La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

La letteratura dell’ (im)migrazione in Italia: genesi, temi, e un esemplare: Immigrato di Fortunato/Methnani, di Alfredo Luzi

 

Imagem: pxhere.com


 

Genesi e temi
Di fronte ai profondi mutamenti antropologici e culturali apportati dalla dinamica socio-economica della globalizzazione, anche la critica letteraria ha conosciuto un radicale rinnovamento che può essere individuato nello sviluppo della imagologia, degli studi interculturali e delle letterature della migrazione.
Rispetto ad una concezione centralizzata e omogenea di letteratura nazionale che rinvia ad un’idea di identità come radice unica, per usare la terminologia di Glissant[1], sta prevalendo un atteggiamento comparatistico, imposto anche dalla presa di coscienza etico-politica sulla divisione del mondo in un Nord ricco e un Sud povero e sulle conseguenze sociali determinate dai continui flussi di migrazione delle popolazioni provenienti da paesi poveri. Da questo punto di vista l’identità di una nazione è invece individuata in un processo dialettico-differenziale sempre in atto nel continuo confronto con l’alterità,  in una valorizzazione della prospettiva rizomatica, che valorizzi cioè lo scambio osmotico tra visioni del mondo diverse, perché è lo sguardo dell’altro ad aiutarci a conoscerci e riconoscerci.
La descrizione di un paese straniero e dei suoi abitanti mette in gioco la concezione che un autore ha della propria cultura e la maniera in cui egli vi si colloca, ossia la propria identità culturale. Parlare degli altri è in fondo un modo per rivelare se stessi.
E’ ciò che è avvenuto anche in Italia negli ultimi venti anni. Il paese, la cui storia recente era stata caratterizzata da un’incessante emigrazione esterna (Argentina, Stati Uniti, Canada, Australia, Europa )[2] ed interna ( dal Meridione verso le metropoli della produzione industriale del Nord )[3], conosce una profonda mutazione sociologica, grazie all’arrivo di migranti da popoli una volta lontani, separati da frontiere politiche, culturali, linguistiche, ed ora nostri vicini di casa. L’Italia diventa uno spazio geografico d’immigrazione ed assume un’impronta multietnica, ormai evidente non solo nel contesto sociale delle grandi città ma anche in quello delle cittadine di provincia che costituiscono il reticolato urbanistico dell’intera popolazione italiana.
La letteratura prodotta da migranti che, una volta giunti nel paese prescelto, sono spinti a scrivere per vincere il proprio isolamento, testimoniare in qualche modo la loro presenza, dialogare con un lettore italiano, esibire la propria diversità attraverso la scrittura, gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di un immaginario collettivo relativo al paese d’accoglienza, a quello di provenienza, al confronto con i propri connazionali e con gli abitanti della nazione in cui sono approdati.[4]
Come ha giustamente osservato Armando Gnisci[5], che da tempo si occupa di questi temi, la letteratura della migrazione documenta l’incontro tra le varie culture della migrazione e la cultura italiana in sito italico, l’incontro tra le varie culture dell’immigrazione in Italia tra di loro, la letteratura scritta tra i migrant writers in italiano.
La migrazione comporta un cambiamento nell’identità individuale e culturale. Costretto ad affrontare una vita diversa, il migrante subisce condizionamenti sociali che revocano in dubbio l’immagine di sé e che determinano una revisione dell’identità, ridefinita dalle difficoltà di rapporto con l’altro, dal tentativo di superare i pregiudizi e la diffidenza che l’io incontra nella dinamica relazionale con la collettività degli indigeni o di altri paesi. Egli non può, in un consapevole processo speculare di autoriconoscimento, non prendere atto della perdita di una identità individuale compatta, progressivamente intaccata dalle relazioni con l’ambiente, fino a divenire una identità altra, in qualche modo intrasoggettiva.
Narrando le varie tappe della sua peregrinazione, gli incontri con le comunità di emarginati di altre nazionalità, le  difficoltà di adeguamento alla burocrazia del paese ospitante, la deprivazione verbale e la babele linguistica, causa prima dello straniamento psicologico, l’autore avvia il processo di costituzione di una nuova identità culturale dell’immigrato, precaria e deperibile, voluta e perduta, ma certo libera dagli schemi imposti dalla civiltà di origine o dagli stereotipi e pregiudizi della società d’arrivo. All’interno di quello che Pageaux[6] chiama ‘scenario’  testuale non si ripete il confronto tra immagini predeterminate e fisse, rappresentative di popoli che vengono in contatto, ma c’è un’incessante elaborazione demistificante che si sviluppa lungo il testo e che porterà ad un’identità per così dire meticcia, in cui convivono i valori più autentici dei due mondi entro il cui spazio l’io scrivente colloca la propria vicenda esistenziale e narrativa.
Prendendo a prestito da Paul Ricoeur[7] la categoria dell’identità narrativa, cioè della configurazione da parte del lettore del soggetto narrante non solo attraverso le tematiche narrative ma anche tramite l’edificazione iconica che è insita nel linguaggio letterario, l’identità del migrante è sottoposta a progressivi mutamenti, conseguenti alla serie di choc che l’identità di partenza subisce durante  questa moderna ininterrotta anabasi.  Un’identità rizomatica appunto, costituita sulla base di molteplici esperienze in cui alberga l’Altro, lo straniero che ci permette di riconoscere noi stessi, l’alterità costitutiva della nostra soggettività.
Come ha scritto Ceserani,
 
Quella dello straniero è una condizione esistenziale, un ruolo che viene assunto in particolari circostanze da chi si trova a visitare un paese e una comunità diversa da quella a cui appartiene, e si trova a intrecciare rapporti con i membri di quella comunità e a confrontarsi con le strutture sociali di quel paese.

