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Riflessioni sull’evoluzione e statuto della letteratura postcoloniale italiana in relazione al caso di Timira. Romanzo meticcio, di Fabiano Gritti
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Antar Mohamed
Fabiano Gritti
Wuming 2
em
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Imagem: pxhere.com |
In ben pochi campi di studio è presente il tema del
rapporto tra periferia e centro come nel caso degli studi di letteratura
postcoloniale, dove non è certo un’esagerazione affermare che tali dinamiche ne
costituiscano l’essenza stessa. Nel presente articolo proponiamo una
riflessione sullo statuto di questo campo di studio con riferimento esclusivo
alla situazione italiana. In particolare ci si rifarà a Timira: romanzo meticcio[1]
come esempio recente di romanzo che pur richiamandosi esplicitamente fin dal titolo
alla categorizzazione postcoloniale allo stesso tempo quasi provocatoriamente pare
negarne le più evidenti caratteristiche, e infatti da più parti è stata messa
in discussione l’appartenenza del romanzo a questa categoria. Innanzitutto
l’ispiratrice stessa del romanzo e principale protagonista, Isabella Marincola
che si farà chiamare Timira dopo il trasferimento dall’Italia alla Somalia, pur
avendo fatto parte del collettivo di tre scrittori e avendo anche scritto
direttamente alcuni capitoli non compare tra gli autori in copertina. Appaiono
invece due autori dei quali il primo e più noto è un italiano, uno scrittore
del collettivo Wu ming, Wu Ming 2 alias Giovanni Cattabriga, che etnicamente e
culturalmente non ha avuto direttamente a che fare con le vicende
dell’emigrazione somala in Italia e il secondo è Antar Mohamed, il figlio di
Timira-Isabella Marincola, che essendo un immigrato di seconda generazione per
alcuni studiosi non potrebbe essere classificato come autore postcoloniale[2]. La
stessa Timira essendo cresciuta in Italia potrebbe essere considerata una
emigrata somala di seconda generazione, quindi secondo questa logica non
potrebbe essere considerata autrice di letteratura postcoloniale, come vedremo.
Inoltre Timira pur essendo di origine somala non padroneggiò pienamente altra
lingua che l’italiano, e anche se ciò non vale per il figlio non è comunque
presente nel testo alcuna traccia della lingua somala, come invece accade in
altri testi di letteratura postcoloniale. Linguisticamente il romanzo non
presenta alcuna difficoltà, nessuna opacità, non ci sono vocaboli in somalo e
neppure slittamenti semantici come invece accade per altri scritti
postcoloniali. I due autori somali sono e si sentono culturalmente italiani, come
tali vorrebbero essere accettati. Viene però mantenuto il carattere opposizionale
tipico della letteratura postcoloniale, seppure giochi essenzialmente sul piano
culturale piuttosto che su quello linguistico. Nonostante queste riserve siamo
convinti che il modello del romanzo Timira
potrebbe essere un utile esempio ispiratore per una più allargata definizione
del campo della letteratura postcoloniale.
La rinnovata attenzione che è stata riservata alla
letteratura postcoloniale nell’ultimo ventennio, pur rappresentando un indubbio
progresso rispetto al passato, ancora non può colmare le enormi lacune pregresse.
Lacune che sono anche state la causa di una perdurante incertezza terminologica
che riguarda addirittura la denominazione dello stesso campo di studi. Per
questa ragione prima di considerare nello specifico il romanzo, troviamo sia
necessario ricapitolare seppure succintamente la problematica, con una necessaria
premessa al nostro discorso.
