà finalmente il permesso di soggiorno e dunque il
riconoscimento burocratico-istituzionale della propria condizione di immigrato,
a cui si fa cenno nel capitolo su Torino, svolgono nell’opera una funzione
storicizzante, collocandosi come indicatori spazio-temporali che suggeriscono
al lettore il predominio della cifra autobiografica e realistica sulla
dimensione fictionelle e immaginaria.
Il punto di contatto tra la realtà dell’indagine
giornalistica e la trasformazione di questa in invenzione letteraria è invece
individuabile nell’adozione di una mise
en abyme che trama i tre quarti del testo. Lo scrittore parla della sua
scrittura “su una specie di diario in cui appunto gli avvenimenti più banali, i
particolari più insignificanti”.[13]
La scrittura realizza il tentativo di
rendere immobile il tempo transeunte e di attivare la memoria ( “Mi dico che,
almeno, in questo modo il tempo, le persone, i gesti non passeranno del tutto
inutilmente”[14]
) ma anche di strategia autocognitiva ( “La solitudine, così mi illudo, sarà
qua e là attraversata da una presenza, da un’ombra lontana. Per un attimo, io
stesso sarò il mio compagno di viaggio”[15]
). Su questo taccuino l’autore-narratore registrerà sia le reazioni agli
incontri, felici o dolorosi, sia il riemergere della nostalgia per la terra
natale con la lenta riscoperta della figura del padre:
Col procedere dei giorni, mi scopro sempre più spesso ad
aprire il mio quaderno. Molte pagine sono fitte di avvenimenti, di nomi, di
date. Altre ospitano soltanto pochi scarabocchi, le iniziali di chissà chi, un
confuso disegnino. Tutte le parole, i puntini, i segni sembrano animali
momentaneamente in sosta. Da un minuto all’altro, mi aspetto che questa mandria
silenziosa esca dalle pagine, mi abbandoni.
[16]
Nell’ultima pagina del quaderno,
metafora letteraria del compimento del viaggio di formazione e dell’acquisita
consapevolezza del sé, l’io narrante scriverà in italiano la parola ‘ciao’,
quella forma di saluto confidenziale nell’incontrarsi e nell’accomiatarsi che
riassume in sé l’ineluttabilità del viaggio, fatto di partenze e ritorni, ed è
da tutti riconosciuta come italiana, così come la pizza e gli spaghetti.
Utilizzando gli strumenti della
imagologia ermeneutica si può già individuare la prima traccia della crisi
d’identità nel titolo stesso del volume. Il protagonista, in effetti, non
lascia la propria terra per necessità economiche. E’, almeno all’inizio, un
viaggiatore, se non proprio un turista, un laureato in lingue che, nel gioco
spaziale della vicinanza-distanza che unisce e separa nella realtà mediterranea
la Tunisia e l’Italia, vuol verificare, come lo stesso scrittore ha dichiarato,
di “essere in grado di viaggiare dovunque nel mondo e comunicare con i vari
popoli del pianeta”[17].
La prima motivazione al viaggio, seppur della durata di qualche giorno, è anzi
perfettamente in linea con il mirage
culturale e letterario della civiltà italiana conosciuta sui libri di studio,
tant’è vero che al ritorno da Trapani e Palermo gli amici si stupiscono che il
protagonista si sia limitato a visitare musei e chiese e ad andare al cinema e
sia rimasto refrattario al richiamo della società dei consumi e al mito delle
griffes alla moda.[18]
L’incertezza della condizione
psicologica, tra espatrio e nomadismo, prevale
invece in occasione della partenza definitiva, sollecitata dal desiderio
di realizzare il sogno di andarsene dalla Tunisia, sotto la suggestione delle images dell’Italia e dell’Occidente
proiettate dalla televisione e recepite anche come stereotipi standardizzati
dal racconto degli amici tornati in patria.
La testualità conferma tale stato
d’animo attraverso l’adozione di formule oppositive (“poi, senza deciderlo
veramente, decisi di partire”[19] )
o interrogative ( “Mi domandavo: “Sto partendo come un emigrante nordafricano o
come un qualsiasi ragazzo che vuole conoscere il mondo?”. Quel giorno, non
sapevo rispondermi”[20]
).
