La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Le recondite lave: tra paesaggio e linguaggio, di Patricia Peterle

 


 

 

“1944: FAIER. Ha voluto che fosse scritto così, il contadino vecchio, sulla facciata della casa ricostruita dopo la guerra; che fosse fermato l’urlo com’era uscito dalla gola dell’incendiario: “faier” […]”.[1] Questo è l’incipit del famoso testo del 1954, uscito prima sul Popolo di Milano col titolo Gli inermi e poi ripubblicato nel volume Sull’Altopiano, quando diventerà appunto 1944: FAIER; un grido, cioè, che cerca di mimare e riprodurre il suono del termine tedesco feuer, il cui significato è incendio. Un grido quindi che è anche l’esplosione della violenza e delle atrocità umane sull’umano. In queste prime righe, l’eco del passato invade il presente, infatti “sulla facciata della casa ricostruita” viene messa un’iscrizione-cicatrice di quell’urlo il cui eco ancora si sente. È questo il “suono inarticolato, soprannaturale e bestiale” degli inermi che ormai appartengono alla terra, la nutrono da morti con i loro stessi corpi offesi. Un’esperienza questa i cui segni irrimarginabili penetrano nell’ossa – per ricordare il verso caproniano –, nelle acque dei ruscelli e nelle radici della terra.[2] Cioè non possono essere cancellati come è avvenuto con quella stessa scritta della facciata, come precisa Zanzotto in una nota all’edizione del 1995 di Sull’Altopiano: “Per una ristrutturazione dell’edificio avvenuta molti anni dopo, la scritta è entrata nel nulla”[3].
 
I suoni e gli odori, segni del terrore, si instaurano nel paesaggio (le fornaci, i prati calpestati, la neve insanguinata), anzi nei molteplici elementi che lo delineano e lo compongono, come si vedrà poi anche nel corso del laboratorio poetico zanzottiano. Un trauma che non si attenuerà mai come si leggerà poi nel saggio del 1963, Premesse all’abitazione, in cui l’esperienza percettiva e sensitiva di quei momenti non può che colpire e segnare il corpo stesso di colui che l’ha vissuta. La realtà anacronisticamente si presenta come delle schegge che pungono il presente. E così il primo lotto comprato per la costruzione della futura casa, che dava verso quegli stessi campi che avevano assorbito il sangue dell’amico Gino[4], veniva d’un tratto scartato, perché, come dice appunto Zanzotto, “Avrei dunque scorto, tra il mio lotto e le ombre secentesche dello sfondo, il vano immenso di quei campi ormai per sempre senza rifugio”. Come costruire una casa, che è comunque un luogo di protezione in un posto segnato dalla distruzione? Infatti, continua il poeta, “Là non avrei potuto costruire, capii che dovevo cambiare e quella sera tornai a casa come respinto da una brutta onda al punto di partenza”.[5] Diversamente da Gino, Zanzotto trova riparo sopra la sua Cal Santa: “la Cal Santa ci aveva protetti, le grandi foglie taglienti che amo da sempre mi avevano tolto alla mira diretta della morte e fatto un grembo in cui la fortuna sinistra era stata paralizzata”.[6] [7] Due termini in questa citazione diventano fondamentali: “grembo” e “paralizzata”, cioè la terra e, di conseguenza, la vegetazione si trasformano in un “grembo” protettivo, “paralizzando” l’incontro definitivo, quello con la morte. Le ferite storiche, dunque, si iscrivono qui in un paesaggio che è tutt’altro che passivo, anzi, data la sua valenza anacronistica, esso “ci guarda”, per ricordare un titolo di Georges Didi-Huberman[8], e “comunica”. Comunque sia, “la casa bisogna farla”, bisogna incominciarla pur avendo le ustioni e sapendo che ci saranno altre stazioni.
