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“Un cielo privato ma condiviso”: la poesia di Enrico Testa da Le faticose attese a Cairn, di Fabio Moliterni
Literatura Italiana Traduzida ISSN 2675-4363
Enrico Testa
Fabio Moliterni
poesia contemporânea
em
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Foto: Dino Ignani |
Enrico
Testa è giunto al suo sesto libro di poesie e ha festeggiato proprio con il
2018 appena trascorso il trentennale della sua opera d’esordio[1]. I
versi dell’ultima raccolta coprono gli anni 2012-2017[2]:
si tratta di una gestazione pluriennale che viene puntualmente registrata ad
apertura della Nota d’autore, così
come avveniva nelle precedenti plaquette (con una scansione che solitamente indicava
con regolarità la durata di un lustro tra una raccolta e la successiva). Sempre
in dialogo con una precisa idea di poesia che discende dai suoi “maestri”
riconosciuti, Montale Caproni e Sereni, nell’arco ormai di un trentennio la sua
scrittura in versi è cresciuta al riparo dai rischi del manierismo, delle sterili
imitazioni epigoniche e dalle sirene cagionevoli e volubili delle mode o del
mercato. Voglio dire che la pronuncia di Testa si è fatta via via sempre più
riconoscibile e personale, si è aperta con il tempo a una varietà significativa
di registri formali e di risonanze concettuali, restando allo stesso tempo
tenacemente fedele alle sue origini. È, questo, il segno di una tensione
dialettica nella quale vive la sua scrittura in versi, che non si risolve mai
in un dettato uniforme o monotono né appartiene con certezza a questa o a
quella scuola, linea o corrente, e resta come sospesa sul crinale tra continuità
e discontinuità, tradizione e postumità, tra un prima e un dopo la lirica,
come recita il titolo di una sua antologia sulla poesia del secondo Novecento a
tutti nota[3]: è
una delle aporie o dei paradossi che attraversano la sua opera in versi,
risuonando in particolare all’interno di questo ultimo libro. Dove, come
cercherò di mostrare, alle costanti retoriche e tematiche della sua scrittura
lirica, a certe modalità enunciative oramai riconoscibili e familiari si
sovrappongono alcuni elementi di novità che forse risentono delle riletture
critiche che, contemporaneamente alla stesura di Cairn, Testa andava facendo intorno a Montale e in particolare al
Montale della “vecchiaia”, da Satura
in poi[4].
Di seguito tratteggerò i punti salienti di questa tensione tra continuità e
variazioni.
Come
è stato fatto notare dai suoi migliori critici[5],
la poesia di Testa si presenta da subito come un congegno o un dispositivo di
stampo dialogico: difende
l’autonomia, o meglio, la specificità del linguaggio lirico pur ricorrendo ai
modelli semiotici di tipo teatrale e (pseudo)narrativo, aprendo i confini della
forma lirica tradizionalmente intesa a una pluralità di voci e di personaggi,
quadri fotogrammi o situazioni che vedono l’io alle prese con una folla di personae e con i nodi più o meno
intricati delle relazioni umane, tra memoria e dolore, presente e passato.
Questa condizione della voce poetica si traduce in pochi, costanti e precisi
tratti retorico-formali che tornano di libro in libro: l’assenza all’inizio e
alla fine di ogni componimento delle maiuscole e dei segni di interpunzione,
per trasferire sulla pagina scritta il senso di una memoria che funziona come
un continuum, un dire senza origine
né fine; il succedersi di monologhi in miniatura che restituiscono la
sensazione di un teatro mentale, interiore, accanto ai segni grafici che occupano
la pagina indicando l’attivarsi del registro colloquiale, o comunque
l’inserimento di altre voci che soppiantano o sostituiscono quella del soggetto
lirico. Un soggetto che si presenta, in linea con lo statuto etico che regola la poesia di Testa, e a
testimonianza della natura nient’affatto pacificata né conciliante di questi
versi, come una entità enunciativa decentrata e spesso relegata ai margini
(“aspetto un segnale da lontano / o provo a ricordare”, p. 95), “viandante”, monade
“inert[e] o impazient[e]”, esiliata, rifratta e confusa nelle voci altrui ma
allo stesso tempo vitale e necessaria, proprio perché è implicata, volente o
nolente, nella rete dei rapporti, degli incontri e delle relazioni con gli altri: “Risaliamo tra la gente / E sono
con voi, ancora. / Senza di voi, niente” (p. 100).