Lo straniero insomma […] è un’immagine o proiezione culturale, presente nella psicologia e nell’immaginario delle comunità umane.[8]

 
In una condizione dimidiata di migrante e vagabondo,  il protagonista utilizza il viaggio come categoria ermeneutica, un faticoso processo di interpretazione della realtà che presuppone l’habitus psicologico del nomade. Il viaggio svolge, sul piano della ermeneutica imagologica, anche una funzione di disvelamento veritativo dei mirages proposti dall’immaginario collettivo.
Questo processo di demitizzazione determina nell’io narrante un meccanismo di spaesamento. La familiarizzazione negativa con la società d’arrivo ( contatto con la realtà oggettiva ) spinge il soggetto ad individuare nel recupero della società d’origine ( contatto con la realtà soggettiva tesaurizzato grazie alla memoria) un principio di compensazione. Attraverso la nostalgia, favorita dalla lontananza e dal mancato inserimento nel nuovo contesto socio-culturale, egli sostituisce il mito di partenza con un mito di ritorno, anche se anche questo è in fondo un miraggio, una autorappresentazione consolatoria. Ne consegue che l’immigrato, al centro di questa opposizione, vive una sorta di equivoco imagologico, in bilico tra oggettività e soggettività.
 L’incertezza identitaria suscita la nostalgia, intesa come malattia del nostos, del ritorno, un dolore provocato dalla lontananza dalla propria terra natia. L’angoscia per la condizione degradata, priva di dignità e di umanità, il senso di estraneità e di solitudine che ne derivano, favoriscono il desiderio del ritorno, che, secondo Lévi-Strauss[9], non è altro che un eccesso di comunicazione con la propria identità, sollecitato dalla sofferenza dell’espatrio.
Scrivere diventa un atto catartico nei confronti dell’impatto psicologico che il soggetto subisce rispetto al troppo pieno della sua vicissitudine esistenziale, un processo di riduzione del peso degli eventi a tracce iconiche.
Conseguentemente l’idea di patria (in cui è inserito semanticamente il concetto di paternità) non può più essere radicata in una spazialità definita territorialmente ma va elaborata attraverso un processo memoriale che accumuli materiale utile per l’identificazione del sé, del soggetto nella diversità, attraverso una dinamica di contaminazione della categorie cronotopiche.  Almeno per una gran parte della produzione di testi di scrittura migrante, molto variegata, centralità e marginalità, storia e mito, paesaggio e memoria, scrittura e oralità, s’intrecciano continuamente sulla pagina creando nel lettore la percezione di una narrazione epica e corale.
In questo senso la patria, il microcosmo del caos-mondo, è configurata nell’opzione plurilinguistica della scrittura narrativa che caratterizza le opere della letteratura della migrazione. Si tratta di una lingua che ha conosciuto un processo di creolizzazione e che sul piano formale è lo specchio della compresenza dell’altro in un soggetto sottoposto ad un continuo processo di disseminazione e tuttavia pronto ad un’attitudine inclusiva. Non si tratta di un espediente stilistico secondo la tipologia del ‘pastiche’. Ogni inserto differenziale-linguistico è funzionale alla narrazione. Spesso le frasi in lingua originale non sono tradotte perché portano lo stigma dell’emotività e della familiarità, e la loro semantizzazione è affidata al contesto. Oppure l’adozione di termini derivati da altre lingue è motivata dal fatto che questi lemmi veicolano la dimensione sociologica dell’emigrazione.[10]
L’elemento unificante di tante diversità biografiche, generazionali, linguistiche, resta il racconto, l’atto perlocutorio, offerto all’altro attraverso la propria esperienza, il colloquio tra molti per comprendere e comprendersi.
Ed è ormai tempo di verificare l’efficacia delle riflessioni teoriche attraverso l’analisi testuale di un’opera che è considerata dai critici un primo esemplare della letteratura dell’immigrazione in Italia.[11]
 