La risposta arriverà quando il
soggetto prenderà atto che la migrazione comporta un cambiamento nell’identità
individuale e culturale e che agli spostamenti nello spazio corrispondono degli
spostamenti psicologici.
E’ dunque lo scontro tra il mito
introiettato dell’Italia come paese fortunato, luogo di delizie sessuali e di
libertà, e la constatazione di una realtà che assume i contorni di una bolgia
dantesca, fatta di povertà, droga, violenza, emarginazione, prostituzione, a definire
la condizione d’immigrato del protagonista:
Sono costretto a non
vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato all’estero. Non sono
già più un ragazzo che vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo mi scopro a
essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza
casa, clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla ricerca di
qualcosa di confuso: il mito dell’Occidente, del benessere, di una specie di
libertà. Tutte parole che già stanno cominciando a sfaldarsi nella mia testa. [21]
L’identità meticcia, a livello
psicologico e sociologico, è confermata dal fatto che al suo arrivo a Roma,
l'io narrante dichiara di sentirsi un po’ a casa, proprio perché l’immagine
crono-topica della città eterna era stata da lui acquisita per via
iconico-culturale. Ma, ben presto, di fronte alla visione della realtà, in lui
prevale il senso d’estraneità e in qualche modo di difesa della propria
interiorità psicologica ( “Io guardo tutto e tutti come se ci fosse un
diaframma di vetro fra me e l’esterno […] Sono contemporaneamente dentro e
fuori la scena” [22]
). La sua focalizzazione è così sdoppiata, addirittura divaricata: da una parte
l’ascolto di un colloquio in stretto dialetto veneto lo fa sentire “distante da
casa come mai prima”[23],
dall’altra è preso dalla “voglia di andare più lontano, a una distanza che lo protegga” [24].
Si fa strada la percezione della prigionia; il paesaggio circostante assume un
valore disforico, i vari spazi urbani in
cui egli si immerge si configurano come labirinti che disorientano il nuovo
arrivato. La conferma è data dalla occorrenza della parola chiave ‘vagare’ che
riassume in sé la semiotica delle sensazioni provate dal protagonista nel suo
ininterrotto andare ( a Palermo “per giorni vago
per la città senza combinare un accidente”[25]; “Alì
ha ventidue anni e da circa uno vaga
per Roma”[26]; a Firenze “mi abituo praticamente subito a vagare per la città senza una meta”[27]; a Padova “per un paio d’ore, vago inutilmente per il mercato”[28]
). E’ da questa condizione esistenziale che nasce l’immagine soggettiva
riflessa di “un individuo che non può che fuggire, fuggire altrove”[29].
Ma alla fine questo altrove si troverà proprio nella terra della
peregrinazione, una volta riacquisito il rapporto euforico con la terra del nostos, con quella microsocietà che è
la famiglia di origine, la cui frantumazione era stata una concausa del
desiderio di fuggire dalla propria patria. Significativamente il romanzo si
apre su un scena familiare in cui predomina la figura della madre mentre è
rimarcata l’assenza del padre e si chiude, dopo una analessi di preterizione
che sottolinea la circolarità del viaggio ( l’ultimo capitolo, dopo i tanti
dedicati alle varie città italiane visitate, è ambientato a Karouan che nel
nome porta lo stigma della condizione nomade ), con la riconciliazione con la
figura del padre, piano piano riemersa nelle memoria come colui che per primo
aveva inculcato al giovane Salah l’immagine dell’Italia (“In quei giorni,
scoprii in mio padre sentimenti e comportamenti che non avevo mai neppure
immaginato potesse avere”[30])
. Ormai l’individuo migrante sa stare al mondo. I processi di spostamento
spaziale e psicologico e di straniamento/familiarizzazione con la realtà
migratoria hanno fornito al soggetto-Salah un’identità rigenerata, quella che gli permetterà di
tornare definitivamente in Italia, dopo la vacanza in Tunisia, una sorta di epoché
gnoseologica necessaria per accettare la nuova coscienza del sé.