Bisogna innanzitutto considerare che ancora oggi diversi studiosi,
anche italiani, di questo campo di ricerca, considerano il termine letteratura
migrante e letteratura postcoloniale praticamente come sinonimi. E’ chiaro che
non si tratta del nostro caso, che invece vorrebbe promuovere la particolarità
delle scritture postcoloniali, seppure ampliandone il raggio d’azione. La perdurante
indeterminatezza terminologica di cui si diceva, nella definizione dello stesso
campo di studi, porta ad oscillazioni tra la fortunata definizione di
letteratura migrante a quella di letteratura: della migrazione, interculturale,
translinguale, italofona, italoafricana, minore, ibrida, creola, meticcia,
eccentrica, nomade e varie altre[3]. E’
consistente il numero di studiosi che riprende queste definizioni a seconda
dell’uso fatto nei paesi in cui essi si sono trovati ad operare o ai quali
devono la loro formazione scientifica. Va da sé che tali definizioni riprendono
la terminologia usata dalla critica letteraria di paesi che ebbero una ben più
vasta e duratura esperienza del regime coloniale dell’Italia, e di conseguenza
anche il fenomeno del postcolonialismo ebbe maggiore consistenza e impatto
sulla società. In questa sorta di anarchia terminologica si potrebbe avanzare
l’ipotesi che persino nel campo degli studi postcoloniali si sia verificata una
sorta di “colonialismo” da parte di alcune letterature che si autodefiniscono
maggiori, come la letteratura inglese e francese, che ha finito per provocare
errori di prospettiva o semplificazioni inaccettabili di un panorama letterario
che è invece estremamente variegato. Troviamo molto più condivisibile, e sostanzialmente
molto più corretta, la posizione di coloro che hanno apertamente auspicato la
decolonizzazione degli stessi studi di letteratura postcoloniale per far
emergere le unicità e peculiarità dei diversi contesti postcoloniali, come
quello italiano appunto. E poi ciò di conseguenza vale anche per le
particolarità dei contesti postcoloniali di altri paesi europei con passato
coloniale come Spagna, Portogallo, Olanda, Germania, Belgio. Per esempio il
prestigio dell’esperienza degli studi francesi ha portato diversi studiosi italiani
ad adottare l’uso del termine di italofonia chiaramente sorto dal calco con francofonie, che applicato al contesto
coloniale italiano è una chiara forzatura. Per le ex colonie italiane non
abbiamo una istituzione paragonabile alla francofonia, dove gli immigrati dalle
quali difficilmente potevano aver avuto un rapporto con la lingua e la cultura
della nazione dominante come è capitato nei territori coloniali francesi. Non è
un caso che in Italia dopo la fine della dominazione coloniale non si
verificarono affatto i trasferimenti di popolazione che invece avvennero dalle
colonie francesi o inglesi verso il territorio metropolitano.
Come si diceva, la letteratura migrante in Italia è nata
molto più tardi che in altri paesi colonizzatori, come è ben noto risale solo
agli inizi degli anni Novanta, e a quel tempo non era ancora in uso da parte
della critica letteraria il termine di letteratura postcoloniale, sebbene ovviamente
ne esistesse il concetto[4].
Fu solo successivamente agli anni Novanta che cominciarono a comparire nella
letteratura migrante opere di più rilevante spessore letterario rispetto alla
precedente preponderante proliferazione di memorie, biografie. Il termine di
letteratura postcoloniale esordisce nelle pubblicazioni scientifiche in Italia solo
nel 2004 in un numero monografico dei Quaderni
del ’900 curato da Tiziana Morosetti e dedicato appunto alla “Letteratura
postcoloniale italiana”, con il significativo sottotitolo: “Dalla letteratura
d’immigrazione all’incontro con l’altro”.
Siamo d’accordo con quanti preferiscono usare il termine
di letteratura postcoloniale solo in senso stretto, per indicare una categoria
particolare della letteratura migrante, e cioè le opere che si occupano di
tematiche inerenti al rapporto tra l’Italia e i suoi antichi possedimenti
coloniali e alla persistenza nella società italiana degli effetti del
colonialismo. E’ quest’ultima la ragione della rilevanza e dell’attualità di
tali studi, più che per una questione meramente numerica, visto che
statisticamente gli immigrati dalle ex colonie in Italia, a parte gli Albanesi,
rappresentano una percentuale poco significativa rispetto alla totalità degli
immigrati[5].
Suscita però perplessità l’idea che a tali temi possano dedicarsi solo
scrittori appartenenti all’etnia proveniente dai territori delle antiche
colonie italiane, e questo sarà la principale questione sulla quale il presente
articolo concentrerà la sua attenzione.
Una questione significativa, ma spesso messa in secondo
piano, per la piena comprensione del significato del termine “postcoloniale” è
il valore del prefisso “post”, che non è da intendersi tanto in senso
temporale, cioè la letteratura dell’epoca del colonialismo e successiva alla
fine dell’occupazione coloniale, ma piuttosto si riferisce agli effetti del
colonialismo sulla società, sulla cultura italiana. Effetti sui quali non c’è
mai stata in Italia una vera e approfondita riflessione. E non c’è stata
perché, come si diceva, non si è verificata una rilevante migrazione in Italia
dalle colonie subito dopo la conclusione della dominazione coloniale. Come
scriveva Ponzanesi “il momento postcoloniale è stato come dire sospeso e
rimandato”[6].
Quasi parallelamente alla crescita dei flussi migratori, che cominciarono a
farsi sempre più significativi verso la metà degli anni Ottanta, nella società
divenne sempre più urgente il dibattito sulla “responsabilità sociale e
politica verso i paesi in via di sviluppo”, e poi anche sulle “dirette
responsabilità coloniali” che hanno contribuito all’aggravamento delle
condizioni socio-economiche, all’impoverimento delle regioni colonizzate che ha
portato successivamente alla necessità dell’emigrazione. La letteratura postcoloniale
quindi risponde ad esigenze e problematiche non del tutto sovrapponibili a
quelle della letteratura della migrazione o della trasmigrazione, seppure sia inevitabile
che frequenti sovrapposizioni e contaminazioni si verifichino[7].
