La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

Riflessioni sull’evoluzione e statuto della letteratura postcoloniale italiana in relazione al caso di Timira. Romanzo meticcio, di Fabiano Gritti

 

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In ben pochi campi di studio è presente il tema del rapporto tra periferia e centro come nel caso degli studi di letteratura postcoloniale, dove non è certo un’esagerazione affermare che tali dinamiche ne costituiscano l’essenza stessa. Nel presente articolo proponiamo una riflessione sullo statuto di questo campo di studio con riferimento esclusivo alla situazione italiana. In particolare ci si rifarà a Timira: romanzo meticcio[1] come esempio recente di romanzo che pur richiamandosi esplicitamente fin dal titolo alla categorizzazione postcoloniale allo stesso tempo quasi provocatoriamente pare negarne le più evidenti caratteristiche, e infatti da più parti è stata messa in discussione l’appartenenza del romanzo a questa categoria. Innanzitutto l’ispiratrice stessa del romanzo e principale protagonista, Isabella Marincola che si farà chiamare Timira dopo il trasferimento dall’Italia alla Somalia, pur avendo fatto parte del collettivo di tre scrittori e avendo anche scritto direttamente alcuni capitoli non compare tra gli autori in copertina. Appaiono invece due autori dei quali il primo e più noto è un italiano, uno scrittore del collettivo Wu ming, Wu Ming 2 alias Giovanni Cattabriga, che etnicamente e culturalmente non ha avuto direttamente a che fare con le vicende dell’emigrazione somala in Italia e il secondo è Antar Mohamed, il figlio di Timira-Isabella Marincola, che essendo un immigrato di seconda generazione per alcuni studiosi non potrebbe essere classificato come autore postcoloniale[2]. La stessa Timira essendo cresciuta in Italia potrebbe essere considerata una emigrata somala di seconda generazione, quindi secondo questa logica non potrebbe essere considerata autrice di letteratura postcoloniale, come vedremo. Inoltre Timira pur essendo di origine somala non padroneggiò pienamente altra lingua che l’italiano, e anche se ciò non vale per il figlio non è comunque presente nel testo alcuna traccia della lingua somala, come invece accade in altri testi di letteratura postcoloniale. Linguisticamente il romanzo non presenta alcuna difficoltà, nessuna opacità, non ci sono vocaboli in somalo e neppure slittamenti semantici come invece accade per altri scritti postcoloniali. I due autori somali sono e si sentono culturalmente italiani, come tali vorrebbero essere accettati. Viene però mantenuto il carattere opposizionale tipico della letteratura postcoloniale, seppure giochi essenzialmente sul piano culturale piuttosto che su quello linguistico. Nonostante queste riserve siamo convinti che il modello del romanzo Timira potrebbe essere un utile esempio ispiratore per una più allargata definizione del campo della letteratura postcoloniale.
La rinnovata attenzione che è stata riservata alla letteratura postcoloniale nell’ultimo ventennio, pur rappresentando un indubbio progresso rispetto al passato, ancora non può colmare le enormi lacune pregresse. Lacune che sono anche state la causa di una perdurante incertezza terminologica che riguarda addirittura la denominazione dello stesso campo di studi. Per questa ragione prima di considerare nello specifico il romanzo, troviamo sia necessario ricapitolare seppure succintamente la problematica, con una necessaria premessa al nostro discorso.
