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Imagem: pxhere.com |
La
scienza storica ci lascia nell’incertezza circa gli individui. Non rivela che i
punti in base ai quali essi erano associati alle azioni generali. Ci dice che
Napoleone era sofferente il giorno di Waterloo, che occorre attribuire l’eccesso
di attività intellettuale di Newton alla continenza assoluta del suo
temperamento, che Alessandro era ubriaco quando uccise Clito e che la fistola
di Luigi XIV ha potuto essere la causa di certe sue risoluzioni. […] Tutti
questi fatti individuali hanno valore solo perché hanno modificato gli
avvenimenti o avrebbero potuto deviarne la serie. Sono delle cause reali o
possibili. [...] L’arte è contraria alle idee universali, descrive solamente
l’individuale, desidera solo l’unico. Non classifica; declassifica. […].[1]
Ed è da questo sentimento dell’individuale, rintracciabile
nelle crepe della storia o della cronaca, che comincia a delinearsi, sin dagli
anni sessanta, l’opera narrativa di Juan Rodolfo Wilcock, dal momento che proprio
nelle notizie di cronaca possono annidarsi, ben al di là delle apparenze,
paradossi e illogicità, che rivelano la “mostruosa” contingenza del quotidiano.
Roland Barthes, non a caso, fa del fait
divers un genere narrativo.
Per iniziare, vorrei soffermarmi dunque su alcuni segnali
di uno sfilacciamento sottile dei processi relazionali e sociali di un
quotidiano tanto comune quanto disforme in questa sua presunta normalità. In
uno dei pochi inserti affabulatori, ancorché sintomi di una crisi dialogica già
in atto, scrive Beckett in Finale di
partita (1957):
Un
inglese [...] avendo bisogno d’urgenza di un paio di pantaloni a righe per le
feste dell'anno nuovo, va dal suo sarto che gli prende le misure. (Voce del
sarto) “Ecco fatto, ritorni tra quattro giorni, saranno pronti”. Bene. Quattro
giorni dopo. (Voce del sarto) “Sorry, torni tra otto giorni, ho sbagliato il
fondo”. Bene, d'accordo, il fondo non è una cosa semplice. Otto giorni dopo.
(Voce del sarto) “Desolato, ritorni tra dieci giorni, ho sballato il cavallo”.
Bene, d'accordo, il cavallo è una cosa delicata. Dieci giorni dopo. (Voce del
sarto) “Spiacente, torni tra quindici giorni, l'apertura è venuta male”. Bene,
effettivamente una bella apertura pone dei problemi. […] Insomma, per farla
breve, un giorno dopo l'altro, arriva la Santa Pasqua e sbaglia le bottoniere. […]
“Goddam, sir, ma dove andiamo a finire, è una cosa indecente, ci sono dei
limiti! In sei giorni, ha capito, in sei giorni Dio ha fatto il mondo. Proprio
così, egregio signore, il mondo! E lei non è stato capace di fare un paio di
pantaloni in tre mesi!” (Voce del sarto, scandalizzato) “Ma Milord! Ma Milord!
Guardi... (gesto di disprezzo, con disgusto)... il mondo... (pausa)... e
guardi... (gesto amorevole, con orgoglio)... i miei pantaloni!”.[2]
Questa sorta di sartoria esistenziale si era già trovata
nella Passeggiata (1917) di Robert
Walser, quando il mite narratore ribolle improvvisamente d’ira per un vestito
mal cucito:
Lei
permetterà che le chieda di apportare a questo vestito, che in base
all’accurata prova or ora effettuata presenta un visibilio di difetti, imperfezioni
e manchevolezze, significative e radicali modifiche. […] Lo scontento,
l’irritazione e la tristezza che provo mi costringono a dichiararle che lei mi
ha fatto andare in collera […]. Un vestito come questo ha in sé qualcosa di
misero, di squallido, di meschino, denuncia una mentalità puerile, timorosa,
casereccia.[3]
Insomma, in questo vestito si può cogliere una metafora
del mondo, quel mondo che, infatti, non calza bene all’io che racconta, il
quale aderisce ragionevolmente alle misure dello stesso Walser. Walser che
nella sobrietà e delicatezza quasi infantile dei suoi racconti va già
raccogliendo la sua inadattabilità ad un mondo invadente e minaccioso.
E come, allora, non ricordare Camminare (1971), di Thomas Bernhard, libro loico e logorroico, opera
tra le più radicali del Beckett danubiano, come ebbe modo di definirlo Claudio
Magris? La martellante meccanicità del resoconto del narratore incalza
implacabilmente un ordine del discorso umanista o positivista. Karrer, amico di
Oehler, dà di matto ed è internato al termine di un’estenuante discussione in
un negozio di abbigliamento circa la reale origine di un paio di pantaloni:
merce di scarto cecoslovacca o tessuto inglese di primissima qualità?