Nonostante queste similarità, sempre rifacendomi a Ponzanesi, siamo convinti
che sia “importante mantenere la specificità politica e culturale del discorso
postcoloniale in modo da non perdere sia l’elemento cronologico del comune
passato coloniale, sia l’aspetto epistemologico della reinterpretazione delle
categorie di pensiero occidentale e della decostruzione delle relazioni di
potere tra periferia e centro”[8].
Sempre nello stesso studio Ponzanesi, trattando delle
peculiarità della letteratura postcoloniale, espone le particolarità delle
opere di Maria Abbebù Viarengo, di cui la studiosa si è ampiamente occupata in
più pubblicazioni, come caso più estremo ed esemplare della tendenza alla
creolizzazione del linguaggio letterario, che rispetto alla scrittura di Timira si trova praticamente all’estremo
opposto dello spettro delle diverse possibilità. Allo stesso modo anche la
concezione dell’autorialità è assai lontana dal caso di Timira e del suo particolare collettivo di autori, che secondo
questa concezione non potrebbe essere legittimamente compreso nella categoria della
letteratura postcoloniale.
Anche Maria Abbebù Viarengo, come Timira, è figlia di un
soldato italiano coloniale e di una donna delle popolazioni locali, stavolta in
Etiopia. Anche lei venne portata dal padre in Italia senza la madre ed ebbe
un’educazione rigorosamente italiana, ma qui i parallelismi finiscono poiché
lei, a differenza di Timira, riuscì a recuperare pienamente in età adulta la
coscienza della sua identità culturale etiope, senza comunque rifiutare la sua
identità italiana. La sua opera è quindi un tentativo di giungere ad una
duplicità, alla coesistenza di due culture, al punto da decidere per l’uso di
entrambe le lingue. Anzi per la precisione la sua parte italiana sarebbe
specificamente piemontese, dunque nei suoi testi compaiono parole in dialetto
piemontese e in oromo, la lingua della tribù della madre. L’italiano standard
amalgama queste due parti, per garantire una certa leggibilità, che rimane però
inevitabilmente compromessa. Ne risulta “un’opacità per il lettore non
oromo/non piemontese” che sarebbe voluta perché mette il testo “fuori dai
rischi di appropriazione sia da parte di una cultura che dall’altra, marcandolo
come radicalmente ‘diverso’. Questa opacità ha una doppia funzione sovversiva:
non mira soltanto a suggerire un legame specifico con un passato culturale più
o meno ‘autentico’, prevenendo l’adozione ideologica di una forma statica di
insider e outsider, tra parlanti di lingue autoctone e gli altri, mettendo in
discussione il credo del lettore nel valore della chiarezza”[9].
Di questa tipologia di operazioni letterarie è possibile
condividere il fine ideale, pure se con diverse perplessità. Si tratta di
radicalizzazioni delle nozioni di meticciato e di pluralità che per Ponzanesi[10]
costruiscono “un discorso soggettivo a cavallo tra passato e presente, tra
mondi vicini e lontani, tra autorità e irriverenza” e che inoltre, e forse
questo è il punto più rilevante, danno allo scrittore un potente strumento per
scardinare “sia le chiusure imposte dall’egemonia anglofona, esprimendo una
specificità Afro-italiana altra, che il panorama presumibilmente omogeneo della
letteratura italiana [...]”[11].
Il vantaggio di questa impostazione è quello evidente di
far emergere “letteratura postcoloniali marginali, minori e ibride”, ma ha
anche un costo. Innanzitutto abbiamo l’ovvia attenuazione del fine sovversivo e
opposizionale di questa letteratura già per eventuali scrittori di seconda
generazione, sempre che si possa parlare di seconda generazione in questo caso.
Ci si potrebbe chiedere se sia ancora possibile parlare di “identità ibrida e
multiculturale” negli scrittori di seconda generazione.
C’è poi anche la questione del conflitto con le pratiche
editoriali che richiedono interventi sul testo per eventuali adattamenti,
correzioni, che sono incompatibili con questa modalità di scrittura. A riprova
di ciò abbiamo la stessa vicenda di Maria Abbebù Viarengo, che si trovò a
scontrarsi duramente con le logiche e le esigenze del mercato editoriale, al
punto da decidere di non pubblicare più per conservare la sua autenticità.
Un’intransigenza che porta al silenzio di una voce importante della letteratura
postcoloniale.