All’inizio il riferimento alla conoscenza
della storia romana sembra costituire una sufficiente barriera alla percezione
del proprio stato di emarginazione, di non riconoscimento e di invisibilità
psico-sociale:
Ricordo di aver studiato la storia di Roma antica e di
essermene appassionato, tanti anni fa. Non voglio più essere dominato
dall’immagine del clandestino cui sono negati piaceri e desideri. Non voglio
più sopravvivere. Ora, mi prometto, sarò me stesso per intero.[31]
Ma già l’identità per così dire
primaria viene messa in crisi dalle vicende vissute. L’approccio omosessuale e
sadomaso con Emilio, ad esempio, intacca le certezze del soggetto che avverte
una sorta di sdoppiamento:
Mi
osservo come se, da un momento all’altro, dovessi sorprendermi abitato da una
seconda identità molto più sfuggente, obliqua. Qualche volta, fra me e me, mi
chiamo per nome, per appurare di essere sempre io [32] ;
così come l’esperienza della droga
crea una passività nel rapporto relazionale tra io e mondo ma nel contempo
spinge verso una identificazione collettiva:
Ho rivisto un me stesso che, a poco a poco, si andava
tramutando in tutto ciò che ho sempre odiato e temuto. Mi vedevo trasformato in
un tossico e in un pusher. In un
individuo privo di speranza. […] Solo quel mio bisogno elementare di avere
un’identità, una faccia da mostrare, un ruolo. Solo quel desiderio di colmare
con qualcosa il grande vuoto dentro di me. [33]
L’identità non è solo in
trasformazione, plasmata dal viaggio, ma è addirittura sfaldata, al punto che,
al ritorno a Tunisi, il protagonista riavverte, nel momento in cui torna ad
esprimersi in arabo, un senso di estraneità, di spaesamento, quella condizione
sociale e psicologica che nel suo peregrinare in Italia lo aveva accompagnato
ovunque:
Durante la breve fila per il biglietto,
mi ero sentito per metà uno straniero. Era come se la realtà mi arrivasse di
colpo dopo aver superato un qualche filtro, che la rendeva contemporaneamente
comprensibile e ignota. Mi chiesi se, in un qualche modo sconosciuto, io avessi
smesso di essere un tunisino. [34]
Ma già questa è la prima traccia
della nuova identità acquisita attraverso le vicende vissute e individuata per
differenza nella rilettura del diario di viaggio (“Lo ripercorrevo come il
libro di memorie di un individuo conosciuto tanto tempo prima”[35]
).
Il viaggio di Immigrato è cadenzato da una lunga serie di arrivi e partenze, di
approcci e separazioni. I vari capitoli che, con le indicazioni delle città
visitate, costituiscono la mappa dell’itinerario narrativo, si aprono spesso con
l’immagine di un treno (“che i nordafricani chiamano el fajaa (vuol dire: angoscia, pericolo”)[36] e
della stazione d’arrivo (“Il diretto per Roma parte alle dodici e trentacinque”[37]; “Il
treno è arrivato puntuale”[38]; “Alle
dieci e mezza circa, il treno è entrato nella stazione di Bologna”[39]).
Ma in questo continuo gioco tra raggiungere e abbandonare, tra speranza e
delusione, l’io narrante diventa consapevole del fatto che la propria identità
è sempre mutevole, messa costantemente in crisi dai progressivi rifiuti di
riconoscimento che il soggetto riceve. Sicché anche la conoscenza di sé e degli
altri non è che un continuo viaggio in cui le partenze e i ritorni si
confondono.
Questa incertezza epistemologica
attraversa tutta la testualità di Immigrato.
Se è vero che a livello strutturale il romanzo autobiografico presenta una sua
circolarità spaziale corrispondente al mito dell’eterno ritorno ( il primo
capitolo è ambientato a Tunisi e l’ultimo a Kairouan ), è anche vero che
all’interno del discorso narrativo sono frequenti le prese di coscienza sulla
erranza come quête del sé dell’uomo moderno ( “La verità continua a spostarsi
con me. Sempre a un passo, sempre più lontana”[40]
). L’anabasi esistenziale, motivata dal desiderio di aumentare sempre più la
distanza tra il contesto familiare e il proprio io, corrisponde ad una catabasi
psicologica ( “Risalire l’Italia corrispondeva, nella mia personale
geografia, a una discesa nel Sud di me
stesso”[41] )
ed ogni approdo non è che una sosta di un incessante transito ( “Certe volte
penso che questo mio strano peregrinare per l’Italia non abbia altro senso che
andare, andare e non guardarsi indietro”[42]
).