Bisogna innanzitutto considerare che ancora oggi diversi studiosi, anche italiani, di questo campo di ricerca, considerano il termine letteratura migrante e letteratura postcoloniale praticamente come sinonimi. E’ chiaro che non si tratta del nostro caso, che invece vorrebbe promuovere la particolarità delle scritture postcoloniali, seppure ampliandone il raggio d’azione. La perdurante indeterminatezza terminologica di cui si diceva, nella definizione dello stesso campo di studi, porta ad oscillazioni tra la fortunata definizione di letteratura migrante a quella di letteratura: della migrazione, interculturale, translinguale, italofona, italoafricana, minore, ibrida, creola, meticcia, eccentrica, nomade e varie altre[3]. E’ consistente il numero di studiosi che riprende queste definizioni a seconda dell’uso fatto nei paesi in cui essi si sono trovati ad operare o ai quali devono la loro formazione scientifica. Va da sé che tali definizioni riprendono la terminologia usata dalla critica letteraria di paesi che ebbero una ben più vasta e duratura esperienza del regime coloniale dell’Italia, e di conseguenza anche il fenomeno del postcolonialismo ebbe maggiore consistenza e impatto sulla società. In questa sorta di anarchia terminologica si potrebbe avanzare l’ipotesi che persino nel campo degli studi postcoloniali si sia verificata una sorta di “colonialismo” da parte di alcune letterature che si autodefiniscono maggiori, come la letteratura inglese e francese, che ha finito per provocare errori di prospettiva o semplificazioni inaccettabili di un panorama letterario che è invece estremamente variegato. Troviamo molto più condivisibile, e sostanzialmente molto più corretta, la posizione di coloro che hanno apertamente auspicato la decolonizzazione degli stessi studi di letteratura postcoloniale per far emergere le unicità e peculiarità dei diversi contesti postcoloniali, come quello italiano appunto. E poi ciò di conseguenza vale anche per le particolarità dei contesti postcoloniali di altri paesi europei con passato coloniale come Spagna, Portogallo, Olanda, Germania, Belgio. Per esempio il prestigio dell’esperienza degli studi francesi ha portato diversi studiosi italiani ad adottare l’uso del termine di italofonia chiaramente sorto dal calco con francofonie, che applicato al contesto coloniale italiano è una chiara forzatura. Per le ex colonie italiane non abbiamo una istituzione paragonabile alla francofonia, dove gli immigrati dalle quali difficilmente potevano aver avuto un rapporto con la lingua e la cultura della nazione dominante come è capitato nei territori coloniali francesi. Non è un caso che in Italia dopo la fine della dominazione coloniale non si verificarono affatto i trasferimenti di popolazione che invece avvennero dalle colonie francesi o inglesi verso il territorio metropolitano.
Come si diceva, la letteratura migrante in Italia è nata molto più tardi che in altri paesi colonizzatori, come è ben noto risale solo agli inizi degli anni Novanta, e a quel tempo non era ancora in uso da parte della critica letteraria il termine di letteratura postcoloniale, sebbene ovviamente ne esistesse il concetto[4]. Fu solo successivamente agli anni Novanta che cominciarono a comparire nella letteratura migrante opere di più rilevante spessore letterario rispetto alla precedente preponderante proliferazione di memorie, biografie. Il termine di letteratura postcoloniale esordisce nelle pubblicazioni scientifiche in Italia solo nel 2004 in un numero monografico dei Quaderni del ’900 curato da Tiziana Morosetti e dedicato appunto alla “Letteratura postcoloniale italiana”, con il significativo sottotitolo: “Dalla letteratura d’immigrazione all’incontro con l’altro”.
Siamo d’accordo con quanti preferiscono usare il termine di letteratura postcoloniale solo in senso stretto, per indicare una categoria particolare della letteratura migrante, e cioè le opere che si occupano di tematiche inerenti al rapporto tra l’Italia e i suoi antichi possedimenti coloniali e alla persistenza nella società italiana degli effetti del colonialismo. E’ quest’ultima la ragione della rilevanza e dell’attualità di tali studi, più che per una questione meramente numerica, visto che statisticamente gli immigrati dalle ex colonie in Italia, a parte gli Albanesi, rappresentano una percentuale poco significativa rispetto alla totalità degli immigrati[5]. Suscita però perplessità l’idea che a tali temi possano dedicarsi solo scrittori appartenenti all’etnia proveniente dai territori delle antiche colonie italiane, e questo sarà la principale questione sulla quale il presente articolo concentrerà la sua attenzione.
Una questione significativa, ma spesso messa in secondo piano, per la piena comprensione del significato del termine “postcoloniale” è il valore del prefisso “post”, che non è da intendersi tanto in senso temporale, cioè la letteratura dell’epoca del colonialismo e successiva alla fine dell’occupazione coloniale, ma piuttosto si riferisce agli effetti del colonialismo sulla società, sulla cultura italiana. Effetti sui quali non c’è mai stata in Italia una vera e approfondita riflessione. E non c’è stata perché, come si diceva, non si è verificata una rilevante migrazione in Italia dalle colonie subito dopo la conclusione della dominazione coloniale. Come scriveva Ponzanesi “il momento postcoloniale è stato come dire sospeso e rimandato”[6]. Quasi parallelamente alla crescita dei flussi migratori, che cominciarono a farsi sempre più significativi verso la metà degli anni Ottanta, nella società divenne sempre più urgente il dibattito sulla “responsabilità sociale e politica verso i paesi in via di sviluppo”, e poi anche sulle “dirette responsabilità coloniali” che hanno contribuito all’aggravamento delle condizioni socio-economiche, all’impoverimento delle regioni colonizzate che ha portato successivamente alla necessità dell’emigrazione. La letteratura postcoloniale quindi risponde ad esigenze e problematiche non del tutto sovrapponibili a quelle della letteratura della migrazione o della trasmigrazione, seppure sia inevitabile che frequenti sovrapposizioni e contaminazioni si verifichino[7]. Nonostante queste similarità, sempre rifacendomi a Ponzanesi, siamo convinti che sia “importante mantenere la specificità politica e culturale del discorso postcoloniale in modo da non perdere sia l’elemento cronologico del comune passato coloniale, sia l’aspetto epistemologico della reinterpretazione delle categorie di pensiero occidentale e della decostruzione delle relazioni di potere tra periferia e centro”[8].