La
sua poesia, indifferente alle mode passeggere e al trascorrere del tempo, vive
da sempre di queste ossessive costellazioni di immagini, di questi tratti
formali specifici e distintivi. È bene chiarire che siamo di fronte a uno
strumentario retorico che deriva da un versante preciso della lirica italiana
(con i suoi addentellati europei) del quale Testa è fine conoscitore, frequentandolo
anche come lettore, traduttore e critico di poesia (da Montale, come detto,
fino a Sereni e Caproni in compagnia magari di Philip Larkin)[6]. È
da segnalare, piuttosto, come alla persistenza e alla tenuta di questi schemi o
modelli retorici, veri e propri pattern
della sua opera in versi, corrispondano una modulazione e pronuncia personali
tra riprese e variazioni, contaminazioni e intrecci di registri stilistici
diversi che, soprattutto in Cairn,
dimostrano della vitalità della sua scrittura.
E
allora: gli incisi o le parentetiche solcano capronianamente i versi con
effetti di continue messe a fuoco o di cortocircuiti e slittamenti percettivi; le
espressioni dubitative (“O forse…”, “Dicono che…”, “La mimica dei miei soliti /
nonso, noncredo, forse…”, p. 37),
insieme alla sintassi nervosa e alla frequenza emblematica di avversative (“eppure”,
“ma”) testimoniano a un tempo dell’estraneità del soggetto al mondo presente e
il suo radicato smarrimento esistenziale, ma anche la declinazione etica dello
sguardo, medium prensile e recettivo
per afferrare e riportare sulla pagina l’eco di quella che è la vera Heimat della sua poesia: l’“ostinata
vita interstiziale” (p. 93), le “miniature sbreccate” (p. 22), “un cielo
privato ma condiviso” (p. 63),“il primo risveglio (gli basta anche un cenno) /
della vita dispersa e melmosa” (p. 108) – o come una dichiarazione di poetica:
“no, non è il gran mare dell’essere / di poeti e degli altisonanti filosofi /
[…]. / È, nel suo poco, qualcosa di meno e di più…..”, p. 115; “Il vuoto
lasciamolo al dopo / e ai suoi falsi, interessati profeti. / Al momento a me
basta questo rosario di sguardi”, p. 97. La presenza dei toponimi e degli
antroponimi convive con l’uso opaco dei deittici, nel disegnare scenari (o
nell’intrecciare tentativi di colloquio) calati spesso in una dimensione sospesa,
allucinata o visionaria, di “vicevita” – i viaggi, i sogni e la veglia, che
diventano le occasioni per attivare l’ascolto o lo sguardo rivolti alle figure
e alle “voci” della natura, piante alberi fiori e animali, captare i segnali
degli assenti e dei trapassati, in una fraterna o filiale comunanza e
reversibilità tra i vivi, i morti e i superstiti: “‘Ne va dell’esistenza… / di
un’esistenza muta: mia, vostra, loro’” (p. 37); “Rischio la vita per i morti. /
Rischio la vita per i vivi. / Incautamente sperando / nella pietà degli uni e
degli altri” (p. 11) – e infine: “i corpi degli esseri vivi in abbandono / i
corpi degli esseri morti dimenticati: / gli uni e gli altri più corporei che
mai” (p. 9).
A
proposito di Montale, Testa scriveva di un “passo doppio” come cadenza che ne
accompagna tutta l’opera poetica: di una poesia che vive insieme di una
“tensione all’oltre” e di una fedeltà alla “vita brulla”, “di quaggiù”[7],
di un pessimismo o scetticismo crescenti ai quali corrispondono una “non
rassegnata rassegnazione”, un “non pacifico disincanto”[8].