E’ condivisibile il discorso della Ponzanesi, finalizzato
alla ricerca e alla esaltazione della specificità della letteratura
postcoloniale italiana, quale passo fondamentale per il riconoscimento anche
degli originali apporti che questa potrebbe dare alla letteratura e alla
cultura italiana in generale. Ci si potrebbe però chiedere se per la via
indicata in questo specifico esempio il prezzo da pagare non sia troppo alto, avendo
come effetto ultimo il mantenimento della marginalizzazione che ancora
caratterizza questo fenomeno letterario. Si potrebbe esprimere il ragionevole
dubbio che questa non possa essere la strada maestra per rendere la letteratura
postcoloniale davvero significativa per la società italiana, ma soprattutto non
dovrebbe essere la sola strada possibile, escludendo altre possibilità con un
canone troppo rigidamente definito. In contrapposizione a questa prospettiva Timira invece appare un esempio di
letteratura postcoloniale molto più ampio, nonostante le contestazioni di cui il
romanzo è stato più volte oggetto, a cominciare dalla questione
dell’autorialità. Infatti anche per la definizione della tipologia di autori ammessi
alla categoria della letteratura postcoloniale si è cercato da più parti di
definire un modello legittimo, con risultati che spesso paiono piuttosto opinabili.
Se è chiaro che possono essere definiti postcoloniali
autori provenienti dalle colonie e che scrivono in una lingua che non è la loro
lingua madre, non c’è completa unanimità tra gli studiosi riguardo ad autori
provenienti da famiglie miste oppure da famiglie italiane che però erano
presenti nelle colonie da più di una generazione, oppure da autori meticci che
si sono trasferiti in Italia prima di apprendere la lingua della terra in cui
nacquero. Un ulteriore problema pongono poi gli autori della seconda
generazione, per i quali secondo alcuni non converrebbe l’etichetta del
postcolonialismo, e ciò vale per studiosi come Armando Gnisci, che tanto ha scritto
su decolonizzazione, meticciato, creolismo[12].
In questo caso viene considerato opportuno indicare questi autori come
semplicemente appartenenti alla letteratura italiana in generale. Ancora più
perplessità destano i romanzi di ambientazione coloniale scritti da autori
italiani senza legami etnici con le colonie o che mai ci vissero. Gli esempi
sono numerosi, da quelli più famosi di Ennio Flaiano con Tempo di uccidere (1947), Mario Tobino con Il deserto della Libia di (1952), Erminia dell’Oro con Asmara addio (1988) e L’abbandono (1991), fino ai romanzi
usciti nel duemila dei quali qui citeremo solo alcuni: Mauro Curradi: Cera e oro (2002), Davide Longo: Un mattino a Irgalem (2001), Luciano
Marrocu: Debrà Libanòs (2002), Carlo
Lucarelli: L’ottava vibrazione
(2008), Enrico Brizzi: L’inattesa piega degli
eventi (2008).
Con Timira troviamo allo stesso tempo gli ultimi casi che
abbiamo detto, e che sono i più controversi. La protagonista principale è
infatti una meticcia, figlia di un soldato dell’esercito coloniale italiano e
di una somala, che al ritorno in Italia decise di prendere con sé la figlia e
il fratello, lasciando però la compagna somala per ricongiungersi alla famiglia
in Italia, dove l’aspettavano una moglie e una figlia legittima. I due figli
crebbero in Italia, conoscevano solo poche parole in somalo, quindi
linguisticamente e culturalmente erano più italiani che somali.
Il primo problema è che la protagonista seppure partecipò
alla stesura di alcune parti del romanzo, del quale non ebbe la possibilità di
vedere la conclusione per la morte prematura, non è tra gli autori del libro. E
questo nonostante il suo nome somalo sia nel titolo e la sua foto da giovane
campeggi sulla copertina. La giustificazione per questa esclusione non ha
soddisfatto alcuni critici, che l’hanno considerata assai debole, come nel caso
di Caterina Romeo, che giudica questa omissione una vera e propria censura,
espressione di “problematiche delle relazioni di potere nell’autorialità
collaborativa, particolarmente […] quando un co-autore è uno scrittore famoso.”[13]
La presenza nella coppia di autori di un italiano che non
ha avuto un’esperienza diretta della vita in una colonia e che è un autore
affermato, a fianco di un autore dal nome straniero, del tutto sconosciuto,
richiama inevitabilmente le prime prove editoriali della letteratura della
migrazione nei primi anni Novanta. Potrebbe sembrare un’operazione di
retroguardia, quindi il ritorno ad un’epoca in cui l’autore straniero non
essendo in grado, o non essendo considerato in grado, di presentare adeguatamente
ai lettori italiani la propria vicenda biografica necessitava del lavoro di uno
scrittore italiano madrelingua, che ne diventa non solo l’editore ma anche la
voce. Il risultato è un testo certamente più appetibile al lettore medio
italiano ma a costo di una sostanziale mutilazione delle particolarità
espressive della parte non italiana. Si tratta però, come si diceva, di una
fase ormai largamente superata, gli autori postcoloniali sono sempre più in
grado di padroneggiare l’uso letterario della lingua italiana al punto da
riuscire a trovare abili e significative sintesi tra la lingua italiana e
quella della terra d’origine. E in effetti il romanzo all’inizio era stato
pensato proprio in questo modo, l’unico autore sarebbe dovuto essere
Cattabriga, che progettava di rielaborare le interviste da lui condotte e registrate
con Timira tra il 2003 e il 2008. Lo scrittore si rese conto che imponendosi
come unico autore avrebbe inevitabilmente finito per tradire lo spirito
dell’intera operazione poiché, come scrisse, si rese conto di come stesse
“lastricando di buone intenzioni la via dell’inferno, convinto di fare il bene
e l’interesse d’entrambi, sono venuto alle tue coste come un europeo d’altri
tempi, per trasformare le tue terre nella mia colonia”[14].