Sempre nello stesso studio Ponzanesi, trattando delle peculiarità della letteratura postcoloniale, espone le particolarità delle opere di Maria Abbebù Viarengo, di cui la studiosa si è ampiamente occupata in più pubblicazioni, come caso più estremo ed esemplare della tendenza alla creolizzazione del linguaggio letterario, che rispetto alla scrittura di Timira si trova praticamente all’estremo opposto dello spettro delle diverse possibilità. Allo stesso modo anche la concezione dell’autorialità è assai lontana dal caso di Timira e del suo particolare collettivo di autori, che secondo questa concezione non potrebbe essere legittimamente compreso nella categoria della letteratura postcoloniale.

Anche Maria Abbebù Viarengo, come Timira, è figlia di un soldato italiano coloniale e di una donna delle popolazioni locali, stavolta in Etiopia. Anche lei venne portata dal padre in Italia senza la madre ed ebbe un’educazione rigorosamente italiana, ma qui i parallelismi finiscono poiché lei, a differenza di Timira, riuscì a recuperare pienamente in età adulta la coscienza della sua identità culturale etiope, senza comunque rifiutare la sua identità italiana. La sua opera è quindi un tentativo di giungere ad una duplicità, alla coesistenza di due culture, al punto da decidere per l’uso di entrambe le lingue. Anzi per la precisione la sua parte italiana sarebbe specificamente piemontese, dunque nei suoi testi compaiono parole in dialetto piemontese e in oromo, la lingua della tribù della madre. L’italiano standard amalgama queste due parti, per garantire una certa leggibilità, che rimane però inevitabilmente compromessa. Ne risulta “un’opacità per il lettore non oromo/non piemontese” che sarebbe voluta perché mette il testo “fuori dai rischi di appropriazione sia da parte di una cultura che dall’altra, marcandolo come radicalmente ‘diverso’. Questa opacità ha una doppia funzione sovversiva: non mira soltanto a suggerire un legame specifico con un passato culturale più o meno ‘autentico’, prevenendo l’adozione ideologica di una forma statica di insider e outsider, tra parlanti di lingue autoctone e gli altri, mettendo in discussione il credo del lettore nel valore della chiarezza”[9].
Di questa tipologia di operazioni letterarie è possibile condividere il fine ideale, pure se con diverse perplessità. Si tratta di radicalizzazioni delle nozioni di meticciato e di pluralità che per Ponzanesi[10] costruiscono “un discorso soggettivo a cavallo tra passato e presente, tra mondi vicini e lontani, tra autorità e irriverenza” e che inoltre, e forse questo è il punto più rilevante, danno allo scrittore un potente strumento per scardinare “sia le chiusure imposte dall’egemonia anglofona, esprimendo una specificità Afro-italiana altra, che il panorama presumibilmente omogeneo della letteratura italiana [...]”[11].
Il vantaggio di questa impostazione è quello evidente di far emergere “letteratura postcoloniali marginali, minori e ibride”, ma ha anche un costo. Innanzitutto abbiamo l’ovvia attenuazione del fine sovversivo e opposizionale di questa letteratura già per eventuali scrittori di seconda generazione, sempre che si possa parlare di seconda generazione in questo caso. Ci si potrebbe chiedere se sia ancora possibile parlare di “identità ibrida e multiculturale” negli scrittori di seconda generazione.
C’è poi anche la questione del conflitto con le pratiche editoriali che richiedono interventi sul testo per eventuali adattamenti, correzioni, che sono incompatibili con questa modalità di scrittura. A riprova di ciò abbiamo la stessa vicenda di Maria Abbebù Viarengo, che si trovò a scontrarsi duramente con le logiche e le esigenze del mercato editoriale, al punto da decidere di non pubblicare più per conservare la sua autenticità. Un’intransigenza che porta al silenzio di una voce importante della letteratura postcoloniale.