Dalla cronaca alla narrazione. Immigrato
 
Scrittura e identità
Immigrato, scritto a ‘quattro mani’ da Mario Fortunato e Salah Methnani, pubblicato dalla casa editrice Theoria nel 1990 e riedito nei Tascabili Bompiani nel 2006, è un testo esemplare della configurazione di genere nella narrativa di migrazione  e nello stesso tempo può essere assunto come modello di verifica dell’efficacia euristica del metodo imagologico.
L’occasione della scrittura nasce da un fatto di cronaca che colpì molto l’opinione pubblica italiana: l’uccisione, per motivi razzisti, di un rifugiato sudafricano, Jerry Essan Masslo, il 24 agosto 1989 a Villa Literno, un centro nella provincia di Caserta dove molti immigrati trovavano lavoro stagionale nella raccolta dei pomodori. La nota degli autori posta in fondo al volume nella prima edizione (“La prima idea di questo libro è nata nelle stanze della redazione dell’ Espresso”) allude al fatto che, dopo il delitto, il settimanale decise di affidare proprio ad un immigrato, Salah Methnani, un’inchiesta sulla condizione degli extra-comunitari in Italia. Ma lo scrittore decise di dare alla documentazione esistenziale e giornalistica uno spessore di fiction letteraria, di genere misto ( diario di viaggio, autobiografia, romanzo), attribuendo all’io narrante  le vicende raccontate in realtà dagli altri e affidando agli altri protagonisti le storie vissute dall’autore stesso.[12]
Così l’omicidio di Villa Literno, di cui si parla in due brevi paragrafi nella prima parte della narrazione, e l’adozione della legge Martelli sull’emigrazione nel febbraio del 1990, grazie alla quale il personaggio che descrive il suo peregrinare per l’Italia da clandestino otterrà finalmente il permesso di soggiorno e dunque il riconoscimento burocratico-istituzionale della propria condizione di immigrato, a cui si fa cenno nel capitolo su Torino, svolgono nell’opera una funzione storicizzante, collocandosi come indicatori spazio-temporali che suggeriscono al lettore il predominio della cifra autobiografica e realistica sulla dimensione fictionelle e immaginaria.
Il punto di contatto tra la realtà dell’indagine giornalistica e la trasformazione di questa in invenzione letteraria è invece individuabile nell’adozione di una mise en abyme che trama i tre quarti del testo. Lo scrittore parla della sua scrittura “su una specie di diario in cui appunto gli avvenimenti più banali, i particolari più insignificanti”.[13]
La scrittura realizza il tentativo di rendere immobile il tempo transeunte e di attivare la memoria ( “Mi dico che, almeno, in questo modo il tempo, le persone, i gesti non passeranno del tutto inutilmente”[14] ) ma anche di strategia autocognitiva ( “La solitudine, così mi illudo, sarà qua e là attraversata da una presenza, da un’ombra lontana. Per un attimo, io stesso sarò il mio compagno di viaggio”[15] ). Su questo taccuino l’autore-narratore registrerà sia le reazioni agli incontri, felici o dolorosi, sia il riemergere della nostalgia per la terra natale con la lenta riscoperta della figura del padre:
 
Col procedere dei giorni, mi scopro sempre più spesso ad aprire il mio quaderno. Molte pagine sono fitte di avvenimenti, di nomi, di date. Altre ospitano soltanto pochi scarabocchi, le iniziali di chissà chi, un confuso disegnino. Tutte le parole, i puntini, i segni sembrano animali momentaneamente in sosta. Da un minuto all’altro, mi aspetto che questa mandria silenziosa esca dalle pagine, mi abbandoni.  [16]
 
Nell’ultima pagina del quaderno, metafora letteraria del compimento del viaggio di formazione e dell’acquisita consapevolezza del sé, l’io narrante scriverà in italiano la parola ‘ciao’, quella forma di saluto confidenziale nell’incontrarsi e nell’accomiatarsi che riassume in sé l’ineluttabilità del viaggio, fatto di partenze e ritorni, ed è da tutti riconosciuta come italiana, così come la pizza e gli spaghetti.
Utilizzando gli strumenti della imagologia ermeneutica si può già individuare la prima traccia della crisi d’identità nel titolo stesso del volume. Il protagonista, in effetti, non lascia la propria terra per necessità economiche. E’, almeno all’inizio, un viaggiatore, se non proprio un turista, un laureato in lingue che, nel gioco spaziale della vicinanza-distanza che unisce e separa nella realtà mediterranea la Tunisia e l’Italia, vuol verificare, come lo stesso scrittore ha dichiarato, di “essere in grado di viaggiare dovunque nel mondo e comunicare con i vari popoli del pianeta”[17]. La prima motivazione al viaggio, seppur della durata di qualche giorno, è anzi perfettamente in linea con il mirage culturale e letterario della civiltà italiana conosciuta sui libri di studio, tant’è vero che al ritorno da Trapani e Palermo gli amici si stupiscono che il protagonista si sia limitato a visitare musei e chiese e ad andare al cinema e sia rimasto refrattario al richiamo della società dei consumi e al mito delle griffes alla moda.[18]
L’incertezza della condizione psicologica, tra espatrio e nomadismo, prevale  invece in occasione della partenza definitiva, sollecitata dal desiderio di realizzare il sogno di andarsene dalla Tunisia, sotto la suggestione delle images dell’Italia e dell’Occidente proiettate dalla televisione e recepite anche come stereotipi standardizzati dal racconto degli amici tornati in patria.
La testualità conferma tale stato d’animo attraverso l’adozione di formule oppositive (“poi, senza deciderlo veramente, decisi di partire”[19] ) o interrogative ( “Mi domandavo: “Sto partendo come un emigrante nordafricano o come un qualsiasi ragazzo che vuole conoscere il mondo?”. Quel giorno, non sapevo rispondermi”[20] ).
La risposta arriverà quando il soggetto prenderà atto che la migrazione comporta un cambiamento nell’identità individuale e culturale e che agli spostamenti nello spazio corrispondono degli spostamenti psicologici.
E’ dunque lo scontro tra il mito introiettato dell’Italia come paese fortunato, luogo di delizie sessuali e di libertà, e la constatazione di una realtà che assume i contorni di una bolgia dantesca, fatta di povertà, droga, violenza, emarginazione, prostituzione, a definire la condizione d’immigrato del protagonista:
 
