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Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Andrea Zanzotto
Patricia Peterle
poesia contemporânea
em
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“1944: FAIER. Ha voluto che fosse scritto così, il
contadino vecchio, sulla facciata della casa ricostruita dopo la guerra; che
fosse fermato l’urlo com’era uscito dalla gola dell’incendiario: “faier” […]”.[1] Questo è l’incipit del
famoso testo del 1954, uscito prima sul Popolo di Milano col titolo Gli
inermi e poi ripubblicato nel volume Sull’Altopiano, quando
diventerà appunto 1944: FAIER; un grido, cioè, che cerca di mimare e
riprodurre il suono del termine tedesco feuer, il cui significato è
incendio. Un grido quindi che è anche l’esplosione della violenza e delle
atrocità umane sull’umano. In queste prime righe, l’eco del passato invade il
presente, infatti “sulla facciata della casa ricostruita” viene messa
un’iscrizione-cicatrice di quell’urlo il cui eco ancora si sente. È questo il “suono
inarticolato, soprannaturale e bestiale” degli inermi che ormai appartengono
alla terra, la nutrono da morti con i loro stessi corpi offesi. Un’esperienza
questa i cui segni irrimarginabili penetrano nell’ossa – per ricordare il verso
caproniano –, nelle acque dei ruscelli e nelle radici della terra.[2] Cioè non possono essere
cancellati come è avvenuto con quella stessa scritta della facciata, come
precisa Zanzotto in una nota all’edizione del 1995 di Sull’Altopiano: “Per
una ristrutturazione dell’edificio avvenuta molti anni dopo, la scritta è
entrata nel nulla”[3].
I suoni e gli odori, segni del terrore, si instaurano nel paesaggio (le
fornaci, i prati calpestati, la neve insanguinata), anzi nei molteplici
elementi che lo delineano e lo compongono, come si vedrà poi anche nel corso
del laboratorio poetico zanzottiano. Un trauma che non si attenuerà mai come si
leggerà poi nel saggio del 1963, Premesse all’abitazione, in cui l’esperienza
percettiva e sensitiva di quei momenti non può che colpire e segnare il corpo
stesso di colui che l’ha vissuta. La realtà anacronisticamente si presenta come
delle schegge che pungono il presente. E così il primo lotto comprato per la
costruzione della futura casa, che dava verso quegli stessi campi che avevano
assorbito il sangue dell’amico Gino[4], veniva d’un tratto scartato,
perché, come dice appunto Zanzotto, “Avrei dunque scorto, tra il mio lotto e le
ombre secentesche dello sfondo, il vano immenso di quei campi ormai per sempre
senza rifugio”. Come costruire una casa, che è comunque un luogo di protezione
in un posto segnato dalla distruzione? Infatti, continua il poeta, “Là non
avrei potuto costruire, capii che dovevo cambiare e quella sera tornai a casa
come respinto da una brutta onda al punto di partenza”.[5]
Diversamente da Gino, Zanzotto trova riparo sopra la sua Cal Santa: “la Cal
Santa ci aveva protetti, le grandi foglie taglienti che amo da sempre mi
avevano tolto alla mira diretta della morte e fatto un grembo in cui la fortuna
sinistra era stata paralizzata”.[6] [7] Due termini in questa
citazione diventano fondamentali: “grembo” e “paralizzata”, cioè la terra e, di
conseguenza, la vegetazione si trasformano in un “grembo” protettivo, “paralizzando”
l’incontro definitivo, quello con la morte. Le ferite storiche, dunque, si
iscrivono qui in un paesaggio che è tutt’altro che passivo, anzi, data la sua
valenza anacronistica, esso “ci guarda”, per ricordare un titolo di Georges
Didi-Huberman[8], e
“comunica”. Comunque sia, “la casa bisogna farla”, bisogna incominciarla pur avendo
le ustioni e sapendo che ci saranno altre stazioni.