Dunque anche la conoscenza è precaria,
transitoria appunto, ( “Avverti che ogni ritorno è in
realtà una nuova tappa in avanti, e che anzi non c’è mai ritorno” [43]
). E’ questa la ragione che spinge il protagonista, una volta tornato a
Kairouan, a ripartire. Come i nomadi delle carovane, pronti a partire per
nessun luogo, anche Salah, completato il suo cammino di autocoscienza, sa che
non potrà sfuggire ad una nuova partenza ( “Pensai che il viaggio cominciava
adesso” [44]
). La stessa città di Karouan è vista, in una sorta di proiezione iconica della
propria percezione cronotopica, come se fosse in movimento:
Le sue case, la sua Medina, le strade, le piazze paiono, da
un momento all’altro, dover riprendere il loro cammino. […] Ogni cosa è in
movimento, si sposta, formicola. Anche l’aria, immobile e spessa per il caldo,
entra in agitazione. Si scompone e indica
mille direzioni, traiettorie di fuga, annunci di transitorietà.
Girando per la città, tu stesso vieni preso da un bisogno di
movimento, di irrequietezza.[45]
Questo senso di precarietà permanente
è scandito dalle varie fasi emotive che caratterizzano il percorso labirintico
di Immigrato.
Se all’inizio è predominante nella
semiotica delle passioni del protagonista l’ansia di fuggire da un paese in cui
si sente soffocare e in cui unica forma di liberazione socio-economica, come
scrive Salah, è quella di diventare “pugile oppure sei fregato” [46],
sostenuta dalla speranza di una vita diversa, nel prosieguo della narrazione
subentrano, nell’impatto con la realtà e con il ricordo della terra natìa, la
tristezza memoriale, il senso di solitudine, la malinconia. E il protagonista
vive drammaticamente in sé questa contraddizione sentimentale che rende
precaria anche ogni ipotesi di solidarietà interpersonale:
Ho sempre avuto un autentico culto per i rapporti di
amicizia. Ho sempre pensato che un amico è più importante di ogni altra cosa. E
invece, adesso, le persone, i sentimenti sono impercettibilmente divenuti
esperienze a tempo determinato. Non hai ancora conosciuto una persona, e già la
stai lasciando.[47]
L’Italia tra image e mirage
Il mito dell’Italia come luogo di delizie, di lavoro e di libertà,
inculcato dai mass-media o dai racconti degli amici italiani e tunisini, si
sgretola ben presto nell’ image più
realistica di un paese inospitale, degradato e razzista,
in cui la cultura della accoglienza è quasi sconosciuta, al punto da
costringere un grande numero di immigrati alla clandestinità e alla
autoemarginazione e a trovare il grado minimo di sopravvivenza nella
prostituzione maschile e femminile e nello spaccio di droga.
Ne consegue che l’immigrato, al centro
di questa opposizione, vive una sorta di equivoco decifrativo-iconico, in
bilico tra oggettività e soggettività. Un episodio emblematico di slittamento
dei codici cognitivi è quello rappresentato dall’impatto visivo del
protagonista con gli annunci funebri e con la targa di un negozio, mentre in
lui si sta già facendo strada il rimpianto per il paese che ha lasciato:
Sulle
porte delle case, ci sono strani manifesti di colore viola. C’è scritto: “Per
mio figlio”, oppure: “Per mia madre”. Fabio e Carmen mi spiegheranno poi che è
un’usanza locale per ricordare i morti. A me erano sembrati inviti per una
festa.
Di
colpo, in lontananza, ho visto l’insegna di una boutique, e ho pensato che si
trattasse di una boutique araba. I caratteri verdi in campo nero dell’insegna
sono allungati, stesi, con qualche svolazzo. Sembra una scritta araba, di cui
però non riesco a decifrare il senso. Avvicinandomi, leggo: “Fragola gialla”.