 Sono costretto a non vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato all’estero. Non sono già più un ragazzo che vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla ricerca di qualcosa di confuso: il mito dell’Occidente, del benessere, di una specie di libertà. Tutte parole che già stanno cominciando a sfaldarsi nella mia testa. [21]
 
L’identità meticcia, a livello psicologico e sociologico, è confermata dal fatto che al suo arrivo a Roma, l'io narrante dichiara di sentirsi un po’ a casa, proprio perché l’immagine crono-topica della città eterna era stata da lui acquisita per via iconico-culturale. Ma, ben presto, di fronte alla visione della realtà, in lui prevale il senso d’estraneità e in qualche modo di difesa della propria interiorità psicologica ( “Io guardo tutto e tutti come se ci fosse un diaframma di vetro fra me e l’esterno […] Sono contemporaneamente dentro e fuori la scena” [22] ). La sua focalizzazione è così sdoppiata, addirittura divaricata: da una parte l’ascolto di un colloquio in stretto dialetto veneto lo fa sentire “distante da casa come mai prima”[23], dall’altra è preso dalla “voglia di andare più lontano, a una distanza che lo  protegga” [24]. Si fa strada la percezione della prigionia; il paesaggio circostante assume un valore disforico,  i vari spazi urbani in cui egli si immerge si configurano come labirinti che disorientano il nuovo arrivato. La conferma è data dalla occorrenza della parola chiave ‘vagare’ che riassume in sé la semiotica delle sensazioni provate dal protagonista nel suo ininterrotto andare ( a Palermo “per giorni vago per la città senza combinare un accidente”[25]; “Alì ha ventidue anni e da circa uno vaga per Roma”[26];  a Firenze “mi abituo praticamente subito a vagare per la città senza una meta”[27];  a Padova “per un paio d’ore, vago inutilmente per il mercato”[28] ). E’ da questa condizione esistenziale che nasce l’immagine soggettiva riflessa di “un individuo che non può che fuggire, fuggire altrove”[29]. Ma alla fine questo altrove si troverà proprio nella terra della peregrinazione, una volta riacquisito il rapporto euforico con la terra del nostos, con quella microsocietà che è la famiglia di origine, la cui frantumazione era stata una concausa del desiderio di fuggire dalla propria patria. Significativamente il romanzo si apre su un scena familiare in cui predomina la figura della madre mentre è rimarcata l’assenza del padre e si chiude, dopo una analessi di preterizione che sottolinea la circolarità del viaggio ( l’ultimo capitolo, dopo i tanti dedicati alle varie città italiane visitate, è ambientato a Karouan che nel nome porta lo stigma della condizione nomade ), con la riconciliazione con la figura del padre, piano piano riemersa nelle memoria come colui che per primo aveva inculcato al giovane Salah l’immagine dell’Italia (“In quei giorni, scoprii in mio padre sentimenti e comportamenti che non avevo mai neppure immaginato potesse avere”[30]) . Ormai l’individuo migrante sa stare al mondo. I processi di spostamento spaziale e psicologico e di straniamento/familiarizzazione con la realtà migratoria hanno fornito al soggetto-Salah un’identità  rigenerata, quella che gli permetterà di tornare definitivamente in Italia, dopo la vacanza in Tunisia, una sorta di epoché gnoseologica necessaria per accettare la nuova coscienza del sé.
All’inizio il riferimento alla conoscenza della storia romana sembra costituire una sufficiente barriera alla percezione del proprio stato di emarginazione, di non riconoscimento e di invisibilità psico-sociale:
 
Ricordo di aver studiato la storia di Roma antica e di essermene appassionato, tanti anni fa. Non voglio più essere dominato dall’immagine del clandestino cui sono negati piaceri e desideri. Non voglio più sopravvivere. Ora, mi prometto, sarò me stesso per intero.[31]
 
Ma già l’identità per così dire primaria viene messa in crisi dalle vicende vissute. L’approccio omosessuale e sadomaso con Emilio, ad esempio, intacca le certezze del soggetto che avverte una sorta di sdoppiamento:
 
Mi osservo come se, da un momento all’altro, dovessi sorprendermi abitato da una seconda identità molto più sfuggente, obliqua. Qualche volta, fra me e me, mi chiamo per nome, per appurare di essere sempre io [32] ;
 
così come l’esperienza della droga crea una passività nel rapporto relazionale tra io e mondo ma nel contempo spinge verso una identificazione collettiva:
 
