La poesia e la sapienza del mondo, di Marco Ceriani

“Un cielo privato ma condiviso”: la poesia di Enrico Testa da Le faticose attese a Cairn, di Fabio Moliterni

 

Foto: Dino Ignani


Enrico Testa è giunto al suo sesto libro di poesie e ha festeggiato proprio con il 2018 appena trascorso il trentennale della sua opera d’esordio[1]. I versi dell’ultima raccolta coprono gli anni 2012-2017[2]: si tratta di una gestazione pluriennale che viene puntualmente registrata ad apertura della Nota d’autore, così come avveniva nelle precedenti plaquette (con una scansione che solitamente indicava con regolarità la durata di un lustro tra una raccolta e la successiva). Sempre in dialogo con una precisa idea di poesia che discende dai suoi “maestri” riconosciuti, Montale Caproni e Sereni, nell’arco ormai di un trentennio la sua scrittura in versi è cresciuta al riparo dai rischi del manierismo, delle sterili imitazioni epigoniche e dalle sirene cagionevoli e volubili delle mode o del mercato. Voglio dire che la pronuncia di Testa si è fatta via via sempre più riconoscibile e personale, si è aperta con il tempo a una varietà significativa di registri formali e di risonanze concettuali, restando allo stesso tempo tenacemente fedele alle sue origini. È, questo, il segno di una tensione dialettica nella quale vive la sua scrittura in versi, che non si risolve mai in un dettato uniforme o monotono né appartiene con certezza a questa o a quella scuola, linea o corrente, e resta come sospesa sul crinale tra continuità e discontinuità, tradizione e postumità, tra un prima e un dopo la lirica, come recita il titolo di una sua antologia sulla poesia del secondo Novecento a tutti nota[3]: è una delle aporie o dei paradossi che attraversano la sua opera in versi, risuonando in particolare all’interno di questo ultimo libro. Dove, come cercherò di mostrare, alle costanti retoriche e tematiche della sua scrittura lirica, a certe modalità enunciative oramai riconoscibili e familiari si sovrappongono alcuni elementi di novità che forse risentono delle riletture critiche che, contemporaneamente alla stesura di Cairn, Testa andava facendo intorno a Montale e in particolare al Montale della “vecchiaia”, da Satura in poi[4]. Di seguito tratteggerò i punti salienti di questa tensione tra continuità e variazioni.
Come è stato fatto notare dai suoi migliori critici[5], la poesia di Testa si presenta da subito come un congegno o un dispositivo di stampo dialogico: difende l’autonomia, o meglio, la specificità del linguaggio lirico pur ricorrendo ai modelli semiotici di tipo teatrale e (pseudo)narrativo, aprendo i confini della forma lirica tradizionalmente intesa a una pluralità di voci e di personaggi, quadri fotogrammi o situazioni che vedono l’io alle prese con una folla di personae e con i nodi più o meno intricati delle relazioni umane, tra memoria e dolore, presente e passato. Questa condizione della voce poetica si traduce in pochi, costanti e precisi tratti retorico-formali che tornano di libro in libro: l’assenza all’inizio e alla fine di ogni componimento delle maiuscole e dei segni di interpunzione, per trasferire sulla pagina scritta il senso di una memoria che funziona come un continuum, un dire senza origine né fine; il succedersi di monologhi in miniatura che restituiscono la sensazione di un teatro mentale, interiore, accanto ai segni grafici che occupano la pagina indicando l’attivarsi del registro colloquiale, o comunque l’inserimento di altre voci che soppiantano o sostituiscono quella del soggetto lirico. Un soggetto che si presenta, in linea con lo statuto etico che regola la poesia di Testa, e a testimonianza della natura nient’affatto pacificata né conciliante di questi versi, come una entità enunciativa decentrata e spesso relegata ai margini (“aspetto un segnale da lontano / o provo a ricordare”, p. 95), “viandante”, monade “inert[e] o impazient[e]”, esiliata, rifratta e confusa nelle voci altrui ma allo stesso tempo vitale e necessaria, proprio perché è implicata, volente o nolente, nella rete dei rapporti, degli incontri e delle relazioni con gli altri: “Risaliamo tra la gente / E sono con voi, ancora. / Senza di voi, niente” (p. 100).