A questo punto diventava quasi d’obbligo il passaggio al modello autoriale del
collettivo di scrittori, che inizialmente doveva comprendere Isabella, ma che
dopo la sua improvvisa morte si allargò al figlio Antar Mohamed. In questo
modo, e in questo siamo d’accordo con Laura Restuccia[15],
abbiamo con Timira una sintesi tra il
modello autoriale del romanzo postcoloniale con autore di seconda generazione e
il romanzo di tema postcoloniale di autori che non hanno sperimentato in prima
persona le vicende di cui si occupano, dei Flaiano, Curradi, Tobino ecc.
Vedremo alcune caratteristiche principali del romanzo Timira, cercando di cogliere almeno alcune
delle sue peculiarità, esemplari per le dinamiche del rapporto tra centro e
periferie. Lo scontro e l’incontro tra periferia e centro avvengono in diversi
modi nelle vicende narrate, innumerevoli sono i cortocircuiti, scontri e
contrapposizioni, avvicinamenti e allontanamenti tra periferia e centro,
rifiuti e tentativi (in genere frustrati) di sintesi.
La protagonista è figlia di un soldato coloniale italiano
in Somalia e di una donna del luogo. Finita la guerra in genere i soldati
italiani tornavano in patria senza prendere con loro le donne somale, e i figli
venivano lasciati in orfanotrofio, nella stragrande maggioranza dei casi. Nel
nostro caso il padre decise di riconoscere i due figli, Isabella (Timira è il
nome somalo adottato molto dopo, quando la protagonista si sposò in Somalia con
un somalo ed ebbe il suo unico figlio) e Giorgio, e di portarli in Italia per
educarli come italiani. Era stato loro vietato imparare il somalo dalla madre.
In Italia però il padre aveva anche una moglie legale e una figlia, che non
accettarono mai veramente i due bimbi come parte della famiglia. Isabella
crescendo si rese conto della sua diversità dagli altri italiani solo dalle
reazioni per il colore della pelle. Non fu facile per Isabella rendersi
indipendente dalla famiglia, nei primi anni della maturità la sua vicenda
diventa trasversale rispetto alla società italiana degli anni cinquanta e
sessanta, non è più solo la vicenda di una donna meticcia in una società refrattaria
al diverso ma è anche la sua è anche la storia di tutte le donne in cerca di
emancipazione in una società ancora patriarcale, in cui le possibilità di
lavoro erano ancora assai limitate. Rimase sola anche perché il fratello
Giorgio morì combattendo come partigiano. Anche questo è un ulteriore corto
circuito tra periferia e centro: il figlio del regime coloniale lotta per la
nazione colonizzatrice quando questa era ridotta in stato di sudditanza, quasi
coloniale, da un invasore straniero. Bisogna anche dire che se pure il fratello
esce di scena molto presto la sua figura rimane comunque presente in tutto il
romanzo. Anzi in verità era la motivazione prima che ha portato alla nascita
del romanzo, e la sua vicenda rappresenta la tragicità della ricerca di
un’appartenenza spinta fino all’estremo sacrificio[16].
Timira non si piegò mai al compromesso, fiera della sua
coscienza di donna e di italiana non accettò mai il pregiudizio che la voleva
disponibile alla prostituzione o al lavoro degradante come serva. Si guadagnò
da vivere come modella per artisti e come attrice, apparendo in film iconici
del dopoguerra come Riso amaro.