E’ condivisibile il discorso della Ponzanesi, finalizzato alla ricerca e alla esaltazione della specificità della letteratura postcoloniale italiana, quale passo fondamentale per il riconoscimento anche degli originali apporti che questa potrebbe dare alla letteratura e alla cultura italiana in generale. Ci si potrebbe però chiedere se per la via indicata in questo specifico esempio il prezzo da pagare non sia troppo alto, avendo come effetto ultimo il mantenimento della marginalizzazione che ancora caratterizza questo fenomeno letterario. Si potrebbe esprimere il ragionevole dubbio che questa non possa essere la strada maestra per rendere la letteratura postcoloniale davvero significativa per la società italiana, ma soprattutto non dovrebbe essere la sola strada possibile, escludendo altre possibilità con un canone troppo rigidamente definito. In contrapposizione a questa prospettiva Timira invece appare un esempio di letteratura postcoloniale molto più ampio, nonostante le contestazioni di cui il romanzo è stato più volte oggetto, a cominciare dalla questione dell’autorialità. Infatti anche per la definizione della tipologia di autori ammessi alla categoria della letteratura postcoloniale si è cercato da più parti di definire un modello legittimo, con risultati che spesso paiono piuttosto opinabili.
Se è chiaro che possono essere definiti postcoloniali autori provenienti dalle colonie e che scrivono in una lingua che non è la loro lingua madre, non c’è completa unanimità tra gli studiosi riguardo ad autori provenienti da famiglie miste oppure da famiglie italiane che però erano presenti nelle colonie da più di una generazione, oppure da autori meticci che si sono trasferiti in Italia prima di apprendere la lingua della terra in cui nacquero. Un ulteriore problema pongono poi gli autori della seconda generazione, per i quali secondo alcuni non converrebbe l’etichetta del postcolonialismo, e ciò vale per studiosi come Armando Gnisci, che tanto ha scritto su decolonizzazione, meticciato, creolismo[12]. In questo caso viene considerato opportuno indicare questi autori come semplicemente appartenenti alla letteratura italiana in generale. Ancora più perplessità destano i romanzi di ambientazione coloniale scritti da autori italiani senza legami etnici con le colonie o che mai ci vissero. Gli esempi sono numerosi, da quelli più famosi di Ennio Flaiano con Tempo di uccidere (1947), Mario Tobino con Il deserto della Libia di (1952), Erminia dell’Oro con Asmara addio (1988) e L’abbandono (1991), fino ai romanzi usciti nel duemila dei quali qui citeremo solo alcuni: Mauro Curradi: Cera e oro (2002), Davide Longo: Un mattino a Irgalem (2001), Luciano Marrocu: Debrà Libanòs (2002), Carlo Lucarelli: L’ottava vibrazione (2008), Enrico Brizzi: L’inattesa piega degli eventi (2008).
Con Timira troviamo allo stesso tempo gli ultimi casi che abbiamo detto, e che sono i più controversi. La protagonista principale è infatti una meticcia, figlia di un soldato dell’esercito coloniale italiano e di una somala, che al ritorno in Italia decise di prendere con sé la figlia e il fratello, lasciando però la compagna somala per ricongiungersi alla famiglia in Italia, dove l’aspettavano una moglie e una figlia legittima. I due figli crebbero in Italia, conoscevano solo poche parole in somalo, quindi linguisticamente e culturalmente erano più italiani che somali.