La sua poesia, indifferente alle mode passeggere e al trascorrere del tempo, vive da sempre di queste ossessive costellazioni di immagini, di questi tratti formali specifici e distintivi. È bene chiarire che siamo di fronte a uno strumentario retorico che deriva da un versante preciso della lirica italiana (con i suoi addentellati europei) del quale Testa è fine conoscitore, frequentandolo anche come lettore, traduttore e critico di poesia (da Montale, come detto, fino a Sereni e Caproni in compagnia magari di Philip Larkin)[6]. È da segnalare, piuttosto, come alla persistenza e alla tenuta di questi schemi o modelli retorici, veri e propri pattern della sua opera in versi, corrispondano una modulazione e pronuncia personali tra riprese e variazioni, contaminazioni e intrecci di registri stilistici diversi che, soprattutto in Cairn, dimostrano della vitalità della sua scrittura.
E allora: gli incisi o le parentetiche solcano capronianamente i versi con effetti di continue messe a fuoco o di cortocircuiti e slittamenti percettivi; le espressioni dubitative (“O forse…”, “Dicono che…”, “La mimica dei miei soliti / nonso, noncredo, forse…”, p. 37), insieme alla sintassi nervosa e alla frequenza emblematica di avversative (“eppure”, “ma”) testimoniano a un tempo dell’estraneità del soggetto al mondo presente e il suo radicato smarrimento esistenziale, ma anche la declinazione etica dello sguardo, medium prensile e recettivo per afferrare e riportare sulla pagina l’eco di quella che è la vera Heimat della sua poesia: l’“ostinata vita interstiziale” (p. 93), le “miniature sbreccate” (p. 22), “un cielo privato ma condiviso” (p. 63),“il primo risveglio (gli basta anche un cenno) / della vita dispersa e melmosa” (p. 108) – o come una dichiarazione di poetica: “no, non è il gran mare dell’essere / di poeti e degli altisonanti filosofi / […]. / È, nel suo poco, qualcosa di meno e di più…..”, p. 115; “Il vuoto lasciamolo al dopo / e ai suoi falsi, interessati profeti. / Al momento a me basta questo rosario di sguardi”, p. 97. La presenza dei toponimi e degli antroponimi convive con l’uso opaco dei deittici, nel disegnare scenari (o nell’intrecciare tentativi di colloquio) calati spesso in una dimensione sospesa, allucinata o visionaria, di “vicevita” – i viaggi, i sogni e la veglia, che diventano le occasioni per attivare l’ascolto o lo sguardo rivolti alle figure e alle “voci” della natura, piante alberi fiori e animali, captare i segnali degli assenti e dei trapassati, in una fraterna o filiale comunanza e reversibilità tra i vivi, i morti e i superstiti: “‘Ne va dell’esistenza… / di un’esistenza muta: mia, vostra, loro’” (p. 37); “Rischio la vita per i morti. / Rischio la vita per i vivi. / Incautamente sperando / nella pietà degli uni e degli altri” (p. 11) – e infine: “i corpi degli esseri vivi in abbandono / i corpi degli esseri morti dimenticati: / gli uni e gli altri più corporei che mai” (p. 9).