Dovette lasciare la sua carriera per le gelosie del secondo marito, il quale
dopo averla portata per lavoro in Somalia la lasciò là, sempre per gelosia. I
due matrimoni con italiani naufragarono e rimasero senza figli. L’unico figlio,
che è autore del romanzo, lo ebbe con un somalo. In Somalia passò quasi trent’anni
della sua vita attraversando le vicende tragiche del paese fino alla
rivoluzione dei primi anni novanta, che la costrinsero ancora una volta a
lasciare la Somalia per l’Italia come profuga. Pure nella sua terra natale non
riuscì mai ad essere pienamente accettata, questa volta perché meticcia e soprattutto
per la scarsa conoscenza del somalo. Ritrova la madre che non conobbe da
bambina, ma il ritorno alle radici non è indolore non mancano fraintendimenti,
opposizioni, rifiuti, incomprensioni che portano al raffreddamento del legame
con la madre, che finisce poi per rompersi del tutto.
Solo dopo diversi tentativi alla fine della vicenda
Timira-Isabella troverà una casa, una dimora stabile, frutto di un gesto
caritatevole. La storia esordisce così, con il forzato trasferimento in Italia
agli inizi degli anni novanta, ma il racconto non è lineare, frammentato da
capitoli ambientati in diversi tempi e da materiali di diversa tipologia,
provenienza e di diversi autori, lettere sia dei protagonisti che del padre di
Isabella, documenti diplomatici, interrogazioni di politici in Parlamento. Questi
materiali dall’eterogenea collocazione temporale danno luogo a continue
analessi e prolessi, dando sostanza a un insieme molto eterogeneo, ma non caotico,
dove il testo diventa un archivio che fornisce al lettore la possibilità di
verificare la veridicità o la verosimiglianza delle vicende narrate e anche di trovare
una propria chiave di lettura della vicenda, come pure dell’evoluzione
culturale della società italiana del dopoguerra. Isabella si ritrova a
fronteggiare non solo i problemi derivanti dalla sua alterità in un contesto
allora molto omogeneo ma anche in via di rapida evoluzione, la sua è anche una
vicenda trasversale a tutta la società, le problematiche che affronta riguardano
la condizione della donna in generale, nella società, nel mercato del lavoro.
La particolare scelta stilistica e la multiforme e
frammentaria struttura in generale del testo è stata a volte discussa, si veda
per esempio Mondillo, “sulla base dei parametri individuati da Raffaele
Donnarumma per l’ipermoderno italiano”[17],
dove si distingueva il postmoderno, dove tutto è fiction e in fiction vengono
trasformati anche storia e cronaca e l’ipermoderno, che invece “tenta una
resistenza alla finzionalizzazione [...] Dichiarando una conformità al vero, il
documento impegna eticamente chi lo produce o lo riporta, ne fonda
l’autorevolezza, ma insieme ne limita la soggettività”[18].
Senza entrare nei particolari di un discorso che ci porterebbe lontano, e
rimandando quindi alla lettura dell’articolo di Mondillo, troviamo interessante
in particolare che Donnarumma parli dell’impiego nella finzionalità
autobiografica ipermoderna del documento che diventa “parola sociale – anzi
fondamento stesso della socialità – e verificabile”. Riguardo a questo aspetto
specifico gli autori di Timira hanno
parlato di storie che “sono di tutti – nascono da una comunità e alla comunità
ritornano – anche quando hanno la forma di un’autobiografia e sembrano
appartenere a una sola persona, perché sono le sue memorie, la sua vita”[19]. Riprenderemo
più avanti questo aspetto.
Per cogliere l’aspetto che secondo noi rende
significativo e soprattutto credibile l’operazione di interculturalità e
autorialità condivisa di Timira
torniamo a ciò che si diceva all’inizio del nostro discorso sulla stessa
frammentarietà del testo, parcellizzato tra lettere dei protagonisti e del
padre di Timira, documenti reali di funzionari coloniali e politici. Si tratta
quindi di un romanzo meticcio in ogni senso, non solo riguardo all’etnia dei
protagonisti e autori, ma anche per il multistilismo delle diverse tipologie di
materiali impiegati per la costruzione del testo.
Troviamo inoltre che Timira
rappresenti la realizzazione pratica di ciò che Brioni affermava nell’articolo
“A quattro mani. Note collaborative sull’industria culturale, la scrittura
diasporica e la pratica decoloniale”, organizzato appunto a quattro mani, come
un dialogo con un autore somalo. Le due voci che discutono in questo dialogo si
alternano producendo un testo frammentato, strutturalmente molto simile a Timira, e la motivazione data a questa
scelta stilistica credo possa essere applicabile anche per una più corretta
interpretazione e comprensione di Timira
e del suo possibile apporto per la letteratura postcoloniale italiana poiché,
come scrive Brioni “Scrivere sulla migrazione non significa solo riconoscere
l’ibridità che caratterizza i testi prodotti da scrittori migranti, ma vuol
dire modificare il modo in cui organizziamo la conoscenza e presentare una
sfida cognitiva ai lettori, mostrando la complessità degli incontri multiculturali
e rendendo conto della frammentarietà delle nostre esperienze all’interno di
una realtà sempre più caratterizzata da connessioni transnazionali”[20].