Ho rivisto un me stesso che, a poco a poco, si andava tramutando in tutto ciò che ho sempre odiato e temuto. Mi vedevo trasformato in un tossico e in un pusher. In un individuo privo di speranza. […] Solo quel mio bisogno elementare di avere un’identità, una faccia da mostrare, un ruolo. Solo quel desiderio di colmare con qualcosa il grande vuoto dentro di me. [33]  
 
L’identità non è solo in trasformazione, plasmata dal viaggio, ma è addirittura sfaldata, al punto che, al ritorno a Tunisi, il protagonista riavverte, nel momento in cui torna ad esprimersi in arabo, un senso di estraneità, di spaesamento, quella condizione sociale e psicologica che nel suo peregrinare in Italia lo aveva accompagnato ovunque:
 
 Durante la breve fila per il biglietto, mi ero sentito per metà uno straniero. Era come se la realtà mi arrivasse di colpo dopo aver superato un qualche filtro, che la rendeva contemporaneamente comprensibile e ignota. Mi chiesi se, in un qualche modo sconosciuto, io avessi smesso di essere un tunisino. [34]  
 
Ma già questa è la prima traccia della nuova identità acquisita attraverso le vicende vissute e individuata per differenza nella rilettura del diario di viaggio (“Lo ripercorrevo come il libro di memorie di un individuo conosciuto tanto tempo prima”[35] ).
Il viaggio di Immigrato è cadenzato da una lunga serie di arrivi e partenze, di approcci e separazioni. I vari capitoli che, con le indicazioni delle città visitate, costituiscono la mappa dell’itinerario narrativo, si aprono spesso con l’immagine di un treno (“che i nordafricani chiamano el fajaa (vuol dire: angoscia, pericolo”)[36] e della stazione d’arrivo (“Il diretto per Roma parte alle dodici e trentacinque”[37]; “Il treno è arrivato puntuale”[38]; “Alle dieci e mezza circa, il treno è entrato nella stazione di Bologna”[39]). Ma in questo continuo gioco tra raggiungere e abbandonare, tra speranza e delusione, l’io narrante diventa consapevole del fatto che la propria identità è sempre mutevole, messa costantemente in crisi dai progressivi rifiuti di riconoscimento che il soggetto riceve. Sicché anche la conoscenza di sé e degli altri non è che un continuo viaggio in cui le partenze e i ritorni si confondono.
Questa incertezza epistemologica attraversa tutta la testualità di Immigrato. Se è vero che a livello strutturale il romanzo autobiografico presenta una sua circolarità spaziale corrispondente al mito dell’eterno ritorno ( il primo capitolo è ambientato a Tunisi e l’ultimo a Kairouan ), è anche vero che all’interno del discorso narrativo sono frequenti le prese di coscienza sulla erranza come  quête del sé dell’uomo moderno ( “La verità continua a spostarsi con me. Sempre a un passo, sempre più lontana”[40] ). L’anabasi esistenziale, motivata dal desiderio di aumentare sempre più la distanza tra il contesto familiare e il proprio io, corrisponde ad una catabasi psicologica ( “Risalire l’Italia corrispondeva, nella mia personale geografia,  a una discesa nel Sud di me stesso”[41] ) ed ogni approdo non è che una sosta di un incessante transito ( “Certe volte penso che questo mio strano peregrinare per l’Italia non abbia altro senso che andare, andare e non guardarsi indietro”[42] ).
Dunque anche la conoscenza è precaria, transitoria appunto, ( “Avverti che ogni ritorno è in realtà una nuova tappa in avanti, e che anzi non c’è mai ritorno” [43] ). E’ questa la ragione che spinge il protagonista, una volta tornato a Kairouan, a ripartire. Come i nomadi delle carovane, pronti a partire per nessun luogo, anche Salah, completato il suo cammino di autocoscienza, sa che non potrà sfuggire ad una nuova partenza ( “Pensai che il viaggio cominciava adesso” [44] ). La stessa città di Karouan è vista, in una sorta di proiezione iconica della propria percezione cronotopica, come se fosse in movimento:
 
Le sue case, la sua Medina, le strade, le piazze paiono, da un momento all’altro, dover riprendere il loro cammino. […] Ogni cosa è in movimento, si sposta, formicola. Anche l’aria, immobile e spessa per il caldo, entra in agitazione. Si scompone  e indica mille direzioni, traiettorie di fuga, annunci di transitorietà.
Girando per la città, tu stesso vieni preso da un bisogno di movimento, di irrequietezza.[45]
 
Questo senso di precarietà permanente è scandito dalle varie fasi emotive che caratterizzano il percorso labirintico di Immigrato.
Se all’inizio è predominante nella semiotica delle passioni del protagonista l’ansia di fuggire da un paese in cui si sente soffocare e in cui unica forma di liberazione socio-economica, come scrive Salah, è quella di diventare “pugile oppure sei fregato” [46], sostenuta dalla speranza di una vita diversa, nel prosieguo della narrazione subentrano, nell’impatto con la realtà e con il ricordo della terra natìa, la tristezza memoriale, il senso di solitudine, la malinconia. E il protagonista vive drammaticamente in sé questa contraddizione sentimentale che rende precaria anche ogni ipotesi di solidarietà interpersonale:
 