A proposito di Montale, Testa scriveva di un “passo doppio” come cadenza che ne accompagna tutta l’opera poetica: di una poesia che vive insieme di una “tensione all’oltre” e di una fedeltà alla “vita brulla”, “di quaggiù”[7], di un pessimismo o scetticismo crescenti ai quali corrispondono una “non rassegnata rassegnazione”, un “non pacifico disincanto”[8]. Che si riflettono col passare del tempo in una peculiare veste formale – “una ricca povertà”[9] – nella quale la semplicità e la “plebe linguistica”, la cadenza prosastica o colloquiale, il lessico impoetico non scalzano mai “l’aristocrazia linguistica” del codice lirico[10]; e l’aumento di plurilinguismo coabita anche negli anni del suo “stile tardo” (Satura e dintorni) con la compattezza e la sostenutezza del tono, con la vertiginosa tensione o complessità antropologica – “etnografica” – della sua “poesia di pensiero”. È una chiave di lettura valida anche per decifrare la mobilità e la varietà dei registri presenti in Cairn: perché all’oscillazione dei referenti, tra primi piani e piani sequenza, allo statuto ambiguo e straniante di certe scene e situazioni disegnate, sospese come di consueto tra l’estrema concretezza e precisione anche lessicale dei dettagli e un velo onirico e allucinatorio che le circonda, Testa risponde con un’apertura a compasso delle risorse linguistiche ed espressive. E la figuralità, la “permanenza” del codice lirico a tutti i livelli, dalla sintassi al lessico ricercato alla metrica – le citazioni e i cultismi, le inversioni e le paronomasie, le neoformazioni (come “lontanosvanente”, “taglioferita”, “quasivita”), le anafore e le iterazioni, il ricorso all’endecasillabo e soprattutto la ricerca della rima in clausola – convivono con un incremento di fenomeni linguistici e retorici di segno opposto.
Mi riferisco anche qui a certi procedimenti che probabilmente derivano dalla lettura dei “suoi” poeti e in particolare dalla rivalutazione dell’ultimo Montale, ma sono risolti in una chiave originale e convincente: i versi liberi e prosastici, la punteggiatura serrata, l’incremento dell’intonazione diaristica e dello stile elencatorio e nominale, le giustapposizioni, le terne (o quaterne!) di aggettivi, verbi o sostantivi posti in sequenza, spesso per asindeto e senza segni di interpunzione: “Pellegrini lamenti scongiuri riti”, p. 25; “insieme balbetta prega ride grida / piange geme impreca tace”, p. 31; “al cumulo di aliti suppliche fiati / respiri affanni preghiere”, p. 57; “e schizzando vestito nero calze e scarpe / di liquido bianco vischioso denso”, p. 106, ecc.[11]. Un abbassamento del tono e in generale un lessico più “impuro” che talvolta accoglie, registra e irride i barbarismi del parlato globalizzato, le derive della lingua contemporanea: “i turisti i monti muti i ciancivendoli dei blog” (p. 10), “Prima che come preti antichi / il loro breviario, / riprendiate a stringere tra le mani / smartphone o cellulari / e a connettervi al vostro mondo” (p. 41), “doni spermatici o squirting equinoziali” (p. 25), “un tamtam digitale” (p. 97), “u[n] bukkake!” (p. 106).
Spesso in forma di aneddoti e appunti presi da un diario o da un giornale di bordo, tra incontri e agnizioni, paesaggi familiari o esotici, parabole, occasioni private e breviari metafisici in miniatura, le “sottopoesie” di Cairn, come Caproni definiva i suoi “versicoli” di Erba francese, fanno registrare indubbiamente un mutamento nello stato d’animo e nella postura del soggetto lirico alle prese con il degrado della realtà contemporanea (si veda su tutte la sezione Album di Capaneo): “il mio paese i suoi politici / gli escalofonisti tutti – vecchi e nuovi – / i professionisti nel maneggio dell’argilla / che impasta parole in nome dell’affare. // E il mio starmale” (p. 46). Credo che per Testa il vero nume tutelare di questo (nuovo) sguardo amaro e risentito, ai limiti dell’invettiva, che schernisce, giudica e condanna i tempi presenti (oltre all’indignazione trattenuta e “borghese” di Sereni, il Montale decostruttore dei miti d’oggi, l’ironia beffarda e i paradossi alla maniera di Caproni) sia Philip Larkin, al quale non a caso sono dedicate due traduzioni o rifacimenti proprio in questa sezione. Ma come avviene in certe poesie dell’inglese (Finestre alte, Gli alberi), queste manifeste dichiarazioni di misantropia e disgusto, disadattamento e non appartenenza possono a volte coesistere con gli scatti verticali, con le epifanie o evocazioni di una realtà “altra”, sospesa tra memoria, amore e dolore: tra i tentativi di allocuzione e di ritorno salvifico nel cerchio degli scomparsi, la fedeltà alle figure dei trapassati e a un “oltre” che pur insidiato dal “ciarpame” del presente, non si consuma del tutto ma insiste e resiste come “qualcosa di là da venire”[12]: “Siamo ormai riconoscibili soltanto / per il sorriso sempre più lontano / del nostro amarci, / per il gesto con cui ora / continuiamo – in eterno – a salutarci” (p. 38).