Un semplice abbaglio della vista? Forse, penso, è il mio primo desiderio di
tornare a casa.[48]
In Immigrato la nostalgia svolge una funzione di filtro tra la realtà
familiare e la realtà in cui man mano il narratore si immerge attraverso il
viaggio. Paradossalmente il rinvio agli elementi costitutivi dell’ identità
primitiva raddoppia il senso di estraneità del soggetto da un mondo che non lo
ha accolto, contaminato com’è da un razzismo per così dire esterno (il
pregiudizio degli italiani nei confronti di cittadini di altri popoli ) e da un
razzismo interno ( la divisione in Italia tra Nord e Sud ma anche le reciproche
diffidenze tra gli extracomunitari di diverse nazioni ).
Il rafforzamento della condizione di
straniero costituisce così una barriera in difesa di una autenticità che si
sente minacciata da condizionamenti esterni. Fin dalle prime pagine Salah
avverte il desiderio di tornare a casa e cerca di placare quest’ansia andando
alla ricerca di immagini che gli diano l’illusione di ricollocarlo nello spazio
della civiltà che ha abbandonato. Frequenta i caffè dei tunisini, dove si sente
a casa, si riempie gli occhi del paesaggio portuale di Mazara del Vallo che gli
ricorda un quartiere di Tunisi, mangia cibo tunisino, ma il sapore dell’harissa
e del brik, suscitatore della nostalgia, provocherà un effetto straniante (“D’ora
in poi, mi dico, meglio non mangiare il cibo cui sono stato abituato: alla
fine, ti lascia solo il sapore di ciò che non sei più” [49]
).
Ma c’è nel romanzo un sistema
dell’immaginario tutto interno alla psicologia del personaggio principale,
memorizzato, che entra in funzione come scenario alternativo a quello della
quotidianità. Proprio nei momenti di maggiore difficoltà l’io narrante cerca
nello scrigno dell’esperienza vissuta quelle immagini che meglio possano
svolgere una funzione consolatoria. Pensa al padre che non vede da troppo
tempo, augura mentalmente la buona notte alla sua famiglia, si sente più vicino
ai suoi, ricorda le chiacchiere attorno a un tavolo, racconta a Wahid, il
solitario, di suo padre e del peso della sua assenza, fino a recuperare l’episodio
della conta in italiano fino a ‘diaci’, prima traccia sonora dell’Italia nella
memoria infantile del protagonista.
Il ritorno temporaneo in Tunisia, tre
settimane, si configura quindi come un rito di pacificazione e come forma di
conoscenza. Solo dopo aver conosciuto un mondo diverso il personaggio narrante
sarà pronto a conoscere il proprio mondo, ad accettarlo, senza sentirsi più
soffocare a Tunisi e senza sentirsi straniero in Italia. In questa prospettiva
assume un carattere fortemente metaforico l’episodio dell’ultimo incontro con
il padre:
Avevo cercato di comunicargli ogni cosa dell’Italia. Avevo
parlato di fame, di sonno, di solitudine, di razzismo e violenza, ma avevo
dimenticato quel piccolo, insignificante particolare dei numeri contati in italiano
fino a dieci, e della forza che mi avevano comunicato nei momenti difficili.
Ebbi voglia di scendere dall’autobus, di correre indietro, di ripetere con lui:
“Uno, due, tre, quattro, cinque…”. Gli avrei dimostrato che ora, finalmente,
potevo pronunciare con facilità e scioltezza il numero dieci. Lui avrebbe
sorriso, forse. Avrebbe detto: “Bene”.[50]
La lingua
Sul piano linguistico il testo di Immigrato presenta una tipologia che si
ritrova in altri volumi della letteratura della migrazione. Tralasciando il
problema del doppio scrittore-autore che secondo Gnisci ha comportato “una
pesante e forzata normalizzazione linguistica” [51],
ed accettando la nota editoriale che, in prima edizione, informa che il testo è
stato “raccolto e trascritto con stile limpido da Mario Fortunato” [52],
è necessario, per analizzare il linguaggio del volume, partire da una
considerazione: il migrante non migra solo spazialmente, sociologicamente o
culturalmente, ma anche linguisticamente.
Methnani scrive in italiano, la
lingua del paese ospite, perché vuole che sia il pubblico italiano a leggerlo.
In questo modo, attraverso la ricezione letteraria, non solo egli si sentirà
meno straniero ma gli italiani stessi lo sentiranno più vicino, per il semplice
fatto di aver adottato un codice di scrittura che mette in contatto l’autore
tunisino al lettore italiano. Scrivere in italiano significa quindi realizzare
una forma d’integrazione, o almeno di accoglienza, di disponibilità psicologica
alla attenzione per l’alterità, individuale o soggettiva che sia.