Il primo problema è che la protagonista seppure partecipò alla stesura di alcune parti del romanzo, del quale non ebbe la possibilità di vedere la conclusione per la morte prematura, non è tra gli autori del libro. E questo nonostante il suo nome somalo sia nel titolo e la sua foto da giovane campeggi sulla copertina. La giustificazione per questa esclusione non ha soddisfatto alcuni critici, che l’hanno considerata assai debole, come nel caso di Caterina Romeo, che giudica questa omissione una vera e propria censura, espressione di “problematiche delle relazioni di potere nell’autorialità collaborativa, particolarmente […] quando un co-autore è uno scrittore famoso.”[13]
La presenza nella coppia di autori di un italiano che non ha avuto un’esperienza diretta della vita in una colonia e che è un autore affermato, a fianco di un autore dal nome straniero, del tutto sconosciuto, richiama inevitabilmente le prime prove editoriali della letteratura della migrazione nei primi anni Novanta. Potrebbe sembrare un’operazione di retroguardia, quindi il ritorno ad un’epoca in cui l’autore straniero non essendo in grado, o non essendo considerato in grado, di presentare adeguatamente ai lettori italiani la propria vicenda biografica necessitava del lavoro di uno scrittore italiano madrelingua, che ne diventa non solo l’editore ma anche la voce. Il risultato è un testo certamente più appetibile al lettore medio italiano ma a costo di una sostanziale mutilazione delle particolarità espressive della parte non italiana. Si tratta però, come si diceva, di una fase ormai largamente superata, gli autori postcoloniali sono sempre più in grado di padroneggiare l’uso letterario della lingua italiana al punto da riuscire a trovare abili e significative sintesi tra la lingua italiana e quella della terra d’origine. E in effetti il romanzo all’inizio era stato pensato proprio in questo modo, l’unico autore sarebbe dovuto essere Cattabriga, che progettava di rielaborare le interviste da lui condotte e registrate con Timira tra il 2003 e il 2008. Lo scrittore si rese conto che imponendosi come unico autore avrebbe inevitabilmente finito per tradire lo spirito dell’intera operazione poiché, come scrisse, si rese conto di come stesse “lastricando di buone intenzioni la via dell’inferno, convinto di fare il bene e l’interesse d’entrambi, sono venuto alle tue coste come un europeo d’altri tempi, per trasformare le tue terre nella mia colonia”[14]. A questo punto diventava quasi d’obbligo il passaggio al modello autoriale del collettivo di scrittori, che inizialmente doveva comprendere Isabella, ma che dopo la sua improvvisa morte si allargò al figlio Antar Mohamed. In questo modo, e in questo siamo d’accordo con Laura Restuccia[15], abbiamo con Timira una sintesi tra il modello autoriale del romanzo postcoloniale con autore di seconda generazione e il romanzo di tema postcoloniale di autori che non hanno sperimentato in prima persona le vicende di cui si occupano, dei Flaiano, Curradi, Tobino ecc.
Vedremo alcune caratteristiche principali del romanzo Timira, cercando di cogliere almeno alcune delle sue peculiarità, esemplari per le dinamiche del rapporto tra centro e periferie. Lo scontro e l’incontro tra periferia e centro avvengono in diversi modi nelle vicende narrate, innumerevoli sono i cortocircuiti, scontri e contrapposizioni, avvicinamenti e allontanamenti tra periferia e centro, rifiuti e tentativi (in genere frustrati) di sintesi.
La protagonista è figlia di un soldato coloniale italiano in Somalia e di una donna del luogo. Finita la guerra in genere i soldati italiani tornavano in patria senza prendere con loro le donne somale, e i figli venivano lasciati in orfanotrofio, nella stragrande maggioranza dei casi. Nel nostro caso il padre decise di riconoscere i due figli, Isabella (Timira è il nome somalo adottato molto dopo, quando la protagonista si sposò in Somalia con un somalo ed ebbe il suo unico figlio) e Giorgio, e di portarli in Italia per educarli come italiani. Era stato loro vietato imparare il somalo dalla madre. In Italia però il padre aveva anche una moglie legale e una figlia, che non accettarono mai veramente i due bimbi come parte della famiglia. Isabella crescendo si rese conto della sua diversità dagli altri italiani solo dalle reazioni per il colore della pelle. Non fu facile per Isabella rendersi indipendente dalla famiglia, nei primi anni della maturità la sua vicenda diventa trasversale rispetto alla società italiana degli anni cinquanta e sessanta, non è più solo la vicenda di una donna meticcia in una società refrattaria al diverso ma è anche la sua è anche la storia di tutte le donne in cerca di emancipazione in una società ancora patriarcale, in cui le possibilità di lavoro erano ancora assai limitate. Rimase sola anche perché il fratello Giorgio morì combattendo come partigiano. Anche questo è un ulteriore corto circuito tra periferia e centro: il figlio del regime coloniale lotta per la nazione colonizzatrice quando questa era ridotta in stato di sudditanza, quasi coloniale, da un invasore straniero. Bisogna anche dire che se pure il fratello esce di scena molto presto la sua figura rimane comunque presente in tutto il romanzo. Anzi in verità era la motivazione prima che ha portato alla nascita del romanzo, e la sua vicenda rappresenta la tragicità della ricerca di un’appartenenza spinta fino all’estremo sacrificio[16].