Ho sempre avuto un autentico culto per i rapporti di amicizia. Ho sempre pensato che un amico è più importante di ogni altra cosa. E invece, adesso, le persone, i sentimenti sono impercettibilmente divenuti esperienze a tempo determinato. Non hai ancora conosciuto una persona, e già la stai lasciando.[47]
 
       L’Italia tra image e mirage
        Il mito dell’Italia come luogo di delizie, di lavoro e di libertà, inculcato dai mass-media o dai racconti degli amici italiani e tunisini, si sgretola ben presto nell’ image più realistica  di un paese inospitale, degradato e razzista, in cui la cultura della accoglienza è quasi sconosciuta, al punto da costringere un grande numero di immigrati alla clandestinità e alla autoemarginazione e a trovare il grado minimo di sopravvivenza nella prostituzione maschile e femminile e nello spaccio di droga.
Ne consegue che l’immigrato, al centro di questa opposizione, vive una sorta di equivoco decifrativo-iconico, in bilico tra oggettività e soggettività. Un episodio emblematico di slittamento dei codici cognitivi è quello rappresentato dall’impatto visivo del protagonista con gli annunci funebri e con la targa di un negozio, mentre in lui si sta già facendo strada il rimpianto per il paese che ha lasciato:
 
Sulle porte delle case, ci sono strani manifesti di colore viola. C’è scritto: “Per mio figlio”, oppure: “Per mia madre”. Fabio e Carmen mi spiegheranno poi che è un’usanza locale per ricordare i morti. A me erano sembrati inviti per una festa.
Di colpo, in lontananza, ho visto l’insegna di una boutique, e ho pensato che si trattasse di una boutique araba. I caratteri verdi in campo nero dell’insegna sono allungati, stesi, con qualche svolazzo. Sembra una scritta araba, di cui però non riesco a decifrare il senso. Avvicinandomi, leggo: “Fragola gialla”. Un semplice abbaglio della vista? Forse, penso, è il mio primo desiderio di tornare a casa.[48]
 
In Immigrato la nostalgia svolge una funzione di filtro tra la realtà familiare e la realtà in cui man mano il narratore si immerge attraverso il viaggio. Paradossalmente il rinvio agli elementi costitutivi dell’ identità primitiva raddoppia il senso di estraneità del soggetto da un mondo che non lo ha accolto, contaminato com’è da un razzismo per così dire esterno (il pregiudizio degli italiani nei confronti di cittadini di altri popoli ) e da un razzismo interno ( la divisione in Italia tra Nord e Sud ma anche le reciproche diffidenze tra gli extracomunitari di diverse nazioni ).
Il rafforzamento della condizione di straniero costituisce così una barriera in difesa di una autenticità che si sente minacciata da condizionamenti esterni. Fin dalle prime pagine Salah avverte il desiderio di tornare a casa e cerca di placare quest’ansia andando alla ricerca di immagini che gli diano l’illusione di ricollocarlo nello spazio della civiltà che ha abbandonato. Frequenta i caffè dei tunisini, dove si sente a casa, si riempie gli occhi del paesaggio portuale di Mazara del Vallo che gli ricorda un quartiere di Tunisi, mangia cibo tunisino, ma il sapore dell’harissa e del brik, suscitatore della nostalgia, provocherà un effetto straniante (“D’ora in poi, mi dico, meglio non mangiare il cibo cui sono stato abituato: alla fine, ti lascia solo il sapore di ciò che non sei più” [49] ).
Ma c’è nel romanzo un sistema dell’immaginario tutto interno alla psicologia del personaggio principale, memorizzato, che entra in funzione come scenario alternativo a quello della quotidianità. Proprio nei momenti di maggiore difficoltà l’io narrante cerca nello scrigno dell’esperienza vissuta quelle immagini che meglio possano svolgere una funzione consolatoria. Pensa al padre che non vede da troppo tempo, augura mentalmente la buona notte alla sua famiglia, si sente più vicino ai suoi, ricorda le chiacchiere attorno a un tavolo, racconta a Wahid, il solitario, di suo padre e del peso della sua assenza, fino a recuperare l’episodio della conta in italiano fino a ‘diaci’, prima traccia sonora dell’Italia nella memoria infantile del protagonista.
Il ritorno temporaneo in Tunisia, tre settimane, si configura quindi come un rito di pacificazione e come forma di conoscenza. Solo dopo aver conosciuto un mondo diverso il personaggio narrante sarà pronto a conoscere il proprio mondo, ad accettarlo, senza sentirsi più soffocare a Tunisi e senza sentirsi straniero in Italia. In questa prospettiva assume un carattere fortemente metaforico l’episodio dell’ultimo incontro con il padre:
 
Avevo cercato di comunicargli ogni cosa dell’Italia. Avevo parlato di fame, di sonno, di solitudine, di razzismo e violenza, ma avevo dimenticato quel piccolo, insignificante particolare dei numeri contati in italiano fino a dieci, e della forza che mi avevano comunicato nei momenti difficili. Ebbi voglia di scendere dall’autobus, di correre indietro, di ripetere con lui: “Uno, due, tre, quattro, cinque…”. Gli avrei dimostrato che ora, finalmente, potevo pronunciare con facilità e scioltezza il numero dieci. Lui avrebbe sorriso, forse. Avrebbe detto: “Bene”.[50]
 