Como citar: MOLITERNI, Fabio. "'Un cielo privato ma condiviso': la poesia di Enrico Testa da Le faticose attese a Cairn". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 2, mai-ago, 2022.  Disponível em:  https://repositorio.ufsc.br/handle/123456789/240147




[1] TESTA, Enrico. Le faticose attese. Genova: San Marco dei Giustiniani, 1988.
[2] TESTA, Enrico. Cairn. Torino: Einaudi, 2018 (d’ora in avanti solo con l’indicazione di pagina).
[3] Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000. Torino: Einaudi, 2005.
[4] Come è attestato dalla monografia TESTA, Enrico. Montale. Firenze: Le Monnier, 2016, che risulta essere una riscrittura profondamente mutata di quella apparsa per Einaudi nel 2000.
[5] Cfr. CORTELLESSA Andrea. “Enrico Testa, sé come un altro”. In La fisica del senso Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi. Roma: Fazi, 2006, pp. 528-533; ZUBLENA, Paolo. “Enrico Testa”. In Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli. Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi et alii (orgs.). Roma: Sossella, 2005, pp. 559-575; PETERLE, Patricia. “Vagando qua e là. La poesia di Enrico Testa”. In Nuova corrente, n. 160, luglio-dicembre 2017, pp. 133-147.
[6] Cfr. LARKIN, Philip. Finestre alte, traduzione e cura di Enrico Testa. Torino: Einaudi, 2002.
[7] TESTA, Enrico. Montale. Op. cit., p. IX.
[8] Idem, pp. 104-106.
[9] Ibidem, p. 112.
[10] Ibidem, p. 38.
[11] Fenomeni già presenti, in nuce, nella precedente raccolta, Ablativo, Torino, Einaudi, 2013, p. 9: “[…] / camerate d’ansia / dove affiorano medici sadici / crudeli amici ostili cose…”; “quanti ascensori ho già preso fin qui! / di alberghi condomini uffici musei / università biblioteche ospedali / ciascuno diverso dall’altro / per foggia arredo odore e colore”, p. 40; “elma in turco significa mela. / Iridescente prisma delle lettere / che riflette separa ricongiunge / anche qui tra mura e minareti”, p. 90; “[…] / Nevai o fondali o prati glaciali / rocce basalti andesite. / A zero il male”, p. 96.
[12] Idem, p. 96. E ancora, da una poesia tratta sempre da Ablativo dedicata A Edoardo Sanguineti: “[…] / non molto mi resta se non il desiderio di dirle, / sommesso replicando, / che nel mondo oggi / (che lei vedeva ormai condiviso e uguale) / in realtà ci sono poi di globale / solo la rete, le armi e i poveri / e che (il legame è oscuro ma c’è) / i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi e a cosa non so”, p. 37; ovvero, in una sereniana congiunzione tra morti, scomparsi e forma futuri: “[…] / Capisco allora che siete voi / i veri officianti della cerimonia / pronti sempre ad insegnarmi / che qualcosa non è ancora svanito / anche se, nel tempo, tutto è finito”, p. 113.