Timira non si piegò mai al compromesso, fiera della sua coscienza di donna e di italiana non accettò mai il pregiudizio che la voleva disponibile alla prostituzione o al lavoro degradante come serva. Si guadagnò da vivere come modella per artisti e come attrice, apparendo in film iconici del dopoguerra come Riso amaro. Dovette lasciare la sua carriera per le gelosie del secondo marito, il quale dopo averla portata per lavoro in Somalia la lasciò là, sempre per gelosia. I due matrimoni con italiani naufragarono e rimasero senza figli. L’unico figlio, che è autore del romanzo, lo ebbe con un somalo. In Somalia passò quasi trent’anni della sua vita attraversando le vicende tragiche del paese fino alla rivoluzione dei primi anni novanta, che la costrinsero ancora una volta a lasciare la Somalia per l’Italia come profuga. Pure nella sua terra natale non riuscì mai ad essere pienamente accettata, questa volta perché meticcia e soprattutto per la scarsa conoscenza del somalo. Ritrova la madre che non conobbe da bambina, ma il ritorno alle radici non è indolore non mancano fraintendimenti, opposizioni, rifiuti, incomprensioni che portano al raffreddamento del legame con la madre, che finisce poi per rompersi del tutto.
Solo dopo diversi tentativi alla fine della vicenda Timira-Isabella troverà una casa, una dimora stabile, frutto di un gesto caritatevole. La storia esordisce così, con il forzato trasferimento in Italia agli inizi degli anni novanta, ma il racconto non è lineare, frammentato da capitoli ambientati in diversi tempi e da materiali di diversa tipologia, provenienza e di diversi autori, lettere sia dei protagonisti che del padre di Isabella, documenti diplomatici, interrogazioni di politici in Parlamento. Questi materiali dall’eterogenea collocazione temporale danno luogo a continue analessi e prolessi, dando sostanza a un insieme molto eterogeneo, ma non caotico, dove il testo diventa un archivio che fornisce al lettore la possibilità di verificare la veridicità o la verosimiglianza delle vicende narrate e anche di trovare una propria chiave di lettura della vicenda, come pure dell’evoluzione culturale della società italiana del dopoguerra. Isabella si ritrova a fronteggiare non solo i problemi derivanti dalla sua alterità in un contesto allora molto omogeneo ma anche in via di rapida evoluzione, la sua è anche una vicenda trasversale a tutta la società, le problematiche che affronta riguardano la condizione della donna in generale, nella società, nel mercato del lavoro.
La particolare scelta stilistica e la multiforme e frammentaria struttura in generale del testo è stata a volte discussa, si veda per esempio Mondillo, “sulla base dei parametri individuati da Raffaele Donnarumma per l’ipermoderno italiano”[17], dove si distingueva il postmoderno, dove tutto è fiction e in fiction vengono trasformati anche storia e cronaca e l’ipermoderno, che invece “tenta una resistenza alla finzionalizzazione [...] Dichiarando una conformità al vero, il documento impegna eticamente chi lo produce o lo riporta, ne fonda l’autorevolezza, ma insieme ne limita la soggettività”[18]. Senza entrare nei particolari di un discorso che ci porterebbe lontano, e rimandando quindi alla lettura dell’articolo di Mondillo, troviamo interessante in particolare che Donnarumma parli dell’impiego nella finzionalità autobiografica ipermoderna del documento che diventa “parola sociale – anzi fondamento stesso della socialità – e verificabile”. Riguardo a questo aspetto specifico gli autori di Timira hanno parlato di storie che “sono di tutti – nascono da una comunità e alla comunità ritornano – anche quando hanno la forma di un’autobiografia e sembrano appartenere a una sola persona, perché sono le sue memorie, la sua vita”[19]. Riprenderemo più avanti questo aspetto.
Per cogliere l’aspetto che secondo noi rende significativo e soprattutto credibile l’operazione di interculturalità e autorialità condivisa di Timira torniamo a ciò che si diceva all’inizio del nostro discorso sulla stessa frammentarietà del testo, parcellizzato tra lettere dei protagonisti e del padre di Timira, documenti reali di funzionari coloniali e politici. Si tratta quindi di un romanzo meticcio in ogni senso, non solo riguardo all’etnia dei protagonisti e autori, ma anche per il multistilismo delle diverse tipologie di materiali impiegati per la costruzione del testo.
Troviamo inoltre che Timira rappresenti la realizzazione pratica di ciò che Brioni affermava nell’articolo “A quattro mani. Note collaborative sull’industria culturale, la scrittura diasporica e la pratica decoloniale”, organizzato appunto a quattro mani, come un dialogo con un autore somalo. Le due voci che discutono in questo dialogo si alternano producendo un testo frammentato, strutturalmente molto simile a Timira, e la motivazione data a questa scelta stilistica credo possa essere applicabile anche per una più corretta interpretazione e comprensione di Timira e del suo possibile apporto per la letteratura postcoloniale italiana poiché, come scrive Brioni “Scrivere sulla migrazione non significa solo riconoscere l’ibridità che caratterizza i testi prodotti da scrittori migranti, ma vuol dire modificare il modo in cui organizziamo la conoscenza e presentare una sfida cognitiva ai lettori, mostrando la complessità degli incontri multiculturali e rendendo conto della frammentarietà delle nostre esperienze all’interno di una realtà sempre più caratterizzata da connessioni transnazionali”[20].