Karrer
con il bastone alzato dice: non ho niente contro la lavorazione dei pantaloni,
no, non ho niente contro la lavorazione, non parlo certo della lavorazione ma
della qualità dei tessuti, niente contro la lavorazione, assolutamente niente
contro la lavorazione, cerchi di capirmi, ripete Karrer più volte al commesso
[…].[4]
(Si può tra l’altro pensare, per completare queste
divagazioni sartoriali, alla testimonianza di Elio Pecora su Wilcock, quando
scrive: “Portava giacche più grandi della sua misura, di lana inglese”[5]).
Con queste premesse, quindi, si può ora meglio
contestualizzare un’opera come Fatti
inquietanti (1961), in cui
la letteratura sembra perdere i suoi attributi inventivi o creativi ed
avvicinarsi ad un grado zero nell’incontro con la cronaca; ma in realtà è
l’elemento strano, sorprendente, veridico della cronaca a risignificarsi
attraverso il sottile filo ironico offerto da questo tipo di riscrittura. Da
questa operazione, l’elemento veridico (pur con tutta la cautela che questa definizione
esige) non ne esce mortificato, bensì ripotenziato, proprio perché letto
attraverso la filigrana del suo elemento grottesco.
Barthes nel suo famoso articolo “La structure du fait
divers”, apparso in Essais critiques,
nel 1964, distingue tra notizia e fait
divers (generalmente tradotto come “fatto di cronaca”): la notizia, per esempio un assassinio
politico, rimanda ad un contesto esterno all’avvenimento in sé, cioè, per
quanto possano essere sommarie, fa riferimento a circostanze già conosciute. In
tal senso, le notizie sono un frammento di qualcosa di più ampio. Scrive Barthes:
“letterariamente sono frammenti di romanzi, nella misura in cui ogni
romanzo è di per sé un vasto sapere i cui fatti che vi succedono non ne sono
che una semplice variabile”.[6] Nel secondo caso, invece,
i fatti di cronaca sono
un’informazione, cioè devono incontrare in sé tutti gli elementi utili alla
loro comprensione, ancorché possano, ma secondo una operazione già più
intellettuale, rapportarsi ad una situazione generale del mondo, e quindi non
dirsi estranei ad esso. Dunque, Barthes specifica che il fait divers, il fatto di cronaca, “si apparenta al racconto o alla favola,
piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza a definirlo”. Quel che qui
interessa però – riassumendo i concetti di Barthes – è che, per esempio, nei
rapporti di causalità questa stessa causalità sia aberrante, deviata rispetto
ad una relazione lineare o “naturale”, cosa che avviene nei prodigi e nei
crimini. E se, per esempio, nel fatto di cronaca, al contrario del romanzo, un
delitto è più inspiegato che inspiegabile, questo divario può essere colmato da
una “deviazione causale”, ossia, ci si aspettava un movente ma ne viene fuori
un altro. Ragiona Barthes: “Giovane cameriera rapisce il neonato dei suoi datori di lavoro: per
ottenere un riscatto? No, perché amava il bambino. Un vagabondo aggredisce
donne sole: sadico? No, semplice scippatore. In tutti questi esempi, si nota
bene come la causa rivelata sia in qualche modo più povera di quella che ci si
attendeva”. Il fatto di cronaca ci dice che l’uomo è sempre collegato a
qualcos’altro, che la natura è piena di echi, relazioni e movimenti; ma d’altra
parte, questa stessa causalità è costantemente minata da forze che gli
sfuggono; disturbata senza però scomparire, rimane in qualche modo sospesa tra
il razionale e l’ignoto, offerta a uno stupore fondamentale. Come accennavo all’inizio, Barthes conclude che “il fatto di cronaca è
letteratura, sebbene questa letteratura sia considerata cattiva letteratura”. Aggiungendo: “il ruolo del fatto di
cronaca verosimilmente è quello di preservare in seno alla società
contemporanea l’ambiguità del razionale e dell’irrazionale, dell’intellegibile
e dell’insondabile; e questa ambiguità è storicamente necessaria nella misura
in cui i segni siano all’uomo ancora necessari (il che lo rassicura), ma dove è
anche necessario che tali segni siano di contenuto incerto (il che lo
deresponsabilizza)”.