Costruire uno spazio, uno spazio-poetico, è anche questo trovare un possibile riparo. Come dirà Zanzotto in chiusura di un testo del ’66, “Torna il sospetto di una poesia […] che non vada verso nessun luogo e che non venga da nessun luogo perché essa è “il luogo”, la condizione, l’inizio”.[9] O ancora in un bellissimo testo del’49, Idea dell’autunno, precedente quindi all’esordio poetico, egli dice: “Tutto ci sfuggiva: la vita, la terra che si faceva troppo bella per non nascondere qualche orrore […] il mondo scendeva sempre più nel pozzo d’ombra degli inferi, e sembrava disperatamente gridare la sua bellezza condannata”.[10] Dietro il paesaggio (1951) è appunto l’inizio, dunque, di quel “mistico scrigno che mi avrebbe difeso da ogni odio degli uomini”[11], spazio-bozzolo, delicato e fragile, in cui la scrittura si presenta come secrezione-escrezione. O ancora, se si riprende un passaggio da Premesse all’abitazione, “O meglio autofilarsi in bozzolo, ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che tuttavia sarebbe di un nulla “infinitamente definito”“.[12] Questa necessità di riparo, di protezione, viene deflagrata dal dolore, dal sentirsi spaesato, dalla devastazione fisica ed esistenziale provocata dalla guerra e dalle sue conseguenze vissute in primo piano. Come Zanzotto dirà quasi vent’anni dopo la pubblicazione del primo libro, nella poesia “ci si trova non dico a scrivere, ma a “tracciare”, a scalfire il foglio, più che con la piena coscienza di quello che si sta facendo, con la sensazione di non poter sfuggire ad una necessità”.[13]
È forse dunque proprio il fatto che Dietro il paesaggio non guardi faccia a faccia la medusa bellica, a fare dell’evento storico in queste pagine un suo elemento inerente e costitutivo. La prima poesia di questa raccolta, in tal senso, è emblematica, se ricordiamo il distico finale: “viaggiai solo in un pugno, in un seme / di morte, colpito da un dio”. Ma non solo, l’immagine che la apre è altrettanto significativa, legata al campo semantico del fuoco attraverso il verbo “ardere”, già presente nel titolo. L’”ardere” del motore, oggetto della modernità – ma forse anche un’eco delle esplosioni e dell’odore di guerra –, atterrisce i fanciulli del terzo verso.
In modo analogo, lo sguardo prende le mosse da un viaggio in corriera, cioè il contatto con il fuori viene mediato da un mezzo, dai suoi vetri, da una finestra che appunto si apre verso il paesaggio. Lo spostamento della corriera è implicito (“aspettai solo nella lunga sosta”, si legge nel primo verso della quarta quartina) e la sosta a causa del motore danneggiato corrisponde ad un momento di solitudine e ad una discesa “nel fondo del mio viaggio”, un viaggio nel viaggio. Se è vero che il ritmo delle stagioni segna il tempo-ciclico in Dietro il paesaggio, è pur vero che questa poesia “inaugurale e “programmatica”“, come la definisce Dal Bianco, ha davvero una funzione che è quella di introdurre questo sguardo obliquo che contraddistingue la raccolta, la quale d’ora in poi seguirà un andamento stagionale, chiudendosi con Nella valle, il 31 di dicembre. Se in Arse il motore si intravvede il moto verso casa per “svolte di paesi”, per i diversi toponimi veri o fittizi, per tradizioni popolari e per una geografia del tutto particolare, in quest’ultima poesia del libro, si è ormai a casa: “Oltre la mia porta le ultime colline”. E qui è possibile sentire gli scricchiolii di porte e botole e l’accoglimento della valle viene rafforzato dal “caro pasto”. L’”abbandono del mondo” e i “monti devastati”[14] presenti nella poesia inaugurale di Dietro il paesaggio sono un’eco anche della parola “guerra”, che si fa presente nel secondo verso di Nella valle, ma che era già presente nel titolo di Notte di guerra, a tramontana, i cui versi si riferiscono ai rastrellamenti dell’agosto del 1944, o ancora in un titolo come Adunata, termine militare in un testo di profonda desolazione.
 