Un’interpretazione troppo stretta ed esclusiva della letteratura postcoloniale non può che limitare il suo influsso sulla letteratura e società italiana, e anche l’ampiezza e la durata stessa del fenomeno, finendo per limitarla pesantemente. Un approccio come quello di Timira, pur mantenendo il carattere opposizionale, permetterebbe una libertà e una possibilità di evoluzione e crescita, anche di influenza, del genere della letteratura postcoloniale, aumentandone di fatto anche l’impatto nella società e cultura italiana. L’incisività di questo impatto viene incrementato, insieme alla possibilità di stimolare ulteriormente il coinvolgimento dei lettori, attraverso i testi raccolti nella sezione finale “titoli di coda”. Si tratta di una postfazione, una sorta di appendice documentaria, che mostra la provenienza dei documenti direttamente riportati nel testo del romanzo, ne dimostra la verità e li rende fruibili al lettore, allo stesso modo rende più credibili perché verificabili molte delle vicende narrate[21]. Ma non c’è solo questo. Simili “titoli di coda” appaiono in varie altre opere dei Wu Ming[22], che in tali appendici possono rendere trasparente anche la modalità costruttiva del testo, dalla sua progettazione alla realizzazione pratica, mostrando le dinamiche di interazione nel gruppo di autori e degli autori con i documenti, le testimonianze che ispirano la scrittura della storia, una storia vera seppure romanzata. Eppure anche le parti romanzate, che in Timira sono ben identificabili perché in genere l’autore vi esordisce con espressioni che rendono esplicito l’intervento dell’autore, sono comunque vere, perché la storia di Timira “è una storia vera, comprese le parti che non lo sono”[23]. Le parti romanzate quindi sono vere, anzi si potrebbe dire che sono ancora più vere proprio perché romanzate, poiché sebbene non testimonino ciò che è effettivamente avvenuto comunque narrano di ciò che sarebbe potute avvenire, non dicono di Timira cosa fece ma come avrebbe agito e reagito, colgono l’essenza di Timira, la sua verità più profonda. Non ha quindi ragione d’esser la critica per la mancata presenza tra gli autori del romanzo del nome di Isabella Marincola, che invece è presente in maniera anche più significativa ma con una diversa modalità.
I documenti, le fonti dei “titoli di coda” e coloro che li hanno redatti inoltre diventano anch’essi coautori inconsapevoli del romanzo, interpellano autori e lettori, non sono un’inerte sfondo eterogeneo del romanzo postmoderno. In questo si potrebbero riprendere le dichiarazioni dei Wu Ming, che nei loro testi cercherebbero di evitare “il tono distaccato e gelidamente ironico del pastiche neomodernista [preferendo] una presa di posizione e assunzione di responsabilità”[24]. Ci si riferisce qui più che al tono al carattere del “pastiche neomodernista”, dove gli elementi che lo compongono perdono la loro peculiarità per diventare semplici materiali da costruzione. Non è quindi un’esagerazione affermare che una simile appendice in realtà costituisca parte integrante del testo del romanzo, e che sia un elemento importante della dinamica che ha permesso la coautorialità, che rende possibile, anzi richiede, un maggiore coinvolgimento del lettore, che viene interpellato, richiedendo una presa di posizione. In quest’ottica assume un particolare significato la dichiarazione degli autori che “qualsiasi narrazione è un’opera collettiva, anche quando un solo individuo la traduce in testo e la firma con il suo nome e cognome. La scrittura non funziona come un recinto: se metto una storia sulla pagina, non la faccio mia. Al contrario, ne moltiplico gli autori”[25].
Timira si rivela un romanzo che non rispetta le regolamentazioni più stringenti di coloro che vorrebbero un canone della letteratura postcoloniale più limitato, puro da contaminazioni, per proporre al contrario un modello in cui la problematica della decolonizzazione può diventare patrimonio di una intera società, essendo aperto e anzi invitando alla partecipazione anche di coloro che in tali vicende e problematiche non sono stati direttamente coinvolti.

Questo saggio è frutto del progetto internazionale Literatura e arte no pensamento italiano contemporâneo (CNPq 436185/2018-0)

Como citar: GRITTI, Fabiano. "Riflessioni sull’evoluzione e statuto della letteratura postcoloniale italiana in relazione al caso di Timira. Romanzo meticcio". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022.  Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240145



[1] WU MING 2; MOHAMED, Antar. Timira: romanzo meticcio. Milano: Mondadori, 2012.