Un’interpretazione troppo stretta ed esclusiva della
letteratura postcoloniale non può che limitare il suo influsso sulla
letteratura e società italiana, e anche l’ampiezza e la durata stessa del
fenomeno, finendo per limitarla pesantemente. Un approccio come quello di Timira, pur mantenendo il carattere
opposizionale, permetterebbe una libertà e una possibilità di evoluzione e
crescita, anche di influenza, del genere della letteratura postcoloniale,
aumentandone di fatto anche l’impatto nella società e cultura italiana. L’incisività
di questo impatto viene incrementato, insieme alla possibilità di stimolare
ulteriormente il coinvolgimento dei lettori, attraverso i testi raccolti nella
sezione finale “titoli di coda”. Si tratta di una postfazione, una sorta di
appendice documentaria, che mostra la provenienza dei documenti direttamente
riportati nel testo del romanzo, ne dimostra la verità e li rende fruibili al
lettore, allo stesso modo rende più credibili perché verificabili molte delle
vicende narrate[21].
Ma non c’è solo questo. Simili “titoli di coda” appaiono in varie altre opere
dei Wu Ming[22],
che in tali appendici possono rendere trasparente anche la modalità costruttiva
del testo, dalla sua progettazione alla realizzazione pratica, mostrando le
dinamiche di interazione nel gruppo di autori e degli autori con i documenti,
le testimonianze che ispirano la scrittura della storia, una storia vera
seppure romanzata. Eppure anche le parti romanzate, che in Timira sono ben identificabili perché in genere l’autore vi
esordisce con espressioni che rendono esplicito l’intervento dell’autore, sono
comunque vere, perché la storia di Timira
“è una storia vera, comprese le parti che non lo sono”[23].
Le parti romanzate quindi sono vere, anzi si potrebbe dire che sono ancora più
vere proprio perché romanzate, poiché sebbene non testimonino ciò che è effettivamente
avvenuto comunque narrano di ciò che sarebbe potute avvenire, non dicono di Timira
cosa fece ma come avrebbe agito e reagito, colgono l’essenza di Timira, la sua
verità più profonda. Non ha quindi ragione d’esser la critica per la mancata
presenza tra gli autori del romanzo del nome di Isabella Marincola, che invece
è presente in maniera anche più significativa ma con una diversa modalità.
I documenti, le fonti dei “titoli di coda” e coloro che
li hanno redatti inoltre diventano anch’essi coautori inconsapevoli del romanzo,
interpellano autori e lettori, non sono un’inerte sfondo eterogeneo del romanzo
postmoderno. In questo si potrebbero riprendere le dichiarazioni dei Wu Ming,
che nei loro testi cercherebbero di evitare “il tono distaccato e gelidamente
ironico del pastiche neomodernista [preferendo] una presa di posizione e
assunzione di responsabilità”[24].
Ci si riferisce qui più che al tono al carattere del “pastiche neomodernista”,
dove gli elementi che lo compongono perdono la loro peculiarità per diventare
semplici materiali da costruzione. Non è quindi un’esagerazione affermare che
una simile appendice in realtà costituisca parte integrante del testo del
romanzo, e che sia un elemento importante della dinamica che ha permesso la
coautorialità, che rende possibile, anzi richiede, un maggiore coinvolgimento
del lettore, che viene interpellato, richiedendo una presa di posizione. In
quest’ottica assume un particolare significato la dichiarazione degli autori
che “qualsiasi narrazione è un’opera collettiva, anche quando un solo individuo
la traduce in testo e la firma con il suo nome e cognome. La scrittura non
funziona come un recinto: se metto una storia sulla pagina, non la faccio mia.
Al contrario, ne moltiplico gli autori”[25].
Timira si rivela un romanzo che non rispetta le
regolamentazioni più stringenti di coloro che vorrebbero un canone della
letteratura postcoloniale più limitato, puro da contaminazioni, per proporre al
contrario un modello in cui la problematica della decolonizzazione può diventare
patrimonio di una intera società, essendo aperto e anzi invitando alla
partecipazione anche di coloro che in tali vicende e problematiche non sono
stati direttamente coinvolti.
Questo saggio è frutto del progetto internazionale Literatura e arte no pensamento italiano contemporâneo (CNPq 436185/2018-0)
Como citar: GRITTI, Fabiano. " Riflessioni sull’evoluzione e statuto della letteratura postcoloniale italiana in relazione al caso di Timira. Romanzo meticcio". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240145
[1] WU
MING 2; MOHAMED, Antar. Timira: romanzo
meticcio. Milano: Mondadori, 2012.