Questa lunga digressione sul fait
divers o fatto di cronaca riconduce dunque alla costruzione, apparentemente
lineare, dei fatti di Wilcock, in cui
una deviazione causale o, per meglio dire, una deviazione significante si
ottiene attraverso una piccola breccia, spesso appena evidente, spesso ironica,
nella presunta oggettività narrante. Nei Fatti inquietanti, in effetti, basta una minima chiosa per
intaccare ironicamente l’oggettività narrativa del frammento di cronaca. Per
esempio, in “Cinture di velocità” si legge a corollario di una notizia stramba:
“Gli amanti, gli assassini e i postini entreranno dalle finestre aperte, e
l’uomo sembrerà più che mai un insetto”.[7] O, a proposito della
resistenza delle zanzare al DDT: “Questa dimostrazione dell’inimmaginabile
duttilità della natura, sembra comunque offrire una vaga speranza a coloro i
quali temono che la razza umana possa sparire dalla terra in seguito a una
guerra atomica”.[8]
Oppure si prenda il parrucchiere genovese, che si chiude in un mutismo e si
rivolge alla famiglia solo tramite raccomandate. E ancora, sul turismo di
massa, si veda la chiosa finale: “Correre senza fermarsi, guardare senza
vedere, accumulare testimonianze senza ricordi, occuparsi soltanto di arrivi e
partenze, e intanto dimenticare, dimenticare”,[9] che fa il paio con le analisi
di Agamben sulla perdita di esperienza in Infanzia
e storia.
Sulla scia delle considerazioni fatte finora, anche Thomas
Bernhard, al contrario del suo stile abituale, ne L’imitatore di voci (1978), sceglie la sobrietà linguistica,
prende anche lui spunto dalla cronaca e dai frammenti di notizie dei giornali
per dare una pretesa di oggettività al linguaggio. Con sottile sarcasmo, ci
dice che nella banalità dei fatti si nasconde la loro brutale mostruosità. Ed
ecco allora, pompieri che ritirano il telone da sotto il suicida, il turco che
per spirito di carità strangola la signora che lo aveva accolto in casa, il
signore italiano che si innamora di una bambola-manichino, la donna che viene
ammazzata dal marito perché salva dalle fiamme il figlio sbagliato, il concerto
interminabile a beneficio di sordomuti.
E per tornare a Wilcock, anche le atmosfere dei racconti (si prenda Il caos, primo libro pubblicato in Italia, nel 1960) sono sempre grottesche, ciniche, di bestiale umanità. Si legge in epigrafe: “La tendenza naturale delle cose è il disordine”, parole di Erwin Schroedinger, non a caso fisico teorico, così come Wilcock è ingegnere, tracciando una relazione decisiva tra scienza, fatto, realtà e creatività letteraria. “E quella verità era l’assoluto impero del caos, l’onnipresenza del nulla, la spuma inesistente della nostra esistenza”, si legge nel racconto omonimo, già a tracciare ossimoricamente i poli di tensione presenti nell’opera di Wilcock.
E significativi in tal senso appaiono anche i versi di “A
mio figlio”, pubblicati in Luoghi comuni (1961), in cui si riafferma certa
commistione, se non ribaltamento programmatico, delle frontiere tra
“fattualità” e “invenzione”:
Ricorda che c’è una sola cosa
affermativa, l’invenzione;
il sistema invece è caratteristico
della mancanza d’immaginazione.[10]
Tra l’altro, a partire da “Un consiglio” (altra poesia
della raccolta), Arturo Mazzarella parla di “luogo comune che si presenta a
Wilcock come pura idolatria della convenzione linguistica, come automatica
condivisione, e riproduzione, dei legami tradizionalmente instaurati tra i
significati e i significanti, tra le parole e le cose”.[11] Insomma, la consapevolezza
del luogo comune come “irreversibile processo di depotenziamento semantico del
linguaggio”, al quale, attraverso anche una nuova disposizione e traslocazione
sintattica, vogliono opporsi le notizie, i fatti, i frammenti, le biografie
immaginarie di Wilcock.