La lingua
Sul piano linguistico il testo di Immigrato presenta una tipologia che si ritrova in altri volumi della letteratura della migrazione. Tralasciando il problema del doppio scrittore-autore che secondo Gnisci ha comportato “una pesante e forzata normalizzazione linguistica” [51], ed accettando la nota editoriale che, in prima edizione, informa che il testo è stato “raccolto e trascritto con stile limpido da Mario Fortunato” [52], è necessario, per analizzare il linguaggio del volume, partire da una considerazione: il migrante non migra solo spazialmente, sociologicamente o culturalmente, ma anche linguisticamente.
Methnani scrive in italiano, la lingua del paese ospite, perché vuole che sia il pubblico italiano a leggerlo. In questo modo, attraverso la ricezione letteraria, non solo egli si sentirà meno straniero ma gli italiani stessi lo sentiranno più vicino, per il semplice fatto di aver adottato un codice di scrittura che mette in contatto l’autore tunisino al lettore italiano. Scrivere in italiano significa quindi realizzare una forma d’integrazione, o almeno di accoglienza, di disponibilità psicologica alla attenzione per l’alterità, individuale o soggettiva che sia.
In Immigrato il materiale lessicale impiegato risponde a due principi: quello della differenziazione dall’altro e quello della sua assimilazione, corrispondenti sul piano sociologico al processo di emarginazione e a quello dell’integrazione culturale.
Sul primo asse si colloca l’uso dei dialetti, delle lingue delle varie nazioni, dell’arabo, come strumento di isolamento. Sul secondo asse si colloca invece la proposta di una sorta di meticciato linguistico adatto per comunicare tra diversi.
Attraverso la lingua usata, nell’incrocio tra idioletto e socioletto, Methnani realizza una sorta di creolizzazione linguistica che è risultato o presupposto del processo di ibridazione sociale.
D’altronde la prima epifania dell’Italia suscitata dal padre nel giovane desideroso di partire è di tipo linguistico ( “A dir la verità, non sentii parlare proprio dell’Italia: sentii l’italiano” [53] ), dilatata dall’ascolto dei programmi televisivi e recuperata, alla conclusione della vicenda narrativa, dalla ‘buona notte’ con cui il padre saluta il figlio.
Ma non appena inizia il viaggio in Italia il migrante s’imbatte nella rete dei dialetti italiani, ulteriore fonte di isolamento e di deprivazione verbale. Per rompere questo muro gli immigrati adottano una sorta di lingua franca, mista di italiano nazionale, di dialetto, di lingua del paese d’origine, di arabo, che costituisce un tentativo di intermediazione, di familiarizzazione comunicazionale. Il protagonista si rende conto che il modo di parlare determina un meccanismo di riconoscimento e scopre che la conoscenza dell’italiano rappresenta più un ostacolo che un vantaggio perché rischia di allontanare l’accettazione sociale da parte dei pari:
 

Da quando ho capito che la mia discreta conoscenza dell’italiano, invece di facilitare le cose, le complica, ho preso a parlare come ci si aspetta parli un “vu’ cumprà”[54]; “ “Mila lire, accendini, mila lire”. Dico anch’io “mila”, invece di mille, perché ormai sono convinto che la gente si aspetti che un vu’ cumprà parli così. Così tutti i vu’ cumprà dicono “mila lire”. [55]

 
In una narrazione dallo ‘stile limpido e diretto’, garantito dalla trascrizione di Mario Fortunato, si individua l’adozione di un italiano parlato medio di stampo popolare ( fighetto, froci, gay, finocchio, scopare, un cazzo di niente, etc. ) a cui fa però riscontro l’inserimento, motivato da un desiderio di tenere viva l’immagine del paese d’origine anche attraverso la lingua, di parole arabe, di cui però è sempre data la spiegazione in italiano (Hsan, glabra, minaret, sarissa, bazar, gourbi, naseh, el fajaa, mibun, layla sa ida).
Insomma la babele linguistica non come icona della separatezza ma come luogo di incontro.
D’altronde il filosofo Popper sosteneva che se la torre di Babele non fosse esistita sarebbe stato necessario inventarla, per sottolineare il valore umanistico della differenza che, se ascoltata e fatta propria, è uno degli elementi di maggior arricchimento culturale dell’umanità.
La tradizione post-omerica racconta che Ulisse, una volta tornato dopo tante peripezie alla sua petrosa Itaca, ormai perdutamente colpito dal tarlo del viaggio come forma di conoscenza, riprese il mare per continuare la sua avventura gnoseologica.
Le opere della letteratura della migrazione trasformano l’odissea di chi ha vissuto l’esperienza migratoria in un percorso la cui meta è il riconoscimento di se stessi e degli altri.