[2]
Ancora oggi sull’appartenenza di scrittori provenienti dalle colonie ma di
seconda generazione o meticci non c’è piena unanimità, sebbene fin dagli inizi
della letteratura postcoloniale italiana il problema sia stato sollevato più
volte, per esempio cfr. COMBERIATI, Daniele.
“La letteratura postcoloniale italiana: definizioni, problemi, mappatura”. In Certi confini. Letteratura dell’immigrazione
in italiano (pp. 151-178). Milano: Morellini, 2010.
[3] Per
un’ampia panoramica e approfondimenti sul problema della definizione in questo
campo si veda: MENGOZZI, Chiara.
Narrazioni contese. Vent'anni di scritture italiane della migrazione. Roma:
Carocci Mengozzi, 2013, pp. 33-86.
[4] Cfr. LOMBARDI-DIOP Cristina; ROMEO Caterina.
“Introduzione”. In L’Italia postcoloniale.
Milano: Mondadori, 2014.
[5] Su
una popolazione totale di 5.047.028 residenti immigrati nel 2016 (8,3% degli
italiani residenti), gli albanesi rappresentano la seconda comunità più
numerosa con 448.407 (primi i rumeni con 1.168.442 presenze). Mentre per le
comunità ex coloniali si registrano: Libia 8.228, Somalia 7.772, Eritrea 9.394.
[6] PONZANESI, Sandra. “Il postcolonialismo
italiano. Figlie dell’impero e letteratura meticcia”. In Quaderni del’900, IV, 2004, 29.
[7] Idem.
[8] Ibidem,
29-30.
[9] Ibidem,
32. Per approfondimenti sulla lingua nella prosa di Maria Abbebù Viarengo cfr. COMBERIATI, Daniele. “La letteratura
postcoloniale italiana: definizioni, problemi, mappatura”. In Certi confini. Letteratura dell’immigrazione
in italiano. Milano: Morellini, 2009, pp. 158-170.
[10] PONZANESI, Sandra. Op. cit., p. 34.
[11] Idem.
[12] GNISCI, Armando. Nuovo planetario italiano: geografia e antologia della letteratura
della migrazione in Italia e in Europa. Roma: Città aperta, 2006, p. 102; e sul rapporto tra prima generazione e mercato editoriale cfr. GNISCI, Armando. Creolizzare l'Europa: letteratura e migrazione. Roma: Meltemi Gnisci, 2003, p. 7.
[13] LOMBARDI-DIOP Cristina; ROMEO Caterina.
Op. cit., p. 26.
[14] WU
MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 240.
[15] Cfr. RESTUCCIA,
Laura. “Una storia italiana: Giorgio e Isabella”. In: TOMASSINI, Francesca; VENTURINI, Monica. Scritture postcoloniali: nuovi immaginari
letterari. Roma: Ensemble, 2018.
[16] La stesura di Timira è stata
preceduta da ricerche sulla tragica vicenda del partigiano Giorgio Marincola,
che vennero raccolte in COSTA, Carlo; TEODONIO, Lorenzo. Razza partigiana: storia di Giorgio Marincola (1923-1945). Roma:
Iacobelli, 2008.
[17] MONDILLO, Mirko.
“‘Adesso tu mi dici cosa vuoi fare di me’. Timira.
Romanzo meticcio e l’ipermoderno italiano”. In Palimpsest, V, n. 9, 2020, p. 138.
[18] DONNARUMMA Raffaele.
Ipermodernità. Dove va la narrativa
contemporanea. Bologna: Il Mulino, 2014, pp. 121-125.
[19] WU
MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 503.
[20] BRIONI, Simone; RAMZANALI FAZEL, Shirin.
“A quattro mani. Note collaborative sull’industria culturale, la scrittura
diasporica e la pratica decoloniale”. In Scrivere
di Islam. Raccontare la diaspora. Venezia: Ca’ Foscari, p. 95.
[21] Per
approfondimenti sull’ibridazione tra storia e letteratura in questi “titoli di
coda” cfr. COMBERIATI, Daniele;
LUIJNENBURG, Linde. “New
Postcolonial Art Forms: Timira ad
Multi-Genre Between Cinema and Literature”. In Destination Italy. Oxford: Peter Lang, 2013, pp. 271-286.
[22] WU
MING. I marziani e i titoli di coda. Fonti, spigolature e approfondimenti
dall’officina di Proletkult. In. https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/12/proletkult-titoli-di-coda/.
[23] WU
MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., pp. 351-352.
[24] WU
MING. Op. cit., 2018, p. 13.
[25] WU
MING 2; MOHAMED, Antar. Op. cit., p. 350.
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