Che si riflettono col passare del tempo in una peculiare veste formale – “una
ricca povertà”[9]
– nella quale la semplicità e la “plebe linguistica”, la cadenza prosastica o
colloquiale, il lessico impoetico non scalzano mai “l’aristocrazia linguistica”
del codice lirico[10];
e l’aumento di plurilinguismo coabita anche negli anni del suo “stile tardo” (Satura e dintorni) con la compattezza e
la sostenutezza del tono, con la vertiginosa tensione o complessità
antropologica – “etnografica” – della sua “poesia di pensiero”. È una chiave di
lettura valida anche per decifrare la mobilità e la varietà dei registri
presenti in Cairn: perché all’oscillazione
dei referenti, tra primi piani e piani sequenza, allo statuto ambiguo e
straniante di certe scene e situazioni disegnate, sospese come di consueto tra
l’estrema concretezza e precisione anche lessicale dei dettagli e un velo
onirico e allucinatorio che le circonda, Testa risponde con un’apertura a
compasso delle risorse linguistiche ed espressive. E la figuralità, la
“permanenza” del codice lirico a tutti i livelli, dalla sintassi al lessico ricercato
alla metrica – le citazioni e i cultismi, le inversioni e le paronomasie, le neoformazioni
(come “lontanosvanente”, “taglioferita”, “quasivita”), le anafore e le
iterazioni, il ricorso all’endecasillabo e soprattutto la ricerca della rima in
clausola – convivono con un incremento di fenomeni linguistici e retorici di
segno opposto.
Mi
riferisco anche qui a certi procedimenti che probabilmente derivano dalla
lettura dei “suoi” poeti e in particolare dalla rivalutazione dell’ultimo
Montale, ma sono risolti in una chiave originale e convincente: i versi liberi
e prosastici, la punteggiatura serrata, l’incremento dell’intonazione
diaristica e dello stile elencatorio e nominale, le giustapposizioni, le terne (o
quaterne!) di aggettivi, verbi o sostantivi posti in sequenza, spesso per
asindeto e senza segni di interpunzione: “Pellegrini lamenti scongiuri riti”,
p. 25; “insieme balbetta prega ride grida / piange geme impreca tace”, p. 31; “al
cumulo di aliti suppliche fiati / respiri affanni preghiere”, p. 57; “e
schizzando vestito nero calze e scarpe / di liquido bianco vischioso denso”, p.
106, ecc.[11].
Un abbassamento del tono e in generale un lessico più “impuro” che talvolta
accoglie, registra e irride i barbarismi del parlato globalizzato, le derive della
lingua contemporanea: “i turisti i monti muti i ciancivendoli dei blog” (p.
10), “Prima che come preti antichi / il loro breviario, / riprendiate a
stringere tra le mani / smartphone o cellulari / e a connettervi al vostro
mondo” (p. 41), “doni spermatici o squirting equinoziali” (p. 25), “un tamtam
digitale” (p. 97), “u[n] bukkake!” (p. 106).
Spesso
in forma di aneddoti e appunti presi da un diario o da un giornale di bordo, tra
incontri e agnizioni, paesaggi familiari o esotici, parabole, occasioni private
e breviari metafisici in miniatura, le “sottopoesie” di Cairn, come Caproni definiva i suoi “versicoli” di Erba francese, fanno registrare indubbiamente
un mutamento nello stato d’animo e nella postura del soggetto lirico alle prese
con il degrado della realtà contemporanea (si veda su tutte la sezione Album di Capaneo): “il mio paese i suoi
politici / gli escalofonisti tutti – vecchi e nuovi – / i professionisti nel
maneggio dell’argilla / che impasta parole in nome dell’affare. // E il mio
starmale” (p. 46). Credo che per Testa il vero nume tutelare di questo (nuovo) sguardo
amaro e risentito, ai limiti dell’invettiva, che schernisce, giudica e condanna
i tempi presenti (oltre all’indignazione trattenuta e “borghese” di Sereni, il
Montale decostruttore dei miti d’oggi, l’ironia beffarda e i paradossi alla
maniera di Caproni) sia Philip Larkin, al quale non a caso sono dedicate due
traduzioni o rifacimenti proprio in questa sezione. Ma come avviene in certe
poesie dell’inglese (Finestre alte, Gli alberi), queste manifeste
dichiarazioni di misantropia e disgusto, disadattamento e non appartenenza
possono a volte coesistere con gli scatti verticali, con le epifanie o
evocazioni di una realtà “altra”, sospesa tra memoria, amore e dolore: tra i
tentativi di allocuzione e di ritorno salvifico nel cerchio degli scomparsi, la
fedeltà alle figure dei trapassati e a un “oltre” che pur insidiato dal
“ciarpame” del presente, non si consuma del tutto ma insiste e resiste come
“qualcosa di là da venire”[12]: “Siamo
ormai riconoscibili soltanto / per il sorriso sempre più lontano / del nostro
amarci, / per il gesto con cui ora / continuiamo – in eterno – a salutarci” (p.