Costruire uno spazio, uno spazio-poetico, è anche questo trovare un
possibile riparo. Come dirà Zanzotto in chiusura di un testo del ’66, “Torna il
sospetto di una poesia […] che non vada verso nessun luogo e che non venga da
nessun luogo perché essa è “il luogo”, la condizione, l’inizio”.[9] O ancora in un bellissimo
testo del’49, Idea dell’autunno, precedente quindi all’esordio
poetico, egli dice: “Tutto ci sfuggiva: la vita, la terra che si faceva troppo
bella per non nascondere qualche orrore […] il mondo scendeva sempre più nel
pozzo d’ombra degli inferi, e sembrava disperatamente gridare la sua bellezza
condannata”.[10] Dietro
il paesaggio (1951) è appunto l’inizio, dunque, di quel “mistico scrigno
che mi avrebbe difeso da ogni odio degli uomini”[11], spazio-bozzolo, delicato
e fragile, in cui la scrittura si presenta come secrezione-escrezione. O ancora,
se si riprende un passaggio da Premesse all’abitazione, “O meglio
autofilarsi in bozzolo, ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al
centro, che tuttavia sarebbe di un nulla “infinitamente definito”“.[12] Questa necessità di
riparo, di protezione, viene deflagrata dal dolore, dal sentirsi spaesato, dalla
devastazione fisica ed esistenziale provocata dalla guerra e dalle sue
conseguenze vissute in primo piano. Come Zanzotto dirà quasi vent’anni dopo la
pubblicazione del primo libro, nella poesia “ci si trova non dico a scrivere,
ma a “tracciare”, a scalfire il foglio, più che con la piena coscienza di
quello che si sta facendo, con la sensazione di non poter sfuggire ad una
necessità”.[13]
È forse dunque proprio il fatto che Dietro il paesaggio non guardi
faccia a faccia la medusa bellica, a fare dell’evento storico in queste pagine
un suo elemento inerente e costitutivo. La prima poesia di questa raccolta, in
tal senso, è emblematica, se ricordiamo il distico finale: “viaggiai solo in un
pugno, in un seme / di morte, colpito da un dio”. Ma non solo, l’immagine che la
apre è altrettanto significativa, legata al campo semantico del fuoco
attraverso il verbo “ardere”, già presente nel titolo. L’”ardere” del motore,
oggetto della modernità – ma forse anche un’eco delle esplosioni e dell’odore
di guerra –, atterrisce i fanciulli del terzo verso.
In modo analogo, lo sguardo prende le mosse da un viaggio in corriera, cioè
il contatto con il fuori viene mediato da un mezzo, dai suoi vetri, da una
finestra che appunto si apre verso il paesaggio. Lo spostamento della corriera
è implicito (“aspettai solo nella lunga sosta”, si legge nel primo verso della
quarta quartina) e la sosta a causa del motore danneggiato corrisponde ad un
momento di solitudine e ad una discesa “nel fondo del mio viaggio”, un viaggio
nel viaggio. Se è vero che il ritmo delle stagioni segna il tempo-ciclico in Dietro
il paesaggio, è pur vero che questa poesia “inaugurale e “programmatica”“,
come la definisce Dal Bianco, ha davvero una funzione che è quella di
introdurre questo sguardo obliquo che contraddistingue la raccolta, la quale
d’ora in poi seguirà un andamento stagionale, chiudendosi con Nella valle,
il 31 di dicembre. Se in Arse il motore si intravvede il moto verso casa
per “svolte di paesi”, per i diversi toponimi veri o fittizi, per tradizioni
popolari e per una geografia del tutto particolare, in quest’ultima poesia del
libro, si è ormai a casa: “Oltre la mia porta le ultime colline”. E qui è
possibile sentire gli scricchiolii di porte e botole e l’accoglimento della
valle viene rafforzato dal “caro pasto”. L’”abbandono del mondo” e i “monti
devastati”[14]
presenti nella poesia inaugurale di Dietro il paesaggio sono un’eco anche
della parola “guerra”, che si fa presente nel secondo verso di Nella valle,
ma che era già presente nel titolo di Notte di guerra, a tramontana, i
cui versi si riferiscono ai rastrellamenti dell’agosto del 1944, o ancora in un
titolo come Adunata, termine militare in un testo di profonda desolazione.
Adunata
Indugia ancora la parvenza
dei soldati selvaggi
sulle porte, ed ostili
insegne sui fortilizi
alza la sera, chiama piazze a raccolta.
Un arso astro distrusse questa terra
profonda in pozzi e tane
s’avventa l’ombra dell’estate
da vicoli e da altane
e dai rotti teatri.
Nel disegno dei pavimenti
nelle crepe delle caserme
nelle clausure delle palestre
un morbo splende,
il vino e l’oro sui deschi appassisce.
Ma, gloria avara del mondo,
d’altre stagioni memoria deforme,
resta la selva.
Reunião
Hesita ainda o semblante
dos soldados selvagens
nas portas, e hostis
insígnias nos fortins
levanta-se a noite, convocando praças.
Um astro adusto destruiu essa terra
cheia de poços e tocas
se aventura a sombra estival
por ruelas e mirantes
e quebrados teatros.
No desenho dos pisos
as fendas dos quartéis
nas clausuras das academias
um morbo brilha,
o vidro germe do gelo se perde,
o vinho e o ouro nas mesas desbota.
Mas, glória avara do mundo,
de outras estações memória deforme,
resta a selva.
Como citar: PETERLE, Patricia. " Le recondite lave: tra paesaggio e linguaggio". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240144
[1] ZANZOTTO, Andrea. “1944: FAIER”. In Le poesie e prose scelte. Stefano Dal Bianco
e Gian Mario Villalta (orgs.). Con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini. Milano: Modadori, 1999, p. 995. D’ora in poi PPS.