In Immigrato il materiale lessicale impiegato
risponde a due principi: quello della differenziazione dall’altro e quello
della sua assimilazione, corrispondenti sul piano sociologico al processo di
emarginazione e a quello dell’integrazione culturale.
Sul primo asse si colloca l’uso dei
dialetti, delle lingue delle varie nazioni, dell’arabo, come strumento di
isolamento. Sul secondo asse si colloca invece la proposta di una sorta di
meticciato linguistico adatto per comunicare tra diversi.
Attraverso la lingua usata,
nell’incrocio tra idioletto e socioletto, Methnani realizza una sorta di
creolizzazione linguistica che è risultato o presupposto del processo di
ibridazione sociale.
D’altronde la prima epifania
dell’Italia suscitata dal padre nel giovane desideroso di partire è di tipo
linguistico ( “A dir la verità, non sentii parlare proprio dell’Italia: sentii
l’italiano” [53]
), dilatata dall’ascolto dei programmi televisivi e recuperata, alla
conclusione della vicenda narrativa, dalla ‘buona notte’ con cui il padre
saluta il figlio.
Ma non appena inizia il viaggio in
Italia il migrante s’imbatte nella rete dei dialetti italiani, ulteriore fonte
di isolamento e di deprivazione verbale. Per rompere questo muro gli immigrati
adottano una sorta di lingua franca, mista di italiano nazionale, di dialetto,
di lingua del paese d’origine, di arabo, che costituisce un tentativo di
intermediazione, di familiarizzazione comunicazionale. Il protagonista si rende
conto che il modo di parlare determina un meccanismo di riconoscimento e scopre
che la conoscenza dell’italiano rappresenta più un ostacolo che un vantaggio
perché rischia di allontanare l’accettazione sociale da parte dei pari:
Da quando ho capito che la mia discreta conoscenza
dell’italiano, invece di facilitare le cose, le complica, ho preso a parlare
come ci si aspetta parli un “vu’ cumprà”[54];
“ “Mila lire, accendini, mila lire”. Dico anch’io “mila”, invece di mille,
perché ormai sono convinto che la gente si aspetti che un vu’ cumprà parli
così. Così tutti i vu’ cumprà dicono “mila lire”. [55]
In una narrazione dallo ‘stile
limpido e diretto’, garantito dalla trascrizione di Mario Fortunato, si
individua l’adozione di un italiano parlato medio di stampo popolare (
fighetto, froci, gay, finocchio, scopare, un cazzo di niente, etc. ) a cui fa
però riscontro l’inserimento, motivato da un desiderio di tenere viva
l’immagine del paese d’origine anche attraverso la lingua, di parole arabe, di
cui però è sempre data la spiegazione in italiano (Hsan, glabra, minaret,
sarissa, bazar, gourbi, naseh, el fajaa, mibun, layla sa ida).
Insomma la babele linguistica non
come icona della separatezza ma come luogo di incontro.
D’altronde il filosofo Popper
sosteneva che se la torre di Babele non fosse esistita sarebbe stato necessario
inventarla, per sottolineare il valore umanistico della differenza che, se
ascoltata e fatta propria, è uno degli elementi di maggior arricchimento
culturale dell’umanità.
La tradizione post-omerica racconta
che Ulisse, una volta tornato dopo tante peripezie alla sua petrosa Itaca,
ormai perdutamente colpito dal tarlo del viaggio come forma di conoscenza,
riprese il mare per continuare la sua avventura gnoseologica.
Le opere della letteratura della
migrazione trasformano l’odissea di chi ha vissuto l’esperienza migratoria in
un percorso la cui meta è il riconoscimento di se stessi e degli altri.
[1] Vedi GLISSANT. Édouard. Poetica
del diverso. Roma: Meltemi, 1998.
[2] Vedi SORI, Ercole. L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda
guerra mondiale. Bologna: Il Mulino, 1979; COLUCCI, Michele. Lavoro in movimento. L'emigrazione italiana in Europa 1945- 1957. Roma: Donzelli, 2008; ROSOLI, Gianfausto. Un secolo di emigrazione italiana. Roma: Centro Studi Emigrazione, 1978.