Como citar: LUZI, Alfredo. "La letteratura dell’ (im)migrazione in Italia: genesi, temi, e un  esemplare: Immigrato di Fortunato/Methnani". In "Revista de Literatura Italiana",v. 3, n. 1, jan-abr, 2022.  Disponível em:


[1] Vedi GLISSANT. Édouard. Poetica del diverso. Roma: Meltemi, 1998.
[2] Vedi SORI, Ercole. L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda guerra mondiale. Bologna: Il Mulino, 1979; COLUCCI, Michele. Lavoro in movimento. L'emigrazione italiana in Europa 1945- 1957. Roma:  Donzelli, 2008; ROSOLI, Gianfausto. Un secolo di emigrazione italiana. Roma: Centro Studi Emigrazione, 1978.
[3] Vedi FOFI, Goffredo. L’immigrazione meridionale a Torino. Milano: Feltrinelli, 1975; GOTTARDI, Alessandro, LENZO, Fabio, WITSCHI, Kewjn. Le migrazioni Sud-Nord dal dopoguerra ad oggi. 2003. 
 [4] Vedi MESCHINI, Michela; CAROTENUTO, Carla ( orgs.). Scrittura, migrazione, identità in Italia: voci a confronto. Macerata: EUM, 2010; DIONISI, Maria Gabriella. "I due volti dell'esilio". In Quaderni di Thule, Atti del XXIV Convegno Internazionale di Americanistica. Perugia: Argo,2002, pp. 241-246.
[5] Vedi GNISCI, Armando e altri. La letteratura del mondo nel XXI secolo. Milano: Bruno Mondadori, 2010.
[6] Vedi PAGEAUX, Daniel-Henri. Le scritture di Hermes. Introduzione alla letteratura comparata. Palermo: Sellerio, 2010.
[7] Vedi RICOEUR, Paul. Tempo e racconto. Il tempo raccontato III. Milano: Jaca Book, 1998.
[8] CESERANI, Remo. Lo straniero. Bari: Laterza, 1998, p.7.
[9] Vedi LÉVI-STRAUSS, Claude. Tristi tropici. Milano: Il Saggiatore, 2008.
[10] Vedi  GLISSANT, Édouard. Poetica del diverso. Roma: Meltemi, 1998; HANNERZ, Ulf. La diversità culturale. Bari: Laterza, 2001; ANOLLI, Luigi.  La mente multiculturale. Bari: Laterza, 2006; ORTIZ, Fernando. Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero. Troina: Città Aperta, 2007; MENGOZZI, Chiara. Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione. Roma: Carocci, 2012.
[11] Vedi GNISCI, Armando. Creolizzare l’Europa: letteratura e migrazione. Roma: Meltemi, 2003; PONZANESI, Sandra. "Nuove tendenze nella critica della letteratura italiana della migrazione". In Riviste Europea di Studi Italiani, 26, 3.3.2011; PEZZAROSSA, Fulvio; ROSSINI, Ilaria (orgs.).  "Leggere il testo e il mondo". Vent'anni di scritture della migrazione in Italia. Bologna: CLUEB,  2011.
[12] Vedi GREZZI, Carla. "La letteratura africana d’immigrazione in lingua italiana: la mia patria è la letteratura". In Africa Italia. Due continenti si avvicinano. (S. Matteo e S.Bellucci orgs.). Sant’Arcangelo di Romagna: Fara Editore, 1999,  p.148.
[13] FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Immigrato. Milano: Bompiani, 2006, p.51.
[14] Idem.
[15]  Ibidem, pp. 51-52.
[16]  Ibidem, p.116.
[17] Vedi METHNANI, Salah. "Lontano dalla lingua madre". In Kumà/Poetiche, 3 gennaio 2002, p.1, www.disp.let.uniroma1.it
[18]  FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Op. cit., p.12.
19 Idem, p.14.
20 Ibidem.
[21] Ibidem, pp.25-26.
[22] Ibidem, pp.58-59.
[23] Ibidem,  p.88.
[24] Ibidem,  p.99.
[25] Ibidem,  p.32.
[26] Ibidem,  p.63.
[27] Ibidem,  p.74.
[28] Ibidem,  p.89.
[29] Ibidem,  p.100.
[30]  Ibidem, p.128.
[31] Ibidem,  p.52.
[32] Ibidem,  p.68.
[33] Ibidem, p.85.
[34] Ibidem, p.126.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem, p.54.
[37] Ibidem, p.51.
[38] Ibidem, p.71.
[39] Ibidem, p.99.
[40] Ibidem,  p.122.
[41] Ibidem,  p.42.
[42]  Ibidem, p.108.
[43] Ibidem,  p.127.
[44] Ibidem,  p.130.
[45] Ibidem,  p.127.
[46] Ibidem, p. 53.
[47]  Ibidem, p.101.
[48] Ibidem, p.18.
[49] Ibidem, p.30.
[50]  Ibidem, p.129.
[51] GNISCI, Armando. "Editino /doppiaggio". In Kùmà/Poetica 4, p.1, www.disp.let.uniroma1.it.
[52] FORTUNATO Mario; METHNANI, Salah. Op. cit., p.134.
[53]  Ibidem,  p.9.
[54] Ibidem,  p.58.
[55]  Ibidem,  p.114.