[2] “E anche se
non ha più la forza di chiamare aiuto, Gino sta in agonia, perdendosi a fiotto
a fiotto dentro la terra, dalle due ore senza termine di quel tramonto. Egli è
là assorto nel verde profondissimo del prato della sua infanzia, non può ancora
veramente credere che tutto quanto gli era caro e gli sta intorno sia così
sordo e duro e inerte, che la sua terra gli stia suggendo, stia riprendendogli
tutte le forze. E se anche non ci sono quelli che continuano a sparagli
addosso, e che si divertono a lasciarlo invocare la mamma, anche se egli non
grida più, la sua voce fa male in eterno agli orecchi, impedisce di respirare
nella pace. (Ora, se si passa vicino alla sua casa, verso l’aperta campagna,
dalla finestra s’intravede nell’ombra del suo studio da allora deserto quel
lume a olio che arde davanti al suo ritratto: come palpita con umile
inestinguibile ostinata domanda il tuo lume, Gino! E piogge e soli, e giorni e
giorni di gelo e di arsura, e spazi immensi di silenzio si sono frapposti tra
te e noi: quale selva a togliere al nostro sguardo…)”. In ZANZOTTO, Andrea. PPS,
1999, p. 998.
[3] ZANZOTTO, Andrea. PPS, 1999,
p. 1703.
[4] Si legge in questo texto del 1963:
“Alle diciassette e mezzo del 10 agosto era cominciato il rastrellamento e Gino
aveva scelto la strada per ripararsi: su quel cinquantino i tedeschi lo avevano
visto mentre correva per raggiungere il granoturco e buono e altissimo poco piì
in giù, ed egli era subito crollato sotto i proiettili. Non lo avevano finito,
non osavano avvicinarsi perché lo credevano armato; la sua voce era vissuta,
sempre più debolmente, per oltre um'ora. Alcuni contadini, volevano
soccorrerlo, ma i tedeschi sparavano a vista, dalla morsa in cui avevano chiuso
tutto. Gino aveva perduto il suo sangue, non lo si era udito più [...]”. ZANZOTTO, Andrea. PPS, 1999, p. 1045.
[6] Idem.
[7] Come
sottolinea Andrea Cortellessa: “Queste immagini segnano davvero a fuoco la
memoria di Zanzotto: il quale vi alluderà, a volte cripticamente, ogni volta
che la memoria traumatica della guerra tornerà, sempre più spesso, a visitarlo
in futuro.”. CORTELLESSA, Andrea. Zanzotto: il canto della terra. Milano: Laterza, 2021, p.
82.
[8] DIDI-HUBERMAN, Georges. Ce que nous voyons, ce que qui nous regarde. Parigi: Minuit, 1992.
[9] ZANZOTTO, Andrea. “Alcune prospetttive sulla poesia oggi”. In PPS, 1999, p.
1142. A questo proposito è fondamentale
la lettura del saggio di A. Cortellessa “Abitare Zanzotto”, in ZANZOTTO, Andrea. Premessa
all’abitazione e altre prospezioni, Torino: nino aragno editore, 2021.
[10] ZANZOTTO, Andrea., “Idea dell’autunno”. In PPS, 1999, pp. 991-992.
[11] ZANZOTTO, Andrea., “Pagine sepolte”. In PPS,
1999, p. 1020. O nelle parole di Nicolò Scaffai “Nella sua prima raccolta, Dietro
il paesaggio (1851), Zanzotto nascondeva un “io” minaccitao da nevrosi e
scissioni dietro lo schermo di uma natura di platônica perfezione”. In Letteratura
e ecologia . Firenze: Carocci Editore, p. 176.
[12] ZANZOTTO, Andrea. “Premesse
all’abitazione”. In PPS, 1999, p. 1028.
[13] ZANZOTTO, Andrea. “Poesia?”. In PPS,
1999, p. 1200.
[14] A proposito di
questa poesia e dei suoi legami con le letture hölderliane di Zanzotto si legge
in Sara Bubola: “La modernità selvaggia “trema” però di fronte all’”agonia del
fiume verso i moli ed i mari”, altra metafora (a mio avviso di ascendenza
hölderliana) che descrive la Poesia come anelito all’assoluto. Ciò che questa
strofe tematizza è, da un lato, il percorso verso il basso della modernità, e
dall’altro, la resistenza opposta a questa caduta da parte della poesia, che
con la sua pienezza, ovvero con la sua forza di fiume in piena, riesce ancora a
contrastare il vuoto e la mancanza di senso del mondo. Le strofe successive di Arse
il motore descrivono il viaggio del poeta nel mondo moderno, il suo passare
attraverso i “neri tuoni precoci”, che sono sì i tuoni della natura, ma
rappresentano anche i conflitti, i tuoni della storia (immagini che compaiono
anche in Wie wenn am Feiertage), la sua lunga attesa, la discesa, il
confronto con il freddo e con le ceneri”, Dietro il paesaggio, Forum,
2018, pp. 95-96.
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