[3] Vedi FOFI, Goffredo. L’immigrazione
meridionale a Torino. Milano: Feltrinelli, 1975; GOTTARDI, Alessandro, LENZO, Fabio, WITSCHI, Kewjn. Le
migrazioni Sud-Nord dal dopoguerra ad oggi. 2003.
[5] Vedi GNISCI, Armando e altri. La
letteratura del mondo nel XXI secolo. Milano: Bruno Mondadori, 2010.
[6] Vedi PAGEAUX, Daniel-Henri. Le
scritture di Hermes. Introduzione alla letteratura comparata. Palermo: Sellerio, 2010.
[7] Vedi RICOEUR, Paul. Tempo e
racconto. Il tempo raccontato III. Milano: Jaca Book, 1998.
[8] CESERANI, Remo. Lo straniero. Bari: Laterza, 1998, p.7.
[9] Vedi LÉVI-STRAUSS, Claude. Tristi
tropici. Milano: Il Saggiatore, 2008.
[10] Vedi GLISSANT, Édouard. Poetica del diverso. Roma: Meltemi, 1998; HANNERZ, Ulf. La diversità
culturale. Bari: Laterza, 2001; ANOLLI, Luigi. La
mente multiculturale. Bari: Laterza, 2006; ORTIZ, Fernando. Contrappunto cubano del tabacco e dello
zucchero. Troina: Città Aperta, 2007; MENGOZZI, Chiara. Narrazioni contese. Vent’anni di scritture
italiane della migrazione. Roma: Carocci, 2012.
[11] Vedi GNISCI, Armando. Creolizzare
l’Europa: letteratura e migrazione. Roma: Meltemi, 2003; PONZANESI, Sandra. "Nuove tendenze nella critica della
letteratura italiana della migrazione". In Riviste Europea di Studi
Italiani, 26, 3.3.2011; PEZZAROSSA, Fulvio; ROSSINI, Ilaria (orgs.). "Leggere
il testo e il mondo". Vent'anni di scritture della migrazione in Italia. Bologna: CLUEB, 2011.
[12] Vedi GREZZI, Carla. "La letteratura
africana d’immigrazione in lingua italiana: la mia patria è la letteratura". In Africa Italia. Due continenti
si avvicinano. (S. Matteo e S.Bellucci orgs.). Sant’Arcangelo di Romagna: Fara Editore, 1999, p.148.
[13] FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Immigrato. Milano: Bompiani, 2006, p.51.
[14] Idem.
[15] Ibidem, pp. 51-52.
[16] Ibidem, p.116.
[17] Vedi METHNANI, Salah. "Lontano
dalla lingua madre". In Kumà/Poetiche, 3 gennaio 2002, p.1,
www.disp.let.uniroma1.it
[18] FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Op. cit., p.12.
19 Idem, p.14.
20 Ibidem.
[21] Ibidem, pp.25-26.
[22] Ibidem, pp.58-59.
[23] Ibidem, p.88.
[24] Ibidem, p.99.
[25] Ibidem, p.32.
[26] Ibidem, p.63.
[27] Ibidem, p.74.
[28] Ibidem, p.89.
[29] Ibidem, p.100.
[30] Ibidem, p.128.
[31] Ibidem, p.52.
[32] Ibidem, p.68.
[33] Ibidem, p.85.
[34] Ibidem, p.126.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem, p.54.
[37] Ibidem, p.51.
[38] Ibidem, p.71.
[39] Ibidem, p.99.
[40] Ibidem, p.122.
[41] Ibidem, p.42.
[42] Ibidem, p.108.
[43] Ibidem, p.127.
[44] Ibidem, p.130.
[45] Ibidem, p.127.
[46] Ibidem, p. 53.
[47] Ibidem, p.101.
[48] Ibidem, p.18.
[49] Ibidem, p.30.
[50] Ibidem, p.129.
[51] GNISCI, Armando. "Editino
/doppiaggio". In Kùmà/Poetica 4, p.1, www.disp.let.uniroma1.it.
[52] FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Op. cit., p.134.
[53] Ibidem, p.9.
[54] Ibidem, p.58.
[55] Ibidem, p.114.
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