Il fare a pugni con la logica del mondo, allora, già
intrinseca nei frammenti di cronaca dei Fatti,
si costituisce come elemento propedeutico, in un certo senso, alle gallerie di
biografie immaginarie e personaggi bizzarri che popoleranno La sinagoga degli iconoclasti e Lo stereoscopio dei solitari, libri
praticamente gemelli, entrambi usciti nel 1972. E se per Lo Stereoscopio si può parlare di personaggi e situazioni bizzarre
e sconfinate nel territorio di un’immaginazione visionaria, con la Sinagoga Wilcock si avvicina al filone
delle biografie immaginarie appese ad un tenue filo storicistico e scientifico,
a voler idealmente proseguire sulla strada delle Vite immaginarie narrate da Marcel Schwob, per
riprendere la citazione iniziale. Nello Stereoscopio,
in particolare, il fatto di cronaca
ha assunto aspetti di grottesca deformità, come per esempio il caso
dell’ospedale “rinomato per i suoi disguidi da quando un rotocalco mestatore ha
reso pubblica la fotografia clandestina dello scambio dei neonati, in cui si
vedeva una giovane ricoverata che allattava due cagnolini e nella corsia
attigua una giovane cagna che allattava due bambini”.[12] Nel Libro dei mostri (1978), poi,
gli elementi emersi sin qui si fonderanno, sconfinando definitivamente nella
deformità del fantastico quotidiano (geometri, ragionieri, commercialisti, dottori,
cardinali, sostituiti procuratori, professori, agrimensori, studenti, hanno qui
compiuto la loro definitiva metamorfosi in oggetti, strani esseri, insomma, in
veri e propri mostri, come la signora Del Rotto, che conserva il marito allo
stato liquido, o Fulvia Net, che vive e interagisce nonostante sia in avanzato
stato di decomposizione, come avveniva al signor Munster di saviniana memoria).
Insomma, partendo dal fatto di cronaca, il quotidiano ha
assunto definitivamente i tratti del grottesco e del fantastico, è ormai in
avanzato stato di putrefazione. Come lo stesso Wilcock scrive ne Il reato di scrivere (2009), si è forse compiuto quel programma di “sostituire le orribili
(perché incomprensibili e incomprensive) persone che ci circondano con essere
immaginati, comprensibili e comprensivi”,[13] cosa che farebbe felici,
oltre ai pittori, anche i veri e importanti scrittori.
Se sul piano delle immagini, quindi, si è visto come la
chiave è il reale visto attraverso la sua deformazione, alla stregua di un
Francis Bacon, questa operazione va comunque condotta all’interno di un uso
parco della lingua. Ne Il reato di
scrivere, ci dice ancora Wilcock, “Frasi come ‘Oggi mi sono alzato tardi’
oppure “Proprio davanti a casa sono caduto per strada’ sono già un racconto. In
questa che è la sua forma più elementare, la narrativa non può scomparire,
finché la lingua esiste”.[14] Ecco dunque, ancora una
volta, lo spunto offerto dal mondo e dalla cronaca e, allo stesso tempo, la
necessità di uno straniante e indispensabile allontanamento da essi. E per far
questo, è necessario uscire dagli schemi, e, nello straordinario caso di
Wilcock, finanche rivestirsi dei panni di una lingua e di una cultura altre.
Como citar: SANTURBANO, Andrea. " La reinvenzione del quotidiano, tra cronache, microstorie e vite immaginarie". In "Revista de Literatura Italiana", v. 3, n. 3, set-dez, 2022. Disponível em:
[1] M. Schwob, Vies imaginaires,
Paris 1896, in http://www.gutenberg.org/files/49712/49712-h/49712-h.htm (traduzione nostra).
[2] In
http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/BECKETT%20Samuel__Finale%20di%20partita__null__U(3)-D(1)__Dramma__2a.pdf.
[3] R. Walser, La passeggiata,
Milano, Adelphi, 1976.
[4] T. Bernhard, Camminare, Milano,
Adelphi, 2018.
[5] E. Pecora, “Un
ritratto”, in R. Deidier (a cura di), Segnali sul nulla. Studi e testimonianze per Juan Rodolfo Wilcock, Istituto della Enciclopedia italiana, 2002,
p. 15.
[6] R. Barthes, “Struttura del fatto di cronaca”, trad. Francesco Forlani, in https://www.nazioneindiana.com/2014/04/02/i-fatti-di-roland-barthes-prima-parte/. Anche per i frammenti seguenti è stata utilizzata questa fonte.
[7] J.R. Wilcock, Fatti inquietanti,
Milano, Adelphi, 1992, p. 19.
[8] Ivi, p. 24.
[9] Ivi, p. 235.
[10] J.R. Wilcock, Poesie, Milano, Adelphi, 1980, p. 36.
[11] A. Mazzarella, “Per una poetica del luogo comune”, in R. Deidier (a cura
di), Segnali sul nulla, cit., p. 71.
[12] J.R. Wilcock, Lo stereoscopio dei
solitari, Milano, Adelphi, 1989, p. 139.
[13] J.R. Wilcock, Il reato di scrivere,
Milano, Adelphi, 2009, p. 53.
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