Adunata
 
Indugia ancora la parvenza
dei soldati selvaggi
sulle porte, ed ostili
insegne sui fortilizi
alza la sera, chiama piazze a raccolta.
 
Un arso astro distrusse questa terra
profonda in pozzi e tane
s’avventa l’ombra dell’estate
da vicoli e da altane
e dai rotti teatri.
 
Nel disegno dei pavimenti
nelle crepe delle caserme
nelle clausure delle palestre
un morbo splende,
il vetro seme del gelo traligna,
il vino e l’oro sui deschi appassisce.

Ma, gloria avara del mondo,
d’altre stagioni memoria deforme,
resta la selva.
 
Reunião

Hesita ainda o semblante
dos soldados selvagens
nas portas, e hostis
insígnias nos fortins
levanta-se a noite, convocando praças.

Um astro adusto destruiu essa terra
cheia de poços e tocas
se aventura a sombra estival
por ruelas e mirantes
e quebrados teatros.
 
No desenho dos pisos
as fendas dos quartéis
nas clausuras das academias
um morbo brilha,
o vidro germe do gelo se perde,
o vinho e o ouro nas mesas desbota.
 
Mas, glória avara do mundo,
de outras estações memória deforme,
resta a selva.
 
                           (Primeiras paisagens, 7Letras, 2021)

 

Como citar: PETERLE, Patricia. "Le recondite lave: tra paesaggio e linguaggio". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022.  Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240144

 



[1] ZANZOTTO, Andrea. “1944: FAIER”. In Le poesie e prose scelte. Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta (orgs.). Con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini. Milano: Modadori, 1999, p. 995. D’ora in poi PPS.
[2] “E anche se non ha più la forza di chiamare aiuto, Gino sta in agonia, perdendosi a fiotto a fiotto dentro la terra, dalle due ore senza termine di quel tramonto. Egli è là assorto nel verde profondissimo del prato della sua infanzia, non può ancora veramente credere che tutto quanto gli era caro e gli sta intorno sia così sordo e duro e inerte, che la sua terra gli stia suggendo, stia riprendendogli tutte le forze. E se anche non ci sono quelli che continuano a sparagli addosso, e che si divertono a lasciarlo invocare la mamma, anche se egli non grida più, la sua voce fa male in eterno agli orecchi, impedisce di respirare nella pace. (Ora, se si passa vicino alla sua casa, verso l’aperta campagna, dalla finestra s’intravede nell’ombra del suo studio da allora deserto quel lume a olio che arde davanti al suo ritratto: come palpita con umile inestinguibile ostinata domanda il tuo lume, Gino! E piogge e soli, e giorni e giorni di gelo e di arsura, e spazi immensi di silenzio si sono frapposti tra te e noi: quale selva a togliere al nostro sguardo…)”. In ZANZOTTO, Andrea. PPS, 1999, p. 998.
[3] ZANZOTTO, Andrea. PPS, 1999, p. 1703.
[4] Si legge in questo texto del 1963: “Alle diciassette e mezzo del 10 agosto era cominciato il rastrellamento e Gino aveva scelto la strada per ripararsi: su quel cinquantino i tedeschi lo avevano visto mentre correva per raggiungere il granoturco e buono e altissimo poco piì in giù, ed egli era subito crollato sotto i proiettili. Non lo avevano finito, non osavano avvicinarsi perché lo credevano armato; la sua voce era vissuta, sempre più debolmente, per oltre um'ora. Alcuni contadini, volevano soccorrerlo, ma i tedeschi sparavano a vista, dalla morsa in cui avevano chiuso tutto. Gino aveva perduto il suo sangue, non lo si era udito più [...]”. ZANZOTTO, Andrea. PPS, 1999, p. 1045.
[5] ZANZOTTO, Andrea. “Premesse all’abitazione”. In PPS, 1999, p. 1045.
[6] Idem.
[7] Come sottolinea Andrea Cortellessa: “Queste immagini segnano davvero a fuoco la memoria di Zanzotto: il quale vi alluderà, a volte cripticamente, ogni volta che la memoria traumatica della guerra tornerà, sempre più spesso, a visitarlo in futuro.”. CORTELLESSA, Andrea. Zanzotto: il canto della terra. Milano: Laterza, 2021, p. 82.
[8] DIDI-HUBERMAN, Georges. Ce que nous voyons, ce que qui nous regarde. Parigi: Minuit, 1992.
[9] ZANZOTTO, Andrea. “Alcune prospetttive sulla poesia oggi”. In PPS, 1999, p. 1142. A questo proposito è fondamentale la lettura del saggio di A. Cortellessa “Abitare Zanzotto”, in ZANZOTTO, Andrea. Premessa all’abitazione e altre prospezioni, Torino: nino aragno editore, 2021.
[10] ZANZOTTO, Andrea., “Idea dell’autunno”. In PPS, 1999, pp. 991-992.
[11] ZANZOTTO, Andrea., “Pagine sepolte”. In PPS, 1999, p. 1020. O nelle parole di Nicolò Scaffai “Nella sua prima raccolta, Dietro il paesaggio (1851), Zanzotto nascondeva un “io” minaccitao da nevrosi e scissioni dietro lo schermo di uma natura di platônica perfezione”. In Letteratura e ecologia . Firenze: Carocci Editore, p. 176.
[12] ZANZOTTO, Andrea. “Premesse all’abitazione”. In PPS, 1999, p. 1028.
[13] ZANZOTTO, Andrea. “Poesia?”. In PPS, 1999, p. 1200.
[14] A proposito di questa poesia e dei suoi legami con le letture hölderliane di Zanzotto si legge in Sara Bubola: “La modernità selvaggia “trema” però di fronte all’”agonia del fiume verso i moli ed i mari”, altra metafora (a mio avviso di ascendenza hölderliana) che descrive la Poesia come anelito all’assoluto. Ciò che questa strofe tematizza è, da un lato, il percorso verso il basso della modernità, e dall’altro, la resistenza opposta a questa caduta da parte della poesia, che con la sua pienezza, ovvero con la sua forza di fiume in piena, riesce ancora a contrastare il vuoto e la mancanza di senso del mondo. Le strofe successive di Arse il motore descrivono il viaggio del poeta nel mondo moderno, il suo passare attraverso i “neri tuoni precoci”, che sono sì i tuoni della natura, ma rappresentano anche i conflitti, i tuoni della storia (immagini che compaiono anche in Wie wenn am Feiertage), la sua lunga attesa, la discesa, il confronto con il freddo e con le ceneri”, Dietro il paesaggio, Forum, 2018, pp. 95-96.