[2] Ancora oggi sull’appartenenza di scrittori provenienti dalle colonie ma di seconda generazione o meticci non c’è piena unanimità, sebbene fin dagli inizi della letteratura postcoloniale italiana il problema sia stato sollevato più volte, per esempio cfr. COMBERIATI, Daniele. “La letteratura postcoloniale italiana: definizioni, problemi, mappatura”. In Certi confini. Letteratura dell’immigrazione in italiano (pp. 151-178). Milano: Morellini, 2010.
[3] Per un’ampia panoramica e approfondimenti sul problema della definizione in questo campo si veda: MENGOZZI, Chiara. Narrazioni contese. Vent'anni di scritture italiane della migrazione. Roma: Carocci Mengozzi, 2013, pp. 33-86.
[4] Cfr. LOMBARDI-DIOP Cristina; ROMEO Caterina. “Introduzione”. In L’Italia postcoloniale. Milano: Mondadori, 2014.
[5] Su una popolazione totale di 5.047.028 residenti immigrati nel 2016 (8,3% degli italiani residenti), gli albanesi rappresentano la seconda comunità più numerosa con 448.407 (primi i rumeni con 1.168.442 presenze). Mentre per le comunità ex coloniali si registrano: Libia 8.228, Somalia 7.772, Eritrea 9.394.
[6] PONZANESI, Sandra. “Il postcolonialismo italiano. Figlie dell’impero e letteratura meticcia”. In Quaderni del’900, IV, 2004, 29.
[7] Idem.
[8] Ibidem, 29-30.
[9] Ibidem, 32. Per approfondimenti sulla lingua nella prosa di Maria Abbebù Viarengo cfr. COMBERIATI, Daniele. “La letteratura postcoloniale italiana: definizioni, problemi, mappatura”. In Certi confini. Letteratura dell’immigrazione in italiano. Milano: Morellini, 2009, pp. 158-170.
[10] PONZANESI, Sandra. Op. cit., p. 34.
[11] Idem.
[12] GNISCI, Armando. Nuovo planetario italiano: geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa. Roma: Città aperta, 2006, p. 102; e sul rapporto tra prima generazione e mercato editoriale cfr. GNISCI, Armando. Creolizzare l'Europa: letteratura e migrazione. Roma: Meltemi Gnisci, 2003, p. 7.
[13] LOMBARDI-DIOP Cristina; ROMEO Caterina. Op. cit., p. 26.
[14] WU MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 240.
[15] Cfr. RESTUCCIA, Laura. “Una storia italiana: Giorgio e Isabella”. In: TOMASSINI, Francesca; VENTURINI, Monica. Scritture postcoloniali: nuovi immaginari letterari. Roma: Ensemble, 2018.
[16] La stesura di Timira è stata preceduta da ricerche sulla tragica vicenda del partigiano Giorgio Marincola, che vennero raccolte in COSTA, Carlo; TEODONIO, Lorenzo. Razza partigiana: storia di Giorgio Marincola (1923-1945). Roma: Iacobelli, 2008.
[17] MONDILLO, Mirko. “‘Adesso tu mi dici cosa vuoi fare di me’. Timira. Romanzo meticcio e l’ipermoderno italiano”. In Palimpsest, V, n. 9, 2020, p. 138.
[18] DONNARUMMA Raffaele. Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea. Bologna: Il Mulino, 2014, pp. 121-125.
[19] WU MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 503.
[20] BRIONI, Simone; RAMZANALI FAZEL, Shirin. “A quattro mani. Note collaborative sull’industria culturale, la scrittura diasporica e la pratica decoloniale”. In Scrivere di Islam. Raccontare la diaspora. Venezia: Ca’ Foscari, p. 95.
[21] Per approfondimenti sull’ibridazione tra storia e letteratura in questi “titoli di coda” cfr. COMBERIATI, Daniele; LUIJNENBURG, Linde. “New Postcolonial Art Forms: Timira ad Multi-Genre Between Cinema and Literature”. In Destination Italy. Oxford: Peter Lang, 2013, pp. 271-286.
[22] WU MING. I marziani e i titoli di coda. Fonti, spigolature e approfondimenti dall’officina di Proletkult. In. https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/12/proletkult-titoli-di-coda/.
[23] WU MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., pp. 351-352.
[24] WU MING. Op. cit., 2018, p. 13.
[25] WU MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 350.