38).
Como citar: MOLITERNI, Fabio. "' Un cielo privato ma condiviso': la poesia di Enrico Testa da Le faticose attese a Cairn". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022. Disponível em: https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240147
[1] TESTA, Enrico. Le faticose attese. Genova: San Marco
dei Giustiniani, 1988.
[2] TESTA, Enrico. Cairn. Torino: Einaudi, 2018 (d’ora in
avanti solo con l’indicazione di pagina).
[3] Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000. Torino: Einaudi, 2005.
[4] Come è attestato dalla
monografia TESTA, Enrico. Montale. Firenze:
Le Monnier, 2016, che risulta essere una riscrittura profondamente mutata di
quella apparsa per Einaudi nel 2000.
[5] Cfr. CORTELLESSA Andrea. “Enrico
Testa, sé come un altro”. In La fisica del senso Saggi e interventi su
poeti italiani dal 1940 a oggi. Roma: Fazi, 2006, pp. 528-533; ZUBLENA, Paolo.
“Enrico Testa”. In Parola plurale. Sessantaquattro poeti
italiani fra due secoli. Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia
Bello Minciacchi et alii (orgs.). Roma: Sossella, 2005, pp. 559-575; PETERLE, Patricia.
“Vagando qua e là. La poesia di Enrico Testa”. In Nuova corrente, n. 160, luglio-dicembre 2017, pp. 133-147.
[6] Cfr. LARKIN, Philip. Finestre alte, traduzione e cura di Enrico
Testa. Torino: Einaudi, 2002.
[7] TESTA, Enrico. Montale. Op. cit., p. IX.
[8] Idem, pp. 104-106.
[9] Ibidem, p. 112.
[10] Ibidem, p. 38.
[11] Fenomeni già presenti, in nuce, nella precedente raccolta, Ablativo, Torino, Einaudi, 2013, p. 9:
“[…] / camerate d’ansia / dove affiorano medici sadici / crudeli amici ostili
cose…”; “quanti ascensori ho già preso fin qui! / di alberghi condomini uffici
musei / università biblioteche ospedali / ciascuno diverso dall’altro / per
foggia arredo odore e colore”, p. 40; “elma in turco significa mela. / Iridescente
prisma delle lettere / che riflette separa ricongiunge / anche qui tra mura e
minareti”, p. 90; “[…] / Nevai o fondali o prati glaciali / rocce basalti
andesite. / A zero il male”, p. 96.
[12] Idem, p. 96. E ancora, da
una poesia tratta sempre da Ablativo dedicata
A Edoardo Sanguineti: “[…] / non
molto mi resta se non il desiderio di dirle, / sommesso replicando, / che nel
mondo oggi / (che lei vedeva ormai condiviso e uguale) / in realtà ci sono poi
di globale / solo la rete, le armi e i poveri / e che (il legame è oscuro ma
c’è) / i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del
pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi e a cosa non
so”, p. 37; ovvero, in una sereniana congiunzione tra morti, scomparsi e forma futuri: “[…] / Capisco allora che
siete voi / i veri officianti della cerimonia / pronti sempre ad insegnarmi /
che qualcosa non è ancora svanito / anche se, nel tempo, tutto è finito”, p.
113.
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